Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8377 del 29/04/2020

Cassazione civile sez. III, 29/04/2020, (ud. 31/10/2019, dep. 29/04/2020), n.8377

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26343/2016 proposto da:

L.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GASPARE

GOZZI 145, presso lo studio dell’avvocato PAOLO VESCE, rappresentato

e difeso dall’avvocato BARTOLO VINCENZO VESCE;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, (OMISSIS) in persona del Ministro pro

tempore, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI in persona del

Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, MINISTERO

ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA (OMISSIS) in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e

difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1525/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 15/04/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

31/10/2019 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’esposizione dei fatti di causa sarà limitata alle sole circostanze ancora rilevanti in questa sede.

Nel 2008 L.G. convenne dinanzi al Tribunale di Napoli la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’Università e della ricerca scientifica ed il Ministero dell’economia, esponendo che:

-) dopo avere conseguito la laurea in medicina, si era iscritto ad una scuola di specializzazione;

-) durante il periodo di specializzazione non aveva percepito alcuna remunerazione o compenso da parte della scuola stessa;

-) le direttive comunitarie n. 75/362/CEE e 75/363/CEE, così come modificate dalla Direttiva 82/76/CEE, avevano imposto agli Stati membri di prevedere che ai frequentantii le scuole di specializzazione fosse corrisposta una adeguata retribuzione;

-) l’Italia aveva dato tardiva e parziale attuazione a tali direttive solo con la L. 8 agosto 1991, n. 257.

Concluse pertanto chiedendo la condanna delle amministrazioni convenute al risarcimento del danno sofferto in conseguenza della tardiva attuazione delle suddette direttive.

2. Con sentenza n. 3535 del 2013 il Tribunale rigettò la domanda, ritenendo prescritto il diritto.

La suddetta sentenza fu appellata dal soccombente.

3. Con sentenza 15.4.2016 n. 1525 la Corte d’appello di Napoli ha escluso che un eventuale diritto al risarcimento fosse prescritto, ma ha comunque rigettato la domanda, ritenendo che la specializzazione conseguita dall’attore (in “medicina legale e delle assicurazioni”) non fosse comune ad almeno due Stati membri. Di conseguenza, ai sensi degli artt. 5 e 7 della Direttiva 75/362, lo Stato italiano non aveva l’obbligo di prevedere che gli iscritti alla relativa scuola di specializzazione fossero remunerati.

La Corte d’appello ha altresì precisato che, avendo l’attore affermato di avere diritto al risarcimento per mancato recepimento della disciplina comunitaria, ma nello stesso tempo di avere frequentato una scuola di specializzazione non compresa tra quelle elencate dalle direttive comunitarie, si verteva nel caso di specie in una ipotesi di “difetto di legittimazione attiva”, e non già di infondatezza nel merito della domanda, e che di conseguenza la relativa questione potesse essere rilevata anche in grado di appello.

3. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione L.G., fondato su un motivo.

Ha resistito con controricorso la presidenza del Consiglio dei Ministri.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il motivo unico di ricorso.

1.1. Con l’unico motivo il ricorrente, prospettando la violazione di

legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, sostiene una tesi così riassumibile:

-) il D.M. 31 ottobre 1991, ha stabilito quali fossero le specializzazioni mediche impartite presso le università italiane, da considerarsi equipollenti a quelle previste dalla direttiva “riconoscimento”;

-) in tale decreto si stabilisce, al n. 46, che la medicina legale deve considerarsi “equipollente” per i suddetti fini;

-) lo stato italiano era comunque inadempiente ai precetti della direttive comunitarie, per aver emanato il suddetto decreto di equipollenza soltanto nel 1991, mentre se lo avesse emanato prima, anche l’odierno ricorrente avrebbe potuto godere della adeguata remunerazione.

1.2 Il motivo è infondato.

Come noto la (allora) Comunità Europea nel 1975 volle dettare norme uniformi per “agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di medico”, e lo fece con due direttive coeve: la direttiva 75/362/CEE e la direttiva 75/363/CEE, ambedue del 16.6.1975.

La prima sancì l’obbligo per gli Stati membri di riconoscere l’efficacia giuridica dei diplomi rilasciati dagli altri Stati membri per l’esercizio della professione di medico; la seconda dettò i requisiti minimi necessari affinchè il suddetto riconoscimento potesse avvenire, tra i quali la durata minima del corso di laurea e la frequentazione a tempo pieno di una “formazione specializzata”.

