Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8376 del 08/04/2010

Cassazione civile sez. I, 08/04/2010, (ud. 10/12/2009, dep. 08/04/2010), n.8376

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere –

Dott. SALVATO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

R.G. – domiciliato ex lege in ROMA, presso la Cancelleria

della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avv. MARRA

Alfonso Luigi, in virtu’ di procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero della giustizia in persona del Ministro pro tempore –

domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, dalla quale e’ rappresentato e

difeso;

– controricorrente –

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma depositato il

19.12.2006;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del

10 dicembre 2009 dal Consigliere dott. SALVATO Luigi;

P.M., S.P.G. Dott. Gambardella Vincenzo.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

R.G. adiva la Corte d’appello di Roma, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio promosso innanzi al “Pretore del lavoro di Napoli” con ricorso del 26.11.1999, deciso con sentenza dell’11.10.2000, avverso la quale aveva proposto appello il 30 maggio 2001, accolto con sentenza del 19.3.2004, impugnata con ricorso per Cassazione, non ancora definito.

La Corte d’appello, con decreto del 19.12.2006, riteneva che alla data del ricorso per equa riparazione erano decorsi “circa sei anni” dall’inizio del giudizio presupposto, durata dalla quale doveva essere detratto il tempo di sei mesi ascrivibile all’inerzia del ricorrente, nel proporre appello, con la conseguenza che non era stato violato il termine di ragionevole durata del giudizio (fissato in anni 2,6, due e due per ogni fase).

La Corte territoriale rigettava, quindi, la domanda, dichiarando compensate le spese del giudizio.

Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso R. G., affidato a sei motivi; ha resistito con controricorso il Ministero della giustizia.

Ritenute sussistenti le condizioni per la decisione in Camera di consiglio e’ stata redatta relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comunicata al Pubblico Ministero e notificata alle parti.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- La relazione sopra richiamata ha il seguente tenore:

“1.- I sei motivi denunciano erronea e falsa applicazione di legge (L. n. 89 del 2001, art. 2, e art. 6, par. 1 CEDU), in relazione al rapporto tra norme nazionali e la CEDU, nonche’ della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e di questa Corte ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, omessa decisione di domande (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; artt. 112 e 132 c.p.c.) e, in sintesi, pongono le seguenti questioni:

a) relative alla efficacia della CEDU nell’ordinamento interno ed all’efficacia vincolante per il giudice nazionale della giurisprudenza della Corte EDU (sostanzialmente riproposta in tutti i motivi, richiamando sentenze della Corte europea e di questa Corte;

in tutti i motivi e’ anche reiterata la tesi della vincolativita’ del parametro temporale e di liquidazione del danno stabiliti dalla Corte EDU; nel primo riassuntivamente, in buona sostanza, sono indicati gli argomenti poi ribaditi negli altri mezzi) ed e’ formulato il seguente quesito la L. n. 89 del 2001 e specificamente l’art. 2 costituisce applicazione dell’art. 6 par. 1 CEDU e in ipotesi di contrasto tra la Legge Pinto e la CEDU, ovvero di lacuna della legge nazionale si deve disapplicare la legge nazionale ed applicare la CEDU? (motivo 3);

b) Questioni relative alla durata ed al periodo di tempo di riferimento per la liquidazione del risarcimento.

L’istante, con il motivo 1, lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto avrebbe lamentato l’irragionevole durata della sola fase d’appello, sulla quale la Corte del merito non si sarebbe pronunciata, decidendo invece la domanda concernente l’intero processo. Inoltre, deduce che il parametro di durata ragionevole del giudizio, fissato dalla giurisprudenza in tre anni per il primo grado non sarebbe applicabile al processo del lavoro e previdenziale, in considerazione della disciplina che lo caratterizza e sono, quindi, formulati i seguenti quesiti di diritto: e’ corretto determinare (…) la durata ragionevole del processo in anni due per il primo grado e in un anno e mezzo per il giudizio di appello, ovvero qual e’ la durata ragionevole del presente processo? (motivo 2), ma nel motivo reitera la doglianza relativa al ritardo di 34 mesi in riferimento alla sola fase d’appello; sostiene che il periodo da considerare ai fini della liquidazione dell’equo indennizzo e’ l’intera durata del processo (motivo 4 e 5); il decreto non si e’ pronunciato sulla domanda concernente il bonus di Euro 2.000,00, che spetterebbe nelle cause aventi ad oggetto la materia previdenziale ed i diritti dei lavoratori (motivo 6).

2.- I motivi sono in parte manifestamente inammissibili, in parte manifestamente infondati In linea preliminare va peraltro evidenziata la manifesta la inammissibilita’ delle argomentazioni (e dei corrispondenti profili dei quesiti) incongrue, non correlate alla ratio decidendi del decreto, che ha in parte accolto la domanda.

