Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 843 del 17/01/2014


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 843 Anno 2014
Presidente: MERONE ANTONIO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO

SENTENZA

sul ricorso 23041-2008 proposto da:
AGRICOLA IMMOBILIARE FONDI SAIF SRL in persona
dell’Amministratore Unico, elettivamente domiciliato
in ROMA PIAZZALE CLODIO 56, presso lo studio
dell’avvocato BONACCIO GIOVANNI, che lo rappresenta e
difende giusta delega a margine;
– ricorrente contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DI FORMIA in persona del
Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in
ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA
GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende

Data pubblicazione: 17/01/2014

ope legis;
– controricorrente nonchè contro

MINISTERO ECONOMIA E FINANZE;
– intimato –

la

sentenza

COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST.

n.

di LATINA,

458/2007

della

depositata il

29/06/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 06/11/2013 dal Consigliere Dott.
FRANCESCO TERRUSI;
udito per il ricorrente l’Avvocato PACILIO delega
Avvocato BONACCIO che ha chiesto l’accoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato DE SOCIO che
ha chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ENNIO ATTILIO SEPE che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

avverso

‘.,

23041-08

Svolgimento del processo
La Società agricola immobiliare Fondi – Saif s.r.l. ha
proposto ricorso per cassazione contro la sentenza della
commissione tributaria regionale del Lazio, sez. dist. di
Latina, depositata in data 29 giugno 2007, di conferma di

un provvedimento di diniego di definizione di lite
pendente ai sensi dell’art. 16 della 1. n. 289 del 2002.
La sentenza ha condiviso la tesi dell’amministrazione
secondo la quale la lite fiscale relativa all’Invim
decennale, originata da un avviso di accertamento, non
poteva considerarsi pendente alla data di entrata in
vigore della 1. n. 289 del 2002, in quanto già definita
con sentenza di questa corte n. 8427-02, rispetto alla
quale il ricorso per revocazione, proposto dalla società,
era stato a sua volta dichiarato inammissibile.
La ricorrente ha articolato quattro motivi.
L’amministrazione ha replicato con controricorso e
successiva memoria.
Motivi della decisione
I. – Col primo motivo, deducendo

violazione e falsa

applicazione di norme di diritto (art. 16 della 1. n. 28902 e 391-bis c.p.c.) e omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione della sentenza, la ricorrente
censura la sentenza affermando che la lite fiscale,
secondo il disposto della 1. n. 289 del 2002, deve
considerarsi pendente quando contro la pronuncia di
cassazione sia ancora possibile, e sia stato concretamente

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esperito, il rimedio della revocazione ordinaria ai sensi
dell’art. 395, n. 4, e 391-bis c.p.c.
Il mezzo è infondato.
La domanda di definizione, in base alle allegazioni della
stessa ricorrente, era stata presentata in relazione a una
lite conseguita all’impugnazione di un avviso di
liquidazione dell’Invim decennale. L’impugnazione era

e

stata accolta in primo grado, ma la sentenza era stata, in
appello, interamente riformata. Contro la decisione di
secondo grado, la società aveva proposto ricorso per
cassazione che, tuttavia, questa corte, con sentenza n.
8427-02, depositata il 13 giugno 2002, aveva dichiarato
inammissibile.
Consegue che non è dubitabile che, alla data indicata
dall’art. 16, 3 ° co., della 1. n. 289-02 (29 settembre
2002), era nel caso di specie già sopravvenuto il
giudicato sul rapporto controverso.
II. – Non rileva la sottoponibilità della sentenza di
cassazione a revocazione per errore di fatto. Né rileva
che, in effetti, il ricorso per revocazione sia stato
proposto dalla ricorrente prima di presentare la domanda
di condono.
Invero, in base all’art. 391-bis, 4 ° co., c.p.c., la
pendenza del termine per la revocazione della sentenza
della corte di cassazione non impedisce il passaggio in
giudicato della sentenza impugnata con ricorso per
cassazione respinto. E, in base all’art. 391-bis, 5 ° co.,
c.p.c., in caso di impugnazione per revocazione della

2

sentenza della corte di cassazione non è ammessa la
sospensione dell’esecuzione della sentenza passata in
giudicato.
La revocazione ex art. 391-bis c.p.c. è un rimedio
straordinario, la cui astratta spendibilità non vuole
affatto indicare che la sentenza d’appello, ove il ricorso

per cassazione sia rigettato o (come nella specie)
dichiarato inammissibile non sia comunque soggetta a
giudicato (salvo ovviamente l’esito del rimedio
straordinario in effetti proposto).
La giurisprudenza di questa corte è da tempo orientata ad
affermare (a partire da Cass. n. 3083-96) che il
legislatore, pur avendo ammesso, nei limiti dell’ errore
di fatto, il ricorso per revocazione avverso le sentenze
della corte, con l’art. 391-bis c.p.c., ha inteso porre un
ostacolo a ricorsi meramente dilatori e strumentali,
diretti a impedire il formarsi del giudicato.
In tal guisa l’art. 391-bis, 5 ° co., costituisce norma
speciale e derogatoria dell’art. 324 c.p.c., proprio
perché, regolando autonomamente gli effetti della
revocazione contro la sentenza della corte di cassazione,
riguarda un istituto peculiare, che deve esser coordinato
col principio che individua nella sentenza della corte il
momento terminale del processo e che si distingue dalla
diversa situazione normativa in cui la revocazione
ammessa avverso le sentenze di merito (v. Cass. n. 838803)

