Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8372 del 04/04/2018


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Cassazione civile, sez. lav., 04/04/2018, (ud. 17/01/2018, dep.04/04/2018),  n. 8372

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Roma rigettava le domande proposte da B.G. nei confronti della BMW Roma s.r.l. volte a conseguire: a) l’accertamento della illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto intimatogli in data 8/3/2005 con applicazione del compendio sanzionatorio di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18; b) l’accertamento di una condotta “mobbizzante” a decorrere dal 2003; c) la violazione dei dettami di cui all’art. 2103 c.c., per essere stato adibito a mansioni di venditore, inferiori alla qualifica di quadro rivestita con la condanna della società al risarcimento dei danni; d) l’annullamento della sanzione di sospensione di tre giorni dal servizio.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 2/4/2012, annullava la sanzione conservativa inflitta al lavoratore, confermando nel resto la sentenza impugnata.

A fondamento del decisum, per quanto in questa sede rileva, i giudici del gravame rimarcavano come l’imputazione di giorni di assenza per malattia a ferie non godute onde conseguire la sospensione del periodo di comporto secondo quanto richiesto dal ricorrente, non fosse ammissibile, stante la insussistenza nell’ordinamento giuridico, di un principio di automaticità del prolungamento del periodo di comporto per la fruizione del periodo feriale, spettando al lavoratore la facoltà di chiederne la sospensione prima della scadenza del termine. Argomentavano quindi che, nella specie, il licenziamento doveva ritenersi perfezionato in data 12/3/2005, sicchè la richiesta di computo dei giorni di ferie spettanti, datata 14/3/2005 e pervenuta in azienda il 16/3/2005, doveva considerarsi tardiva – oltre che priva del requisito essenziale della esatta indicazione del momento a decorrere dal quale avrebbe dovuto operare la conversione del titolo della assenza – essendo intervenuta dopo il superamento del periodo di comporto, maturato il 7/3/2005.

La cassazione di tale pronuncia è domandata dal B. sulla base di unico motivo cui resiste con controricorso, la società intimata.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con unico motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 2109,2110 e 1337 c.c.. Lamenta l’erroneità del convincimento cui era pervenuta la Corte di merito laddove aveva negato l’automatica maturazione del diritto alle ferie, per contro prevista dalla legge o dalla contrattazione collettiva, non essendo necessaria per l’insorgenza del diritto, la formulazione di alcuna richiesta da parte del lavoratore.

Argomenta, quindi, che, alla stregua delle enunciate premesse, il recesso, nello specifico, doveva ritenersi intimato quando il periodo di comporto non si era ancora perfezionato, stante l’interruzione che consegue alla maturazione – in via automatica – del diritto alle ferie.

Deduce inoltre, che la richiesta di imputazione a ferie dell’ultimo periodo di malattia, era stata consegnata al datore di lavoro prima che quest’ultimo gli avesse comunicato il licenziamento, ed era da ritenersi ammissibile in virtù del principio di “conversione delle cause di assenza dal lavoro” essendo possibile attribuire una diversa qualificazione ex post, del titolo di assenza, in altro che presupponga una diversa giustificazione, giacchè non sussiste una incompatibilità assoluta tra ferie e malattia.

2. Il motivo è privo di fondamento.

La tesi patrocinata da parte ricorrente a sostegno del diritto azionato, non rinviene riscontro nei principi che governano la materia come interpretati dalla costante giurisprudenza di legittimità.

Come affermato da questa Corte in numerosi arresti, il lavoratore assente per malattia e ulteriormente impossibilitato a riprendere servizio, non ha, invero, l’incondizionata facoltà di sostituire alla malattia il godimento di ferie maturate quale titolo della sua assenza, allo scopo di bloccare il decorso del periodo di comporto, anche se il datore di lavoro, nell’esercizio del suo diritto alla determinazione del tempo delle ferie, dovendo attenersi alla direttiva dell’armonizzazione delle esigenze aziendali e degli interessi del datore di lavoro (art. 2109 cod. civ.), è tenuto, in presenza di una richiesta del lavoratore di imputare a ferie un’assenza per malattia, a prendere in debita considerazione il fondamentale interesse del richiedente ad evitare la perdita del posto di lavoro a seguito della scadenza del periodo di comporto (con l’onere, in caso di mancato accoglimento della richiesta, di dimostrarne i motivi (vedi Cass. 8/11/2000 n. 14490, Cass. 27/2/2003 n.3028, Cass.22/3/2005 n. 6143 e numerose altre).

