Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8401 del 29/04/2020

Cassazione civile sez. III, 29/04/2020, (ud. 08/01/2020, dep. 29/04/2020), n.8401

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16895-2017 proposto da:

C.F., O.G., C.S., elettivamente

domiciliate in ROMA, VIA SANNIO 61, presso lo studio dell’avvocato

VINCENZO ANTONIO LA CORTE, che le rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIMAVO 3,

presso lo studio dell’avvocato MAURO LIVI, rappresentato e difeso

dall’avvocato P.M.;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di VELLETRI, (relativamente al proc

RG N. 3842/14) depositata il 27/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/01/2020 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

Fatto

RILEVATO

che:

Con ordinanza definitiva di rito sommario emessa il 27 aprile 2017 il Tribunale di Velletri accoglieva parzialmente l’opposizione di C.F., C.S. e O.G. avverso decreto ingiuntivo che aveva loro ordinato di pagare all’avv. P.M. un compenso professionale nella misura di Euro 32.076, oltre accessori e spese, condannando solidalmente le opponenti a pagare all’opposto compensi nella misura di Euro 26.325, oltre accessori, e rigettando la domanda riconvenzionale risarcitoria per responsabilità professionale dell’avvocato proposta dalle opponenti.

C.F., C.S. e O.G. hanno proposto ricorso illustrato anche con memoria -, da cui si è difeso con controricorso l’avv. P..

Diritto

RITENUTO

che:

Il ricorso è articolato in tre motivi.

1.1 Il primo “motivo” viene rubricato come attinente alla competenza di questa Suprema Corte a decidere sull’impugnazione “avverso il decreto decisorio” (sic) emesso dal Tribunale il 27 aprile 2017.

Il Tribunale, “in parte motiva” della “ordinanza decisoria”, avrebbe ritenuto che il thema decidendum investa soltanto il quantum debeatur; invece l’opposizione al decreto ingiuntivo avrebbe investito pure l’an debeatur.

Infatti il “capo principale del petitum” sarebbe nel senso che, accertato il pagamento di acconti e accertata altresì l’errata quantificazione dei propri compensi operata dall’avvocato, oltre alla responsabilità di quest’ultimo per la condanna delle attuali opponenti, nella causa in cui le aveva difese, al pagamento di Euro 9173 alla controparte ICOMET S.p.A. quali spese legali, si dichiarino “non dovute le somme pretese nel decreto ingiuntivo anche per compensazione”. Gli altri capi del petitum sarebbero consequenziali.

Pertanto l’ordinanza conclusiva del primo grado di rito sommario, riguardante anche l’an debeatur, seguendo la pregressa giurisprudenza di legittimità, sarebbe stata appellabile, essendo proponibile ricorso per cassazione soltanto nel caso relativo unicamente al quantum debeatur. Tale orientamento sarebbe stato superato da Cass. 12411/2017, per cui le cause di liquidazione dei compensi giudiziali civili all’avvocato sono soggette al rito di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14 anche nel caso in cui investano l’an, e non solo il quantum. Conclude pertanto il “motivo” nel senso che l’ordinanza non è appellabile.

1.2 Questo primo motivo in realtà non è una censura, bensì una premessa in punto di diritto attinente alla ricorribilità per cassazione con ricorso straordinario – che è proprio questo proposto – essendo inappellabile l’ordinanza. In tal senso si è effettivamente pronunciata l’invocata Cass. sez. 2, 17 maggio 2017 n. 12411- massimata nel senso cge “in tema di liquidazione degli onorari e diritti di avvocato in materia civile, l’ordinanza conclusiva del procedimento D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 14 non è appellabile, ma impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, sia che la controversia riguardi solamente il “quantum debeatur”, sia che la stessa sia estesa all”an” della pretesa, trovando anche in tale ultimo caso applicazione il rito di cui al citato art. 14″ -, in motivazione osservando fra l’altro che la inappellabilità anche sull’an è controbilanciata dalla collegialità del rito sommario speciale che qui si applica – mentre quello codicistico è monocratico -. Sulla stessa linea si è posta S.U. 23 febbraio 2018 n. 4485, per cui “la controversia di cui alla L. n. 794 del 1942, ex art. 14 introdotta sia ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c., sia in via monitoria, avente ad oggetto la domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell’avvocato, resta soggetta al rito di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14 anche quando il cliente sollevi contestazioni relative all’esistenza del rapporto o, in genere, all'”an debeatur”. Soltanto qualora il convenuto ampli l’oggetto del giudizio con la proposizione di una domanda (riconvenzionale, di compensazione o di accertamento pregiudiziale) non esorbitante dalla competenza del giudice adito ai sensi dell’art. 14 D.Lgs. cit., la trattazione di quest’ultima dovrà avvenire, ove si presti ad un’istruttoria sommaria, con il rito sommario (congiuntamente a quella proposta ex art. 14 dal professionista) e, in caso contrario, con il rito ordinario a cognizione piena (ed eventualmente con un rito speciale a cognizione piena), previa separazione delle domande. Qualora la domanda introdotta dal cliente non appartenga, invece, alla competenza del giudice adito, troveranno applicazione gli artt. 34,35 e 36 c.p.c., che eventualmente possono comportare lo spostamento della competenza sulla domanda, ai sensi dell’art. 14.”. Così in motivazione l’arresto nomofilattico chiarisce la questione:

