Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8389 del 29/04/2020

Cassazione civile sez. III, 29/04/2020, (ud. 11/12/2019, dep. 29/04/2020), n.8389

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7529/2017 proposto da:

C.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO

CESARE, 71, presso lo studio dell’avvocato ANDREA DEL VECCHIO, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIO FERRARI;

– ricorrente –

contro

D.C.F., elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZZA

GENTILE DA FABRIANO, 3, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO

CAVALIERE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

CLAUDIO GARDENAL;

– controricorrente –

e contro

B.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 302/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 27/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/12/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato CLAUDIO FERRARI;

udito l’Avvocato RAFFAELE CAVALIERE per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

D.C.F. ha citato in giudizio C.C. per ottenere la restituzione della somma di 100 mila dollari, che egli riteneva di aver concesso in mutuo a quest’ultima.

La vicenda ha origine dal tentativo di acquisto di alcuni quadri.

Un signore americano, L.R., proprietario di due tele del Ca., ha incaricato alcuni mediatori della vendita dei dipinti. I mediatori hanno avuto un contatto con la C., la quale ha inizialmente individuato una società acquirente.

Poichè occorreva però dare prova di serietà dell’intenzione di acquistare, la C., secondo la tesi dell’attore, fece anticipare una prima somma, pari a 100 mila dollari al D.C., all’epoca suo fidanzato, il quale poi versò la rimanente somma di 900 mila dollari.

Poichè però l’affare non si concluse, la somma di 100 mila dollari, che era stata inizialmente versata, venne trattenuta da L.R., il promittente venditore, che ha restituito invece quella successivamente corrisposta di 900 mila dollari al D.C..

Quest’ultimo ha però preteso la restituzione dei 100 mila dollari dalla C., sostenendo di averli semplicemente prestati a quest’ultima affinchè l’accordo andasse a buon fine, e che lui del resto era estraneo all’acquisto, ma che la C. non aveva inteso restituire.

I giudici di primo e secondo grado hanno rigettato la domanda del D.C., sostanzialmente ritenendo che costui non avesse provato la ragione, ossia il titolo, in base al quale chiedeva la restituzione.

Su ricorso del D.C., la Corte di Cassazione con sentenza n. 20179/2014 ha annullato la decisione di appello, accogliendo il primo ed il secondo motivo, e dunque cassando, sia per violazione di legge che per motivazione contraddittoria.

In particolare, la Corte di Cassazione, in quella decisione, premesso che è onere del ricorrente attore dimostrare il titolo della sua pretesa (ossia la ragione della richiesta di restituzione) ha però rilevato che la corte di merito non aveva valutato adeguatamente le prove addotte dal creditore, ossia aveva violato le regole legali di valutazione, in quanto non aveva seguito il procedimento logico proprio di tale valutazione: considerare prima i singoli elementi indiziari e scartare quelli inconferenti, e procedere poi ad una valutazione complessiva di quelli rilevanti. Veniva cosi riassunta la causa presso altra sezione della corte di appello, la quale pronunciava sentenza di accoglimento dell’originario gravame (dunque in difformità dalla precedente decisione di merito cassata) e, valutate complessivamente le prove emerse, riteneva sussistente il diritto del D.C. alla restituzione dei 100 mila dollari.

La C. impugna questa decisione con due motivi. V’è controricorso del D.C..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La ratio della decisione impugnata.

La corte di rinvio, attenendosi al principio di diritto, esamina nuovamente le prove secondo il criterio dettato dalla precedente decisione della Corte di Cassazione, ossia valutando complessivamente gli elementi emersi in giudizio, e concludendo che, letti insieme, dimostrano che il D.C. ha dato a prestito la somma di 100 mila dollari alla C., che si era ingerita nell’affare ed aveva, unitamente ad altri due, l’intenzione di acquistare i quadri e rivenderli.

2.- La C. contesta questa ratio decidendi con due motivi.

Con il primo motivo lamenta violazione dell’art. 1362 c.c., ossia dei canoni ermeneutici previsti per interpretare l’accordo di cui è causa.

Secondo la ricorrente la corte di rinvio non avrebbe correttamente inteso il significato dell’accordo, non avrebbe interamente considerato il suo contenuto trascurando di evidenziare che il versamento era fatto sotto condizione sospensiva della conclusione dell’affare, e comunque male interpretando la dichiarazione contenuta nel detto accordo come una confessione fatta ad un terzo ad opera della stessa ricorrente (in ordine alla restituzione della somma). Con il secondo motivo, invece, denuncia violazione dell’art. 2729 c.c., art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 384 c.p.c..