E’ stato altresì osservato, con approccio qui condiviso, che, a sostegno della tesi patrocinata da parte ricorrente, neanche potrebbe invocarsi la pronuncia della Corte costituzionale n. 616 del 20 dicembre 1987, giacchè detta pronuncia non ha introdotto nell’ordinamento un principio generale di convertibilità delle cause di assenza dal lavoro, ma ha inteso semplicemente escludere che la causa di sospensione della prestazione lavorativa rappresentata dalla malattia possa temporalmente sovrapporsi alla causa di interruzione del normale corso del rapporto (del quale quindi presuppone la esistenza e la completa funzionalità) rappresentata dalle ferie, di modo che queste ultime risultino “consumate” senza attuazione delle finalità loro proprie. Risulta quindi superata la diversa impostazione, che prospetta una sorta di illimitata possibilità di mutare tutti i titoli giustificativi delle assenze; nè può desumersi dall’ordinamento la esistenza di una regola di automatico prolungamento del limite di tollerabilità dell’assenza per malattia (che è la funzione del periodo di comporto) in misura corrispondente ai giorni di ferie maturati e non goduti, regola non enunciata in via generale neppure da Cass. 6/6/1991 n. 6431 (richiamata dal ricorrente), la quale esaminava un caso particolare, in cui il periodo finale del comporto veniva a coincidere proprio con il periodo ultimo dell’anno entro il quale le ferie non ancora godute dovevano essere comunque concesse dal datore di lavoro in adempimento del suo obbligo annuale (così, in motivazione, Cass. cit. n. 14490/2000).

3. Può dunque affermarsi, in coerenza con il costante e condiviso orientamento espresso da questa Corte, il principio alla cui stregua il lavoratore che, assente per malattia ed impossibilitato a riprendere servizio, intenda evitare la perdita del posto di lavoro a seguito dell’esaurimento del periodo di comporto, deve comunque investire il datore della richiesta di fruizione delle ferie, affinchè questi possa concedere al medesimo di fruire delle ferie durante il periodo di malattia, valutando il fondamentale interesse del richiedente al mantenimento del posto di lavoro; considerato altresì che neanche le condizioni di confusione mentale del lavoratore per effetto della malattia fanno venir meno la necessità di una espressa domanda di fruizione delle ferie, indispensabile a superare il principio di incompatibilità (sia pur non assoluta), tra godimento delle ferie e malattia (vedi, in tali sensi, Cass. 27/2/2003 n.3028, cui adde Cass. 27/10/2014 n.22753).

4. Dalle enunciate premesse in diritto, discende coerente l’esclusione della configurabilità di un obbligo a carico della parte datoriale, di considerare il lavoratore in ferie, perdurante lo stato di malattia, ed in assenza di una specifica domanda dell’interessato. Non può infatti tralasciarsi di considerare che, pur avendo il lavoratore assente la facoltà di domandare la fruizione delle ferie – maturate e non godute – allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, egli deve tuttavia formulare l’istanza in epoca anteriore alla sua scadenza (ex plurimis, vedi Cass. 5/4/2017 n. 8834).

Orbene, nello specifico, come bene argomentato dalla Corte distrettuale, stante la non automaticità di conversione delle cause di assenza dal lavoro da malattia in ferie, il periodo di comporto era da ritenersi ormai spirato in data 7/3/2005. La domanda al riguardo formulata dal lavoratore il 14/3/2005 era da reputarsi, pertanto, tardiva, ed inidonea a consentire una pur ammissibile sospensione del periodo di comporto.

Nell’ottica descritta appare ultroneo il riferimento, del pari contenuto nel ricorso introduttivo del presente giudizio, alla circostanza che la domanda di sospensione del periodo di comporto fosse intervenuta in epoca anteriore alla comunicazione del licenziamento (che si deduce perfezionato in data 16/3/2005 invece che in data 12/3/2005 come accertato dai giudici del gravame) ed all’esaurimento di detto periodo, giacchè, a prescindere dalla soluzione che voglia conferirsi alla questione della individuazione del momento ‘in cui deve ritenersi perfezionata la ricezione della lettera di licenziamento (peraltro correttamente risolta dai giudici del gravame con riferimento al momento del rilascio di avviso di giacenza presso l’ufficio postale alla luce della giurisprudenza di questa Corte: ex multis vedi Cass. 3/11/2016 n.22311), all’epoca di invio della istanza da parte del B., il periodo di comporto era già spirato.

5. In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso va rigettato.

Il ricorrente, secondo la regola della soccombenza, va condannato al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore nella misura in dispositivo liquidata.

La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 e di provvedere in conformità.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 3, comma 1 quater, dichiara sussistenti i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2018

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