“Deve… affermarsi che la disciplina della L. del 1942, art. 28 e dell’art. 14 va intesa nel senso che la domanda inerente alla liquidazione cui allude la prima norma e che dice introducibile ai sensi dell’art. 14 non ha un oggetto limitato alla richiesta di liquidazione del dovuto nel presupposto dell’allegazione che la conclusione e lo svolgimento del rapporto siano incontestati e il bisogno di tutela giurisdizionale affermato con essa debba essere solo quello della determinazione del quantum dovuto. Al contrario, detto oggetto si deve identificare nella proposizione di una domanda di pagamento del corrispettivo della prestazione giudiziale senza quella limitazione e dunque anche in presenza di contestazione del rapporto e dell’an debeatur. Sicchè, se l’azione ai sensi dell’art. 14 o con il ricorso monitorio poi opposto non lo sia stata con l’allegazione che il petitum è solo la liquidazione delle spettanze, essendo incontroverso l’an debeatur, non si deve far luogo all’applicazione che dovrebbe avvenire, peraltro, indipendentemente dall’atteggiamento del cliente e, quindi, nel primo caso pure ove egli rimanga contumace – del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4, comma 1 e, dunque, alla constatazione che il rito di cui agli artt. 28 e 14 è stato azionato erroneamente, con conseguente necessità di passare alla trattazione con il rito ordinario… L’atteggiamento difensivo del cliente…, tanto che si concreti nella contestazione del rapporto di clientela, tanto nel caso di contestazioni relative comunque all’an debeatur e non al quantum, purchè non si concreti nell’ampliamento dell’oggetto del giudizio con l’introduzione di una domanda, non determina alcuna incidenza sulla possibilità che il processo si svolga e si chiuda con il rito sommario e, dunque, non dà luogo ad una sorta di sopravvenuta inammissibilità del procedimento stesso, peraltro escluso dal disposto del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4, comma 1 e nemmeno all’esigenza di disporre il cambiamento del rito ed il passaggio alla cognizione ordinaria in applicazione di tale disposto. Il procedimento sommario può senz’altro continuare con l’esame delle difese del cliente… Qualora la difesa del convenuto si sia concretata invece nell’allargamento dell’oggetto del giudizio con una domanda ed essa non ponga problemi di competenza, nel senso che non esorbita la competenza del giudice adito ai sensi dell’art. 14, viene in giuoco l’art. 702-ter c.p.c., comma 4 il quale è applicabile al procedimento di cui allo stesso art. 14. Ne segue che il giudice del procedimento deve vagliare se la domanda del convenuto possa essere trattata con il rito sommario, cioè non richieda un’attività istruttoria non sommaria. In questo caso procederà alla trattazione congiunta con il rito sommario. In caso contrario, la disciplina del detto comma 4 impedisce di prospettare l’applicazione di quella dell’art. 40 c.p.c., commi 3 e 4…. e la strada è obbligata. La trattazione della domanda introdotto dal cliente dovrà avvenire, previa separazione, con il rito ordinario a cognizione piena (ed eventualmente con un rito speciale a cognizione piena…). E, qualora la decisione sulla domanda separata sia pregiudiziale rispetto a quella della domanda di pagamento degli onorari, verrà in considerazione – ancorchè i processi restino davanti allo stesso giudice – l’art. 295 c.p.c.”.

Questo insegnamento, che è stato dirimente (cfr. da ultimo Cass. sez. 2, 15 maggio 2019 n. 12796 e la non massimata Cass. sez. 6-2, ord. 16 gennaio 2019 n. 1023), conduce a ritenere inappellabile l’ordinanza nel caso in esame.

