Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8423 del 12/04/2011

Cassazione civile sez. III, 12/04/2011, (ud. 03/03/2011, dep. 12/04/2011), n.8423

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 19527/2009 proposto da:

R.R. (OMISSIS) in proprio e nella qualità di

socio accomandatario della ELDA Sas di Risso Roberto & C. e

R.

M. in proprio e nella qualità, elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA DEI CONDOTTI 9, presso lo studio degli avvocati MORIGI

Enrico e CELANI CARLO, che li rappresentano e difendono, giusta

delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

B.G., BI.GI., Z.M. in qualità

di erede di Z.G., ZU.MA. in qualità di erede di

Z.G., S.V. in qualità di erede di Z.

G., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SIMON BOCCANEGRA

8, presso lo studio dell’avvocato GIULIANI Fabio, che li rappresenta

e difende, giuste procure speciali in calce al controricorso;

– controricorrenti –

e contro

B.P., M.C., B.F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 659/2008 della CORTE D’APPELLO di GENOVA del

20.6.06, depositata il 04/06/2008; udita la relazione della causa

svolta nella camera di consiglio del 03/03/2011 dal Consigliere

Relatore Dott. ANTONIO SEGRETO;

udito per i controricorrenti l’Avvocato Mario Giuliani (per delega

avv. Fabio Giuliani) che si riporta agli scritti.

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. IMMACOLATA

ZENO che nulla osserva rispetto alla relazione scritta.

Fatto

CONSIDERATO IN FATTO

che è stata depositata in cancelleria la seguente relazione, regolarmente comunicata al P.G. e notificata ai difensori: “Il relatore, Cons. Dott. Antonio Segreto, letti gli atti depositati, osserva:

1. B.G., Bi.Gi., Z.G., B.F., B.P. e M.C. convenivano davanti al tribunale di Savona, sede distaccata di Albenga, R. R. e R.M., in proprio e quali legali rappresentante della s.a.s. EL.DA di Risso Roberto e c., per sentirli condannare alla restituzione delle somme indebitamente percepite da ciascuno di loro, oltre interessi e rivalutazione, assumendo che tali somme erano state indebitamente percepite dai convenuti nello svolgimento dell’attività di consulente fiscale dei singoli attori, mediante illecita appropriazione degli importi ricevuti per il pagamento di oneri tributari.

I convenuti si costituivano nella duplice qualità e resistevano alla domanda.

Il tribunale accoglieva la domanda, condannando i convenuti al pagamento di distinte somme per ciascuno degli attori.

Proponevano appello R.R. e M., in proprio e nella qualità. La corte di appello di Genova, con sentenza depositata il 4.6.2008, rigettava l’appello. Riteneva la corte territoriale, per quello che ancora interessa, che la somma ricevuta in sede penale dall’attore a titolo risarcitorio non estingueva il suo credito, essendo stata ricevuta solo a titolo di acconto nel processo penale terminato con sentenza di patteggiamento; che l’entità del credito di parte attrice risultava dagli assegni versati dai singoli attori ai convenuti ed accertati in sede penale, in raffronto a quanto dovuto effettivamente per varie causali.

Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i convenuti nella duplice qualità.

Resistono con controricorso gli attori.

2.1. Con il primo motivo di ricorso la parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., in relazione all’art. 62 c.p., n. 6 (in ordine alla carenza di interesse ad agire in sede civile da parte della resistente in riferimento alle domande di natura risarcitoria.

2.2. Con il secondo motivo di ricorso la parte ricorrente lamenta l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio e nella specie circa la natura interamente satisfattiva del pagamento effettuato dal ricorrente in sede penale.

Assumono i ricorrenti che erroneamente la sentenza impugnata non ha ritenuto completamente satisfattivo il pagamento effettuato in sede penale, in quanto lo era stato non a titolo parziale, ma definitivo e che la pretesa quietanza in acconto era stata rilasciata dalle parti civili al loro difensore quale esecutore della ripartizione delle somme versate dai R..

3. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., in relazione all’art. 1965 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) in ordine alla carenza di interesse ad agire in sede civile da parte del resistente in riferimento alle domande di natura risarcitoria per intervenuta transazione. Assumono i ricorrenti che la parte attrice aveva ricevuto senza riserve la somma offerta a titolo transattivo, con conseguente carenza di interesse all’attuale domanda.

Secondo i ricorrenti non sarebbe stata provata l’entità delle somme versate dalla parte attrice, che non risultava prenditrice degli assegni.

5. I suddetti tre motivi, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Essi sono in parte manifestamente infondati ed in parte inammissibili.

La corte territoriale con valutazione di merito, rientrante nei suoi esclusi poteri, e con motivazione immune da insufficienza o contraddittorietà, ha rilevato che l’assunto dell’avvenuta transazione in sede penale dell’intero danno, confligge da un lato con il raffronto aritmetico tra quanto esigibile e quanto corrisposto e che in ogni caso mancava qualsiasi manifestazione di volontà della parte attrice, creditrice, di rinunziare al residuo. Le censure mosse dai ricorrenti in merito all’interpretazione letterale di tale quietanza sono inammissibili, in quanto sul punto non risulta rispettato il principio di autosufficienza del ricorso, non essendo stata trascritta la quietanza in questione.

Qualora, con il ricorso per Cassazione, venga dedotta l’omessa od insufficiente motivazione della sentenza impugnata per l’asserita errata valutazione di risultanze processuali (un documento, deposizioni testimoniali, dichiarazioni di parti, accertamenti del c.t., ecc.), è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi – ove occorra, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso – la risultanza che egli asserisce decisiva ed erroneamente valutata o insufficientemente valutata, dato che, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, il controllo deve essere consentito alla corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. 23.3.2005, n. 6225; Cass. 23.1.2004, n. 1170).