L’una e l’altra di tali direttive vennero modificate qualche anno dopo dalla Direttiva 82/76/CEE del Consiglio, del 26 gennaio 1982.

Per quanto in questa sede rileva, la direttiva 75/362 distinse due gruppi di specializzazioni: quelle comuni a tutti gli Stati membri (artt. 45); e quelle comuni a due o più Stati membri, ma non a tutti (artt. 6-8).

Ciò al fine – come si legge nel II Considerando della Direttiva 75/363 – di “mettere tutti i professionisti cittadini degli Stati membri su una certa base di parità all’interno della Comunità, (per cui) è apparso necessario un certo coordinamento delle condizioni di formazione del medico specialista”, e soggiungendo che tale “coordinamento” “riguarda soltanto le specializzazioni comuni a tutti gli Stati membri nonchè quelle comuni a due o più Stati membri”.

I diplomi di specializzazione comuni agli Stati membri vennero stabiliti direttamente dal legislatore comunitario, che li elencò nell’art. 5, p. 2, della Direttiva 75/362. Essi erano:

anestesia e rianimazione;

chirurgia generale;

neurochirurgia;

ostetricia e ginecologia;

medicina interna;

oculistica;

otorinolaringoiatria;

pediatria;

tisiologia e malattie dell’apparato respiratorio;

urologia,

ortopedia e traumatologia.

Il successivo art. 7, p. 2, della medesima Direttiva stabilì invece quali fossero i diplomi di specializzazione “equipollenti”, perchè comuni ad almeno due Stati membri:

biologia clinica;

ematologia biologica;

microbiologia – batteriologia;

anatomia patologica;

biochimica;

immunologia;

chirurgia plastica;

chirurgia toracica;

chirurgia pediatrica;

chirurgia vascolare;

cardiologia;

gastroenterologia;

reumatologia;

ematologia generale;

endocrinologia;

fisioterapia;

stomatologia;

neurologia;

psichiatria;

neuropsichiatria;

dermatologia e venereologia;

radiologia;

radio diagnostica;

radioterapia;

medicina tropicale;

psichiatria infantile;

geriatria;

malattie renali;

malattie infettive;

community medicine;

farmacologia;

occupational medicine;

allergologia;

chirurgia dell’apparato digerente.

Le medesime specializzazioni sono previste dagli artt. 4 e 5 della Direttiva 75/363/CEE.

Dunque nell’anno 1987, in cui l’odierno ricorrente si iscrisse alla scuola di specializzazione, delle due l’una: o una specializzazione era comune ad almeno due Stati dell’UE, ed allora l’Italia aveva l’obbligo di prevedere per legge una remunerazione in favore di chi la frequentava (giusta la previsione dell’Allegato “A” alla Direttiva 1975/363, aggiunto dalla Direttiva 1982/76); oppure quella specializzazione non era comune, ed allora non vi era per lo Stato l’obbligo di fonte comunitaria di prevedere una remunerazione per chi l’avesse frequentata.

1.3. Naturalmente, come già più volte ritenuto da questa Corte, l’equivalenza tra la specializzazione conseguita in Italia, e quelle previste da almeno due Stati membri, va apprezzata non già soltanto a livello nominalistico, ma in base alla oggettiva identità degli insegnamenti impartiti delle scuole di specializzazione.

Tuttavia è onere di colui il quale invochi risarcimento del danno da tardiva attuazione delle suddette direttive comunitarie allegare e dimostrare che, nonostante la diversità nominale, la specializzazione da lui conseguita in Italia avesse un contenuto oggettivo coincidente con quelle impartite in almeno due Stati membri: allegazione che, nel presente giudizio, il ricorrente non risulta avere mai compiuto.

1.4. Nè rileva, in senso contrario, la normativa invocata dal ricorrente alle pp. 3 e ss. del proprio ricorso, ovvero il D.M. 31 ottobre 1991.

Il D.M. 31 ottobre 1991 (in Gazz. uff. 8.11.1991 n. 262, rubricato “Approvazione dell’elenco delle specializzazioni impartite presso le università e gli istituti di istruzione universitaria, di tipologie e durata conformi alle norme delle Comunità economiche Europee”) venne emanato in attuazione della delega di cui al D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 1.