E’ vero infatti che il giudice di primo grado avrebbe dovuto valutare se era necessaria una istruttoria non sommaria per la domanda riconvenzionale proposta dalle attuali ricorrenti, e che una siffatta valutazione non emerge dall’ordinanza; tuttavia, le ricorrenti non adducono che era necessario cambiare il rito per la domanda riconvenzionale. Il fatto poi che nella conclusione del terzo motivo si lamentino che il Tribunale abbia omesso di considerare la documentazione posta a base della domanda risarcitoria non equivale ad affermare che occorresse mutare il rito per la domanda riconvenzionale.

2.1 Il secondo – e a questo punto realmente primo – motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto dei D.M. n. 127 del 2004 e D.M. n. 140 del 2012, nonchè omesso esame di fatto decisivo.

Il Tribunale avrebbe ritenuto di dover determinare i compensi seguendo la disciplina vigente all’epoca in cui fu svolta l’attività professionale, avvalendosi pertanto del D.M. n. 140 del 2012; inoltre avrebbe ritenuto che lo scaglione di valore in cui si trovava la causa in cui le attuali ricorrenti erano stati difeso dall’avv. P. fosse quello tra Euro 500.000 e Euro 1.500.000, a fronte del valore di Euro 471.000 dell’immobile che era oggetto della causa. Quando fu proposto il giudizio, incardinando la causa davanti al Tribunale di Latina, ai fini del contributo unificato sarebbe stato dichiarato il valore della controversia in Euro 471.000. Ciò rileverebbe anche per identificare lo scaglione di valore della causa, il cui thema decidendum avrebbe investito soltanto incidenter i “pregressi rapporti negoziali” concernenti tutto il patrimonio immobiliare attoreo; reale oggetto della causa sarebbero stati invece i cespiti del valore dichiarato, appunto, di Euro 471.000.

Il Tribunale di Latina, poi, avrebbe dichiarato risolto per inadempimento della convenuta società ICOM il contratto preliminare di compravendita tra le attrici e ICOM “limitatamente agli immobili non trasferiti” all’altra società convenuta, ICOMET, con contratto del 21 febbraio 2009: e quindi il preliminare sarebbe stato considerato unicamente per i beni aventi il valore di Euro 471.000.

Inoltre – osservano ancora le ricorrenti – la liquidazione dei compensi avrebbe dovuto essere effettuata non seguendo i criteri del D.M. n. 140 del 2012, bensì seguendo quelli del D.M. n. 127 del 2004, cioè il decreto ministeriale vigente al momento della pubblicazione della sentenza del Tribunale di Latina n. 228 del 2011 di cui si tratta, essendosi allora di fatto esaurito l’incarico professionale conferito all’avv. P., come avrebbe egli stesso riconosciuto nella comparsa di risposta. E il D.M. n. 142 del 2012 è entrato in vigore successivamente, cioè il 22 agosto 2012. Si richiama giurisprudenza nel senso che il D.M. n. 140 del 2012 sarebbe applicabile se la liquidazione avviene dopo la sua entrata in vigore qualora al momento dell’entrata in vigore non siano state completate le prestazioni professionali. Ma essendo le prestazioni professionali in questione terminate appunto nel 2011, dovrebbe applicarsi il D.M. n. 127 del 2004.

Applicando allora quest’ultimo decreto, nella tabella A, per lo scaglione Euro 258.300,01 – Euro 516.500 si indica per gli onorari un importo complessivo collocato nella forbice da Euro 5340 a Euro 11.170, oltre le maggiorazioni di cui all’art. 5, comma 4. La tabella B determina poi per i diritti la somma di Euro 2230. E per individuare il valore della causa, l’art. 6, comma 1 D.M. stabilisce che si deve applicare la regola di determinazione del codice di rito, per cui l’indicazione del valore nell’atto introduttivo sarebbe inderogabile, salvo patti diversi tra avvocato e cliente.

2.2 La prima censura, in effetti, non si correla alla motivazione della ordinanza impugnata, la quale appalesa di reputare il valore della causa come non determinato dal solo importo del valore dell’immobile oggetto del contratto preliminare in rapporto al quale era stata presentata la domanda di risoluzione, ma altresì dal cumulo di esso con la domanda di incameramento della caparra e la domanda risarcitoria. Peraltro, questa prima censura non rispetta il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6. Sotto entrambi i profili patisce quindi inammissibilità.

Il motivo chiede, nella sua seconda parte, di accertare quando si. sarebbe conclusa l’attività professionale dell’avv. P. a favore delle attuali ricorrenti, il che è evidente questione di fatto, per cui imprime anche a questa parte del motivo l’inammissibilità.

