Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8390 del 29/04/2020

Cassazione civile sez. III, 29/04/2020, (ud. 11/12/2019, dep. 29/04/2020), n.8390

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16842-2017 proposto da:

T.D., N.A., C.C.,

C.A., domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE

DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli avvocati GIOVANNI DE

VERGOTTINI, MASSIMO CAMPA;

– ricorrenti –

contro

BANCO BPM SPA, in persona del procuratore speciale, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 59, presso lo studio

dell’avvocato LINDA MARIA DI RICO, rappresentato e difeso

dall’avvocato ALBERTO BORSIERI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 568/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 21/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/12/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Dott. BASILE TOMMASO, che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato MASSIMO CAMPA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.C. ha rilasciato fideiussione a garanzia dei debiti della società (OMISSIS) società coop a r.l., ed a favore del Banco Popolare società cooperativa.

La (OMISSIS) è stata dichiarata fallita con sentenza del 10.12.2013, ed a seguito di tale fallimento, lo stesso C. è risultato debitore nei confronti della banca per 561.283,31 Euro, come da saldo negativo, con la conseguenza che la banca ha provveduto a revocare l’apertura di credito in conto corrente ottenendo poco dopo decreto ingiuntivo per il recupero di quella somma.

Subito dopo il fallimento della società garantita, il C. ha ceduto la metà di sua spettanza di un immobile, alla figlia C.A., mentre l’altra metà appartenente alla moglie T.D., è stata da quest’ultima alienata ad N.A..

Il Banco Popolare ha ritenuto che tale vendita fosse elusiva del proprio credito ed ha convenuto dunque venditori ed acquirenti per ottenere revocatoria dell’atto o, in subordine, accertamento della sua simulazione.

Il giudice di primo grado ha respinto la domanda sul presupposto che non fosse provata la conoscenza da parte del terzo acquirente della elusività della vendita. In appello, questa decisione è stata riformata, in quanto il giudice di secondo grado ha presunto quella conoscenza dal rapporto di parentela tra l’alienante e l’acquirente.

Venditori ed acquirenti ricorrono con quattro motivi avverso tale decisione, che è difesa con controricorso dal Banco Popolare.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va premesso che il ricorso proviene dalla sezione sesta, che ha rinviato alla pubblica udienza in attesa che le Sezioni unite di questa Corte decidessero sulla questione della improcedibilità del ricorso per via del mancato deposito dell’attestazione di conformità della copia della sentenza notificata telematicamente a quella autentica.

Questione ormai risolta dalle Sezioni Unite nel senso che: “in tema di giudizio per cassazione, ove il ricorso predisposto in originale digitale e sottoscritto con firma digitale sia notificato in via telematica, ai fini della prova della tempestività della notificazione del ricorso, è onere del controricorrente disconoscere, ai sensi della disciplina di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, comma 2, la conformità agli originali dei messaggi di PEC e della relata di notificazione depositati in copia analogica non autenticata dal ricorrente” (Cass. sez. u. 22348/ 2018).

Risulta che il Banco Popolare non ha in alcun modo disconosciuto la conformità all’originale della copia ricevuta telematicamente, cosi che il ricorso deve ritenersi procedibile.

2.- La ratio della decisione impugnata.

La corte di merito ha premesso che era onere della Banca dimostrare sia il danno che dalla vendita derivava alle proprie ragioni creditizie, sia la conoscenza che della elusività avevano gli acquirenti.

Premesso ciò, ha ritenuto che il Banco ha fornito prova di entrambi i presupposti. Quanto al danno, la prova deriverebbe dalla circostanza che si trattava dell’unico bene di proprietà del debitore; mentre la conoscenza della elusività era ricavabile dal rapporto di parentela tra alienanti e acquirenti.

3.- C.C., C.A., T.D. e N.A. ricorrono con quattro motivi.

Con il primo motivo denunciano violazione dell’art. 2901 c.c., o, più precisamente sembrerebbe, falsa applicazione di tale norma.

Infatti, sostengono che, pur avendo in astratto la corte di merito colto il significato della fattispecie, ossia la necessità che quest’ultima pone di un danno e della conoscenza che ne abbia il terzo acquirente, ha ritenuto sussistere nella fattispecie concreta questi due elementi, che invece dovevano ritenersi non sussistenti.

Con il secondo motivo invece denunciano violazione dell’art. 2697 c.c., oltre che omesso esame di fatti decisivi.

Secondo i ricorrenti la corte di merito ha errato nel ritenere fornita, da parte della Banca, la prova dei presupposti della revocatoria, quando invece nessun elemento era stato fornito da chi aveva l’onere di farlo.

Con il terzo motivo si denuncia invece violazione dell’art. 2729 c.c..

I ricorrenti sostengono che la corte di merito ha ritenuto provati i presupposti della revocatoria sulla base di presunzioni (l’unicità del bene, il rapporto di parentela), ma facendo cattivo uso di queste ultime, ossia prescindendo dalla regola che esse debbono essere gravi, precise e concordanti, e dando quindi rilievo ad elementi indiziari che non avevano queste caratteristiche.

Con il quarto motivo lamentano omesso esame della domanda di estromissione di N.A. e T.D. nonchè omesso esame della domanda di riconoscimento del maggior valore del bene oggetto di revocatoria rispetto a quello stimato.