Tale norma stabiliva: “la formazione specialistica dei medici ammessi alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, di tipologia e durata conformi alle norme della comunità economica Europea e comuni a due o più Stati membri, si svolge a tempo pieno.

L’elenco delle specializzazioni di cui al comma 1, è formato ed aggiornato con decreto del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica, di concerto con quello della sanità”.

Infine, del citato D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 8, comma 2, si concludeva con la previsione secondo cui “le disposizioni del presente decreto si applicano a decorrere dall’anno accademico 1991-92”.

1.5. Ciò posto in diritto, si rileva in fatto che è lo stesso ricorrente a dichiarare (p. 2 del ricorso) di avere completato la propria formazione specialistica nel 1990, e dunque ben prima dell’approvazione sia del D.Lgs. n. 257 del 1991, sia del D.M. 31 ottobre 1991.

Ora, quale che fosse la qualificazione che volesse darsi alla condotta dello Stato il quale, tardivamente recependo una direttiva comunitaria attributiva ai singoli soggetti di diritti sufficientemente determinati, causi loro un pregiudizio economico (“fatto illecito”, “obbligazione di fonte legale”, od altro), quel che è certo è che la stima del pregiudizio da quella condotta causato non sfugge ai principi generali in tema di risarcimento del danno.

Principio generale in tema di risarcimento del danno patrimoniale è ovviamente quello di causalità, in virtù del quale in tanto si può predicare l’esistenza d’un “danno” in senso giuridico, in quanto sia possibile affermare che, se il responsabile avesse tenuto una condotta diversa da quella effettivamente tenuta, il danneggiato si sarebbe trovato in una diversa e più favorevole condizione patrimoniale.

Nel nostro caso, pertanto, un credito risarcitorio (o indennitario, se si preferisce) dell’odierno ricorrente in tanto sarebbe predicabile in iure, in quanto potesse affermarsi che, se lo Stato italiano avesse dato attuazione alle direttive comunitarie entro il termine da quelle previsto, egli avrebbe beneficiato d’un incremento patrimoniale che invece ha perduto.

Ma, per quanto detto, il ricorrente ha frequentato la scuola di specializzazione tra il 1987 ed il 1990. Pertanto nel periodo compreso tra la scadenza del termine per lo Stato italiano di dare attuazione alle direttive comunitarie (1982), e il completamento del corso di specializzazione da parte dell’odierno ricorrente (1990), non esisteva alcuna norma che sancisse la “equipollenza” della specializzazione da lui conseguita a quelle previste in almeno altri due Stati membri. Nè, ovviamente, il diritto comunitario imponeva all’Italia di sancire l'”equipollenza” della specializzazione in medicina legale.

E’, di conseguenza, giuridicamente insostenibile che il corso di specializzazione frequentato dal ricorrente debba ritenersi equipollente a quelli previsti in almeno altri due Stati membri, in virtù di norme che non esistevano all’epoca in cui quel corso venne frequentato.

E se può imputarsi allo Stato italiano di avere dato tardiva attuazione alla Direttiva 75/363 (come modificata dalla Direttiva 1982/76), nella parte in cui imponeva agli Stati membri l’obbligo di remunerare i frequentati le scuole di specializzazione in medicina, certamente non gli si può rimproverare a titolo di “illecito comunitario” di non avere ampliato il novero delle specializzazioni equipollenti, dal momento che tale ampliamento per gli Stati membri costituiva una facoltà, e non un obbligo loro imposto dalla normativa comunitaria, come già ritenuto da questa Corte, proprio con riferimento alla specializzazione in medicina legale (Sez. 3, Ordinanza n. 19120 del 17.7.2019, sia pure obiter dictum; Sez. 3, Ordinanza n. 1058 del 17.1.2019).

2. Le spese.

2.1. Le spese del presente giudizio di legittimità possono essere compensate per l’intero, tenuto conto della incertezza del quadro normativo e giurisprudenziale che ha caratterizzato, negli ultimi anni, la materia oggetto del contendere.

2.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

la Corte di Cassazione:

(-) rigetta il ricorso;

(-) compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di L.G. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 31 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2020

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