6. Manifestamente infondata è anche la censura, secondo cui non risulterebbe provato il preteso credito della parte attrice. La sentenza impugnata ha infatti accertato sulla base delle risultanze processuali, e segnatamente della prova testimoniale, che la parte attrice aveva effettivamente fatto i versamenti, attraverso assegni, i quali, tuttavia, non risultavano girati in favore del R., poichè per un accordo con la banca, dovevano apparire come incassati dai clienti stessi, senza firma di girata dei responsabili dello studio. Ha accertato altresì che l’entità del credito di parte attrice risultava dagli assegni versati dai singoli attori ai convenuti ed accertati in sede penale, in raffronto a quanto dovuto effettivamente per varie causali. Trattasi di accertamento fattuale che rientra negli esclusivi poteri del giudice di merito e che è immune da vizi motivazionali nei limiti rilevabili in questa sede di sindacato di legittimità. Va, infatti, osservato che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si riveli incompleto, incoerente e illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Cass. 15/04/2004, n. 7201; Cass. S.U. 27/12/1997, n. 13045, Cass. 14/02/2003, n. 2222;

Cass. 25.8.2003, n. 12467; Cass. 15.4.2000, n. 4916).

Nella fattispecie non si ravvisa detto vizio motivazionale.

7.1. Con il quarto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la contraddittoria ed insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia ovvero circa la valutazione e l’accertamento della responsabilità dei R., anche il relazione alla valenza da attribuire alla sentenza di cui agli artt. 444 e 445 c.p.p. (art. 360 c.p.c., n. 5).

7.2. Con il quinto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano l’omessa motivazione circa l’asserita sussistenza della prova del credito.

Assumono i ricorrenti che erroneamente la sentenza impugnata li ha condannati al risarcimento del danno sul solo rilievo che esisteva un procedimento penale a carico del R., conclusosi con sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p..

8.1. I due motivi, da esaminare congiuntamente, sono manifestamente infondati.

Va qui precisato che, contrariamente ad altri ricorsi analoghi proposti dalle stesse parti, in questo ricorso la censura relativa alla valenza assegnata alla sentenza di cui all’art. 444 c.p.p. non investe una riconosciuta responsabilità penale,ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c..

In questo ricorso non si fa questione di danno non patrimoniale e della prova della sua esistenza e, quindi, della sua liquidazione.

Quanto alla prova relativa al danno patrimoniale si è detto sopra, per cui è manifestamente infondata la censura secondo cui la prova dello stesso si fonderebbe sulla sentenza c.d. di patteggiamento.

Tale sentenza è stata valutata non nella sua autonomia, come unica fonte di prova, ma nel complesso degli altri elementi probatori.

Osserva questa Corte che la sentenza, con la quale il giudice applica all’imputato la pena da lui richiesta e concordata con il pubblico ministero, pur essendo equiparata a una pronuncia di condanna ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 445 cod. proc. pen., comma 1, non è tuttavia ontologicamente qualificabile come tale, traendo essa origine essenzialmente da un accordo delle parti, caratterizzato, per quanto attiene l’imputato, dalla rinuncia di costui a contestare la propria responsabilità. Ne consegue che non può farsi discendere dalla sentenza di cui all’art. 444 cod. proc. pen., la prova della ammissione di responsabilità da parte dell’imputato e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile (Cass. n. 6047 del 2003). La sentenza di patteggiamento può solo costituire un elemento che va valutato dal giudice, ai fini del suo convincimento in merito all’esistenza del reato (Cass. n. 23906/2007; Cass. n. 2724 del 2001).

9. Con il sesto motivo di ricorso, i ricorrenti lamentano la violazione di legge e falsa applicazione dell’art. 1246 c.c., per aver ritenuta intempestiva l’eccezione di imputazione del pagamento di importi di cui a fatture della s.a.s. EL.DA, mentre non si trattava di eccezione di compensazione formale, ma del regolamento di rapporto di dare ed avere.

10. Il motivo è manifestamente infondato. Infatti, essendo stata tale “imputazione di pagamento” sollevata solo in sede di appello, essa era preclusa.

Nel sistema di preclusioni introdotto dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, anche per le allegazioni di parte il thema decidendum non è più modificabile dopo la chiusura della prima udienza di trattazione (art. 183 c.p.c., comma 1), o la scadenza nel termine concesso dal giudice ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 5, potendo soltanto, dopo dette scadenze, formulare istanze istruttorie per provare i fatti allegati. (Cass. 17/05/2004, n. 9323; Cass. N. 6639/2007).

9. Con il settimo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la nullità della sentenza per il contrasto tra la motivazione ed il dispositivo per avere la prima affermato la responsabilità della R.M. quale socio accomandatario ed il secondo affermato la responsabilità della stessa, anche in proprio.

10. Il motivo è manifestamente infondato.

Emerge, infatti, dal complesso della motivazione della sentenza impugnata che la responsabilità della R. è stata affermata sia quale socio accomandatario che in proprio”.

Diritto

RITENUTO IN DIRITTO

che il Collegio condivide i motivi in fatto e diritto esposti nella relazione, che non sono superati dalle contrarie osservazioni mosse dai ricorrenti nella memoria;

che, perciò, devono essere rigettati tutti i motivi di ricorso;

che le spese seguono la soccombenza;

visti gli artt. 375 e 380 bis c.p.c..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione sostenute dai resistenti e liquidate in complessivi Euro 1.700,00 (millesettecento/00) di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2011

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