Secondo la ricorrente la corte avrebbe disatteso il vincolo imposto dalla decisione della Cassazione, espresso nel principio di diritto, che le imponeva di valutare le risultanze probatorie tutte insieme, mentre ne sarebbe stata fatta valutazione frammentaria ed isolata.

2.1.- I due motivi possono considerarsi unitamente e sono infondati.

Va operata una premessa di fondo.

Secondo quanto affermato da questa corte, i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua “potestas iudicandi”, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonchè la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (Cass. 6707/2004; Cass. 17790/2014; Cass. 27337/2019).

Nella fattispecie, la pronuncia di annullamento ha riguardato sia violazioni di legge che contraddittorietà o insufficienza della motivazione.

Il giudizio di rinvio era vincolato al principio di diritto secondo cui la valutazione degli elementi indiziari e probatori andava effettuata complessivamente, e questa valutazione è stata correttamente compiuta dalla corte di merito, la quale ha tratto convinzione che l’accordo, letto insieme alle mail e alle testimonianze, conduceva a ritenere che il D.C. non fosse coinvolto nell’affare, ma avesse dato in prestito la somma alla allora fidanza per consentire a lei di procedere nelle trattative.

A tal riguardo la ricorrente censura la sentenza impugnata, nell’ambito dei due motivi, per due specifiche violazioni di legge.

Una delle due riguarda la mancata considerazione di una clausola contrattuale e dunque una violazione sia del principio di diritto (che imponeva di valutare tutto), sia dei canoni di ermeneutica.

Si tratta della clausola che, secondo la ricorrente, conterrebbe una condizione sospensiva dell’accordo, mai verificatasi tuttavia.

Invero, a differenza di quanto assunto dalla ricorrente, la corte ha valutato la clausola contenuta a pagina 18 dell’accordo, ed ha escluso che possa costituire una condizione efficace verso il ricorrente, il quale era estraneo al negozio.

Non v’è dunque violazione del principio di diritto.

Una seconda censura, attinente sempre all’ambito segnato dall’annullamento con rinvio, riguarda il valore della dichiarazione, contenuta nel contratto per cui è causa, secondo cui la ricorrente si impegnava verso il D.C. a restituire la somma.

Secondo la C. la corte di merito avrebbe illegittimamente attribuito valore confessorio a tale dichiarazione, che però non lo aveva, e ciò anche in contrasto con quanto statuito dalla corte di Cassazione al momento dell’annullamento con rinvio.

Anche questa valutazione è infondata.

Infatti, è stata la corte di Cassazione, nella precedente decisione di annullamento, ad imporre alla corte di rinvio di valutare come confessione resa a terzi la dichiarazione con cui la ricorrente si impegnava a restituire la somma. E comunque, la corte di rinvio non ha attribuito a tale dichiarazione il valore di una confessione a piena prova, come assume la ricorrente, ma, nel rispetto del principio di diritto, l’ha valutata unitamente agli altri elementi.

Per il resto, la ricorrente lamenta una erronea valutazione, nel merito, dell’insieme delle prove emerse, e soprattutto del contenuto contrattuale.

Va poi considerato che laddove il ricorrente lamenti la violazione di uno o più criteri legali di interpretazione del contratto, deve specificare a quali si riferisce, ossia quale criterio (letterale, sistematico, comportamento successivo delle parti, ecc.) la corte di merito ha male inteso facendone applicazione fuorviante. (Cass. 15350/2017).

Nella fattispecie, invece, la ricorrente non indica quale sia stata la violazione dei criteri di interpretazione del contratto attribuibile alla corte di rinvio, nè, per conseguenza, quale avrebbe dovuto essere il criterio prevalente o esclusivo di interpretazione da usare in luogo di quello errato.

In effetti la censura, apparentemente fatta sotto il motivo di violazione dell’art. 1362 c.c., investe invece il giudizio, prettamente di merito, che la corte di rinvio ha espresso circa il significato delle dichiarazioni contrattuali e, unitamente ad esse, della valutazione delle altre prove; giudizio che non esorbita dal principio di diritto, come abbiamo visto, nè lo disattende, e che per il resto non è censurabile in Cassazione se non sotto il profilo del difetto assoluto di motivazione (tale da rendere nulla la sentenza), difetto da escludersi nel caso presente.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, nella misura di 8700,00 Euro, oltre 200,00 Euro per spese generali. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella misura dovuta, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2020

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