Analoga conclusione si impone in ordine alle deduzioni che si risolvono in generiche affermazioni sulla diretta applicabilita’ delle sentenze della Corte di Strasburgo, formulate in modo del tutto inconferente e scollegato con la motivazione del decreto.

Ancora preliminarmente, va premesso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il quesito di diritto richiesto dall’art. 366 bis c.p.c., e’ inadeguato, con conseguente inammissibilita’ del motivo di ricorso, quando non sia conferente rispetto alla questione che rileva per la decisione della controversia, quale emerge dall’esposizione del motivo (Cass. S.U. n. 8466 del 2008; n. 11650 del 2008); quando si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilita’ alla fattispecie in esame (Cass. S.U. n. 6420 del 2008); quando non abbia attinenza ne’ col giudizio ne’ col motivo formulato, ma introduca un tema nuovo ed estraneo (Cass. n. 15949 del 2007); quando la sua formulazione non sia precisa, ma si concreti in quesiti multipli o cumulativi (Cass. n. 5471 del 2008; n. 1906 del 2008), logicamente e giuridicamente contraddittori. Posta questa premessa, si osserva:

a) relativamente alle questione sub a), ammissibile e rilevante per l’incidenza su quelle ulteriori, va ribadito il principio enunciato dalle S.U., in virtu’ del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea. Siffatto dovere opera, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001 (sentenza n. 1338 del 2004). In termini analoghi e’ il principio enunciato dalla Corte costituzionale, che, contrariamente all’assunto dell’istante, che si palesa percio’ manifestamente erroneo, ha affermato che al giudice nazionale spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali cio’ sia permesso dai testi delle norme.

Qualora cio’ non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilita’ della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimita’ costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1”. (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).

Resta dunque escluso che, in caso di contrasto, possa procedersi alla “non applicazione” della norma interna, in virtu’ di un principio concernente soltanto il caso del contrasto tra norma interna e norma comunitaria.

In questi termini e’ il principio che puo’ essere enunciato in relazione al quesito posto con il terzo motivo, che rivela la manifesta infondatezza della censura, nei termini in cui e’ stata proposta.

b) In ordine al primo motivo, va ribadito l’orientamento di questa Corte, secondo il quale, pur essendo possibile individuare degli “standard” di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest’ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, agli effetti dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali occorre – secondo quanto gia’ enunciato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo – avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dall’introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa riparazione, dovendosi cioe’ addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva del processo anzidetto, alla maniera in cui si e’ concretamente articolato (per gradi e fasi appunto), cosi’ da sommare globalmente tutte le durate.

Infatti, queste ineriscono all’unico processo da considerare unitariamente, secondo quanto induce a ritenere il fatto che, a norma dell’art. 4 della citata legge, ferma restando la possibilita’ di proporre la domanda di riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, tale domanda deve essere avanzata, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il procedimento stesso, e’ divenuta definitiva (Cass. n. 8717 del 2006; n. 28864 del 2005; n. 3143 del 2004).

Di questo principio ha fatto torretta applicazione la Corte d’appello, con conseguente manifesta infondatezza del primo motivo.

Inoltre, il ricorrente neppure ha specificamente censurato la durata stabilita dalla Corte d’appello.

Egli ha, infatti, ha espressamente dedotto una durata difforme dai parametri fissati dalla Corte EDU e, nel secondo motivo, ha reiterato una specifica doglianza concernente la durata della fase d’appello, prospettando esclusivamente che si sarebbe dovuta valutare solo questa, con deduzione che, per quanto sopra precisato, e’ erronea.

Ne consegue che non, essendo stata puntualmente e correttamente censurata ne’ la valutazione globale operata dalla Corte, ne’ il computo della durata avuto riguardo alla condotta della parte, la statuizione in esame e’ immune da vizi.

I restanti mezzi, concernenti la misura dell’indennizzo sono manifestamente inconferenti.

Infatti, una volta esclusa incensurabilmente la violazione del termine di ragionevole durata, resta esclusa la sussistenza del presupposto del diritto all’equo indennizzo, con conseguente inconferenza delle questioni attinenti alla misura dello stesso.

Pertanto, il ricorso puo’ essere trattato in Camera di consiglio, ricorrendone i presupposti di legge”.

2.- Il Collegio reputa di dovere fare proprie le conclusioni contenute nella relazione, in quanto danno applicazioni a principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, pure indicata nella relazione (e neppure confutati dal ricorrente), con conseguente rigetto del ricorso.

Le spese della presente fase seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese della presente fase, che liquida in complessivi Euro 1.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Cosi’ deciso in Roma, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2010

 

 

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