3.1.- I primi tre motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono infondati. Intanto va premesso che la vendita risulta effettuata, e questo è un accertamento di fatto peraltro non sufficientemente contestato qui, dopo, e non prima, il sorgere del credito.

Infatti, il fallimento della società garantita è del 10.12.2013, la revoca del conto corrente al C. è notificata il 21.1.2014, mentre l’atto definitivo di vendita è del 27.3.2014, dunque successivo, per l’appunto, al sorgere del credito.

Va considerato, al riguardo, che l’atto dispositivo di cui è stata chiesta la revocatoria è consistito in un atto di vendita preceduto da preliminare.

In questi casi è regola che il contratto preliminare di vendita di un immobile non produce effetti traslativi e, conseguentemente, non è configurabile quale atto di disposizione del patrimonio, assoggettabile all’azione revocatoria ordinaria, che può, invece, avere ad oggetto l’eventuale contratto definitivo di compravendita successivamente stipulato; pertanto, la sussistenza del presupposto dell'”eventus damni” per il creditore va accertata con riferimento alla stipula del contratto definitivo, mentre l’elemento soggettivo richiesto dall’art. 2901 c.c. in capo all’acquirente va valutato con riguardo al momento della conclusione del contratto preliminare, momento in cui si consuma la libera scelta delle parti (Cass. 17365/ 2011; Cass. 15215/ 2018; Cass. 17067/ 2019).

Ciò posto, la corte non ha disatteso in astratto il significato dell’art. 2697 c.c., ossia la regola sull’onere della prova del danno e dell’elemento soggettivo, come si denuncia con il secondo motivo: Infatti ha correttamente ritenuto che spetta al creditore dimostrare di aver subito danno dalla alienazione, oltre che dimostrare che l’acquirente era a conoscenza del proposito elusivo o comunque della oggettiva elusività della vendita.

Ha però ritenuto provati questi due presupposti per via presuntiva.

Con il terzo motivo, come si è visto, i ricorrenti ritengono violate le regole sul ricorso alle presunzioni, ossia ritengono che la corte non ne abbia fatto buon uso.

Essi sostengono che il semplice rapporto di parentela (padre – figlia) non accompagnato da coabitazione (abitavano in case adiacenti) non potesse avere significato indiziario utile.

E’ invece regola che la prova della “participatio fraudis” del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore e il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente.

(Cass. 1286/n 2019).

Del resto, la presunzione è stata ricavata dalla corte non in base al semplice rapporto di parentela bensì anche considerando la vicinanza di vita tra acquirente ed alientante, che se non era coabitazione vi era comunque assimilabile, vivendo padre e figlia in due case adiacenti, nonchè la giovane età dell’acquirente (figlia dell’alienante); così che l’elemento soggettivo non è stato ricavato esclusivamente dal rapporto di parentela, ma altresì da elementi ulteriori e significativi.

Quanto al danno subito dal creditore, invece, la presunzione è stata basata sul fatto che il bene di cui il debitore si è privato era l’unico del suo patrimonio, e quindi era evidente che l’atto di disposizione comportava non una diminuzione, ma proprio un azzeramento della garanzia patrimoniale. La tesi dei ricorrenti (primo motivo) secondo cui invece non si trattava dell’unico bene presuppone un accertamento in fatto diverso da quello effettuato dalla corte, e dunque non può trovare ingresso in questa sede.

Va tenuto in conto che, ai fini del presupposto del danno, è sufficiente che l’atto di disposizione abbia anche reso più difficoltosa l’esecuzione o la soddisfazione del creditore, e tale effetto è di certo riconducibile alla alienazione di un immobile, quand’anche, ma è ipotesi di fatto contraria all’accertamento di merito, il bene non fosse l’unico del patrimonio del debitore.

4.- Il quarto motivo invece lamenta omessa pronuncia su due domande. La prima è la domanda di estromissione di N. e T.; la seconda è invece relativa al valore maggiorato dell’immobile, per via della ristrutturazione operata dagli acquirenti.

Il motivo è inammissibile.

Infatti, quanto alla posizione di N. e di T., la corte prende atto che il primo ha acquistato la quota della seconda e che dunque l’atto di vendita intercorso tra questi due soggetti non poteva essere revocato a favore della banca, che non era creditrice dell’alienante, ed ha deciso nel merito, dichiarando inefficace soltanto la vendita della quota (metà) dell’immobile fatta da C. alla figlia, ed escludendo quindi la vendita dell’altra metà (fatta da T. a N.), compensando poi le spese tra questi ultimi due e la Banca.

V’è dunque pronuncia, e non omissione.

Quanto alla questione delle spese sostenute dall’acquirente C.A. della quota di proprietà del padre, effettuate insieme a N., i due non dimostrano intanto di aver posto la questione in appello, non riportano il relativo motivo, o la relativa questione, e non indicano ove, nel corso dell’appello, l’abbiano sollevata.

Il ricorso va pertanto rigettato quanto a C.C. ed C.A. e dichiarato inammissibile quanto a T.D. e N.A..

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di lite nella misura di 10.000,00 Euro, oltre 200,00 Euro di spese legali generali. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella misura dovuta, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2020

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