Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8369 del 29/04/2020

Cassazione civile sez. II, 29/04/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 29/04/2020), n.8369

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20075/2019 proposto da:

G.M.N., rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCA

GORINI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– resistente –

avverso il decreto n. cron. 4112/2019 del TRIBUNALE di MILANO,

depositato il 19/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/01/2020 dal Presidente Dott. FELICE MANNA.

Fatto

IN FATTO

G.M.N., cittadino senegalese, nato nel (OMISSIS), proponeva innanzi al Tribunale di Milano ricorso avverso la decisione della locale Commissione territoriale, che aveva respinto la sua domanda di protezione internazionale o umanitaria. A sostegno della domanda, premesso di essere un contadino di etnia wolof e di religione musulmana, sosteneva di aver dovuto lasciare il suo Paese d’origine in quanto vessato, dapprima solo dalla sua famiglia, poi anche dalla comunità del villaggio in cui viveva, a causa della pigmentazione della sua pelle, che essendo più scura di quella dei genitori e dei fratelli, aveva fatto sorgere il sospetto di una sua diversa paternità biologica.

Con decreto del 19.4.2019 il Tribunale rigettava il ricorso.

Escludeva, infatti, che il richiedente potesse ottenere lo status di rifugiato in quanto il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, prevede che i responsabili della persecuzione (come del danno grave, su cui si basa la protezione sussidiaria) siano soggetti quali lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio o soggetti non statuali, se tali soggetti non possono o non vogliono fornire protezione, ai sensi dell’art. 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi. E che nel caso in esame non vi era un agente di persecuzione, in quanto quest’ultima – comunque non riscontrabile nello specifico – era imputabile ad una persona fisica. La vicenda narrata, concludeva, configurava non già gli estremi di una persecuzione, suscettibile di protezione internazionale, ma i connotati di una questione di pura indole familiare.

Il Tribunale escludeva, altresì, la ricorrenza delle restanti forme di protezione. In particolare, per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità, riteneva che l’aver il richiedente svolto proficuamente le tipiche attività organizzate nei centri d’accoglienza, non giustificava il riconoscimento della protezione umanitaria, non essendo indicativa di un effettivo radicamento nello Stato d’accoglienza; nè, operata una valutazione comparativa delle condizioni personali di lui in Italia e nel Senegal, poteva ritenersi impercorribile una ricollocazione anche lavorativa nel Paese d’origine, cui nulla, neppure l’ostilità del padre, ostava, non essendo il richiedente più giovanissimo.

Per la cassazione di tale provvedimento G.M.N. propone ricorso, affidato a tre motivi.

Il Ministero dell’Interno non ha svolto attività difensiva.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo lamenta, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato, ratificata e rese esecutiva in Italia con L. n. 722 del 1954, nonchè dell’art. 4, commi 3, 4 e 5, della direttiva 2004/83/CE, e del D.Lgs n. 251 del 2007, art. 3, commi, 3, 4 e 5. Richiamati gli oneri d’allegazione e di cooperazione istruttoria, che gravano rispettivamente sulla parte richiedente e sul giudice, nonchè, in generale, la negazione dei diritti umani in Senegal, il motivo censura la pretesa contraddittorietà della motivazione del decreto impugnato, che avrebbe ritenuto il racconto del ricorrente per un verso non riscontrabile, e per altro verso non provato, pur in difetto della necessaria cooperazione istruttoria.

2. – Col secondo mezzo parte ricorrente allega la violazione o falsa applicazione dell’art. 15 direttiva 2004/83/CE, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e art. 3 CEDU, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto, si sostiene, il Tribunale non avrebbe considerato, sotto il profilo della protezione sussidiaria, che il richiedente, ove tornasse in Senegal, rischierebbe di subire torture o pene o trattamenti degradanti da parte del padre o del capo villaggio, come dimostrerebbe la sua vicenda personale.

3. – Il terzo motivo espone la “violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5” (sic) per omesso esame d’un fatto decisivo e discusso, id est la mancata valutazione di documentazione (avente ad oggetto la frequentazione di un corso di italiano e l’attività di volontariato e di lavoro iniziata il 25.11.2017, con un contratto a tempo determinato in qualità di magazziniere), che attesterebbe l’inizio da parte del richiedente d’un percorso d’integrazione culturale, sociale, relazionale e lavorativo in Italia.

4. – I primi due motivi sono inammissibili, perchè eludono la ratio decidendi su cui si basa il provvedimento impugnato.

Detta decisione, contrariamente a quanto suppone parte ricorrente, nell’escludere le condizioni del rifugio ha dichiaratamente prescisso “dalla credibilità da riconoscere al racconto narrato dal richiedente” (così a pag. 3). Correttamente, infatti, il giudice di merito ha ritenuto che quanto narrato dal richiedente non ne configurasse gli estremi, atteso che la persecuzione deve provenire dallo Stato o da organismi o gruppi che, di fatto o di diritto, ne vicarino il controllo territoriale. Al contrario, la vicenda riguardava conflitti familiari, che in quanto tali non potevano essere ricondotti ad una fattispecie di persecuzione. La quale ultima – va soggiunto – per di più deve essere motivata da ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica. Per contro, il colore della pelle del richiedente rileva, nell’economia del racconto di lui, non come connotato di appartenenza razziale, ma quale elemento rivelatore d’una possibile procreazione adulterino.

5. – Anche il terzo motivo non ha pregio.

il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (applicabile ratione temporis: cfr. S.U. n. 29459/19), al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (n. 4455/18).

Tale comparazione presuppone, pertanto, un livello d’integrazione sociale nel Paese di accoglienza che, a sua volta, non può derivare dal solo svolgimento in quest’ultimo di un’attività lavorativa e dalla frequentazione di un corso di lingua italiana, attività entrambe riservate a chi, trovandosi nel territorio dello Stato, necessita di un minimo livello di accoglienza civile.

6. – In conclusione il ricorso va respinto.

7. – Nulla per le spese, non avendo il Ministero svolto attività difensiva.

8. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2020

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