E quanto al valore della causa e al correlato scaglione scelto dall’ordinanza, il motivo non è comunque autosufficiente (a pagina 11 del ricorso si trova soltanto un generico riferimento al “tenore dell’atto introduttivo” e al “tenore” della motivazione della sentenza del Tribunale di Latina); e non si può non rilevare che non è vincolante per il giudice che deve liquidare i compensi del difensore la dichiarazione resa dalla parte ai fini tributari per il contributo unificato.

Per di più, emerge che furono le attuali ricorrenti a chiedere l’applicazione della tariffa di cui al D.M. n. 140 del 2012 proprio dalla pronuncia impugnata, che, a pagina 4, si riferisce alla loro richiesta di applicarne una norma.

Tutto il motivo, dunque, risulta privo di consistenza.

3.1 Il terzo – e, per quanto si è osservato, in realtà secondo – motivo denuncia violazione e/o errata applicazione degli artt. 1176,1218 e 2236 c.c., nonchè errore di fatto su un punto decisivo.

Il Tribunale ha disatteso l’autonoma domanda risarcitoria proposta dalle opponenti. Gli avvocati, tuttavia, avrebbero anche “i doveri d’informazione e di dissuasione” nei confronti del cliente; per la responsabilità professionale rileverebbero quindi le modalità concrete di adempimento dell’incarico, che dovrebbero rispettare l’art. 1176 c.c., comma 2, per cui l’avvocato dovrebbe informare il cliente sulle chances di esito positivo, in modo che il cliente decida consapevolmente che cosa fare. L’obbligo di diligenza media di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, non potrebbe comunque essere inficiato da una strategia difensiva plausibilmente pregiudizievole sollecitata dal cliente, soltanto il legale dovendo sceglierla. Rileverebbe pure la consapevolezza del rischio di soccombenza per difetto di prova; e il professionista dovrebbe altresì tenere conto che il cliente normalmente non ha cognizione per intendersi delle questioni, onde dovrebbe essere guidato anche con le necessarie informazioni per fargli valutare pure i rischi dell’iniziativa giudiziale.

Quando il cliente lamenta inadempimento dannoso del professionista, dovrebbe dimostrare la sussistenza del mandato, addurre l’inadempimento e provare il nesso causale tra questo e il danno. L’ordinanza impugnata avrebbe riconosciuto, quanto al nesso causale, la necessità di applicare il criterio probabilistico; peraltro, la sentenza del Tribunale di Latina “in più punti… rileva che la ICOMET non è parte del preliminare di vendita” e non è subentrata agli obblighi dell’altra convenuta ICOM. Quindi il Tribunale di Latina “lascia chiaramente intendere l’insussistenza” di ogni documento fondante la legittimazione passiva di ICOMET; e la relativa documentazione sarebbe stata in possesso dell’avv. P., essendogli stata consegnata dalle clienti. Pertanto l’avv. P., comportandosi con media diligenza, avrebbe dovuto “modulare la correlativa domanda giudiziale”, ovvero valutare se fosse stato il caso di agire anche nei confronti di ICOMET.

Sarebbe stata poi corretta la decisione del Tribunale di Latina, con separazione della domanda e soccombenza delle attuali ricorrenti, condannate perciò alle spese. Godrebbe quindi di una “piena legittimità” la domanda risarcitoria delle attuali ricorrenti. Il Tribunale di Velletri avrebbe invece omesso l’esame dei documenti posti a base della domanda risarcitoria.

3.2 Questo motivo non contiene, a ben guardare, la denuncia delle violazioni delle norme di diritto invocate, nè sotto il profilo della violazione nè sotto il profilo della falsa applicazione, bensì postula che il mancato rispetto delle previsioni normative emerga automaticamente dall’esito di una rivalutazione della quaestio facti, alla cui strutturazione le argomentazioni effettivamente sono dedicate; e ciò, peraltro, viene configurato senza rispettare i limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come appalesa la stessa rubrica laddove dichiara di denunciare “errore di fatto su un punto decisivo della controversia”. E dunque il motivo patisce inammissibilità.

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna in solido per il comune interesse processuale – delle ricorrenti alla rifusione delle spese del grado, liquidate come da dispositivo, al controricorrente;

sussistono altresì D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater i presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo.

PQM

Rigetta il ricorso, condannando solidalmente le ricorrenti a rifondere al controricorrente le spese processuali, liquidate in complessivi Euro 1500, oltre a Euro 200 per gli esborsi e al 15% per spese generali, nonchè agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 8 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2020

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