3

Per tale ragione, ai fini del giudicato sul rapporto
controverso, occorre aver riguardo pur sempre al momento
del deposito della decisione della corte di cassazione, la
quale,

nel

caso

di

rigetto

(o

dichiarazione

di

inammissibilità) del ricorso, determina il passaggio in
giudicato della sentenza, non essendo lo stesso impedito

dalla pendenza del termine per la revocazione ex art. 391bis c.p.c. (e v., conf., in tema di equa riparazione per
violazione del diritto alla ragionevole durata del
processo, ai fini della decorrenza del termine di cui
all’art. 4 1. 24 marzo 2001 n. 89, Cass. n. 21863-12).
Sicché può essere enunciato il seguente principio di
diritto: “Dall’art. 391-bis, 4 0 e 5 ° co., c.p.c. va
desunta una norma incidente sulla formazione del
giudicato, secondo l’ art. 324 c.p.c., eccezionale – e
quindi di stretta applicazione – per la quale la
proposizione di un ricorso per revocazione impedisce il
passaggio in giudicato della sentenza impugnatak solo ove
il ricorso per cassazione sia stato accolto; invece, con
ovvia finalità di evitare la proposizione di ricorsi
meramente dilatori e diretti a impedire la formazione del
giudicato, qualora una sentenza della corte di cassazione
abbia rigettato il ricorso, e lasciato immutata la
sentenza impugnata, tanto per ragioni processuali, quanto
per la reiezione dei motivi nel merito, si forma il
giudicato, che non è inciso dalla proposizione
dall’astratta

proponibilità)

di

un

ricorso

(o
per

revocazione”.

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E, in conformità al principio, il primo mezzo va
rigettato.
III. – Col secondo motivo la ricorrente deduce la nullità
della sentenza ai sensi dell’art. 112 c.p.c., per avere la
commissione tributaria regionale pronunciato
o

extra petita,

ultra petita

in quanto l’agenzia delle entrate,

appellando la sentenza di primo grado, non ne aveva
chiesto la riforma,

t

“ma il mero rigetto di una

interpretazione adottata con la sentenza appellata”.
Il

motivo

è manifestamente

inammissibile per

la

contraddittorietà e la pretestuosità del quesito di
diritto.
L’appello

col

quale

si

chieda

di

respingere

l’interpretazione adottata dal giudice di primo grado in
ordine alla ritenuta definibilità della lite fiscale è
chiaramente diretto a ottenere la riforma della sentenza.
IV.

– I restanti motivi sono suscettibili di unitario

esame.
Col

terzo

motivo,

deducendo

violazione

e

falsa

applicazione di norme di diritto (artt. 7 e 52 del d.lgs.
n. 546 del 1992 e 75, 83 e 182 c.p.c.), e omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione della
sentenza, la ricorrente assume che non poteva considerarsi
validamente conferita, all’ufficio periferico dell’agenzia
delle entrate, l’autorizzazione a proporre appello contro
la sentenza di primo grado, in quanto l’autorizzazione,
pur nell’indicazione della persona autorizzante, era stata

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sottoscritta con segno grafico informe e non qualificabile
come sigla.
Col quarto, connesso, motivo la ricorrente deduce la
violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art.
52 del d.lgs. n. 546 del 1992), eccependo l’invalidità,
per indeterminatezza e per genericità, dell’autorizzazione

data all’ufficio periferico dell’agenzia delle entrate per
interporre appello contro la sentenza di primo grado, in
quanto l’autorizzazione non conteneva alcun riferimento
alla sentenza impugnata o alcun altro elemento utile al
riguardo.
I detti motivi sono da disattendere per l’assorbente
rilievo di erroneità del presupposto.
Nel processo tributario, la disposizione dell’art. 52, 2 °
co., del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, secondo la quale
gli uffici periferici del dipartimento delle entrate del
Ministero delle finanze e gli uffici del territorio devono
essere previamente autorizzati alla proposizione
dell’appello principale, rispettivamente, dal responsabile
del servizio del contenzioso della competente direzione
generale delle entrate e dal responsabile del servizio del
contenzioso della competente direzione compartimentale del
territorio, non è più suscettibile di applicazione una
volta divenuta operativa – in forza del d.m. 28 dicembre
2000 – la disciplina recata dall’art. 57 d.lgs. 30 luglio
1999 n. 300, che ha istituito le agenzie fiscali,
attribuendo a esse la gestione della generalità delle
funzioni in precedenza esercitate dai dipartimenti e dagli

6

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uffici del ministero delle finanze, e trasferendo alle
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i relativi rapporti giuridici,

competenze,

da

esercitarsi

secondo

la

poteri e
disciplina

dell’organizzazione interna di ciascuna agenzia.
A seguito della soppressione di tutti gli uffici e organi

d.lgs. n. 546 del 1992, infatti, da tale norma non possono
farsi discendere condizionamenti al diritto delle agenzie
di appellare le sentenze a esse sfavorevoli delle
commissioni tributarie provinciali (v. sez. un. n. 60405)
V. – Spese alla soccombenza.
p.q.m.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle
spese processuali, che liquida in euro 12.000,00 per
compensi, oltre le spese prenotate a debito.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta
sezione civile, addì 6 novembre 2013.
P

t

ministeriali ai quali fa riferimento l’art. 52, 2 ° co.,

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