Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 836 del 16/01/2018

Cassazione civile, sez. lav., 16/01/2018, (ud. 13/09/2017, dep.16/01/2018),  n. 836

Fatto

FATTI DI CAUSA

1 – Con sentenza depositata il 5.6.2014, la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del giudice di primo grado, ha respinto la domanda di F.M. di riconoscimento dello svolgimento di mansioni superiori ed ha confermato la statuizione di illegittimità del licenziamento per assenza ingiustificata dal posto di lavoro protratta oltre i quattro giorni consecutivi, con conseguente condanna della società P.S. e figli s.p.a. alla reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18 (nel testo precedente la novella apportata dalla L. n. 92 del 2012).

2 – La Corte di appello ha, per quel che rileva, ritenuto sussistente una legittima forma di autotutela posta in essere, ai sensi dell’art. 1460 c.c., dal lavoratore che – adibito a mansioni inferiori in data 15.2.2011 – aveva atteso il decorso di oltre due mesi, aveva poi richiesto (con lettera del 19.4.2011) la riassegnazione alle mansioni precedentemente svolte e si era assentato (dal 20.4.2011) dal posto di lavoro.

3 – Contro questa sentenza ricorre per Cassazione la società con un articolato motivo illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..

Il lavoratore resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1 – Con l’unico motivo di ricorso (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) la società allega la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1460,2103 e 2119 c.c. avendo, la Corte territoriale, ritenuto l’assenza del lavoratore dal posto di lavoro giustificata dall’asserita, e non dimostrata, dequalificazione, condotta che, in ogni caso, non integra i profili di gravità dell’inadempimento richiesti dall’exceptio inadimpleti di cui all’art. 1460 c.c..

2 – In via preliminare va precisato che al presente ricorso si applica il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 5,convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, visto che la sentenza impugnata è stata depositata il 5.6.2014 (e, quindi, dopo l’11.9.2012), con conseguente inammissibilità della parte del motivo ove si fa riferimento alla contraddittorietà della sentenza impugnata in merito alla sussistenza della dequalificazione del lavoratore (decorrente dal 15.2.2011). Invero, le Sezioni unite di questa Corte (cfr. sentenze 7 aprile 2014, n. 8053 e n. 8054) hanno precisato che il nuovo testo della richiamata disposizione ha certamente escluso la valutabilità della “insufficienza” o della contraddittorietà della motivazione, limitando il controllo di legittimità all'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, ossia ai casi in cui la motivazione manchi del tutto ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili.

La Corte territoriale ha, invero, rilevato che la modifica delle mansioni assegnate al F. era consistita nel cambiamento del reparto (dal reparto produzione al reparto montaggio) e nella privazione delle mansioni di responsabilità prima rivestite, “con compiti meramente esecutivi ed addirittura utilizzandolo per eseguire lavori di bassa manovalanza come la pulitura del piazzale esterno” (pag. 4 della sentenza impugnata). La Corte ha aggiunto, inoltre, che gli elementi probatori, di fonte testimoniale, avevano confermato la “platealità” della degradazione”, che emergeva altresì dalla disamina della declaratoria contrattuale (la declaratoria del V livello super, del c.c.n.l. settore Metalmeccanici, ritenuta correttamente attribuita al F.), la quale prevedeva l’autonomia di decisioni sulla successione delle operazioni, sui mezzi e sulle modalità di esecuzione delle attività “affidate ad altro personale”.

3 – Considerato, pertanto, che debbono ritenersi provati i presupposti fattuali per l’applicabilità dell’art. 1460 c.c., ossia il parziale inadempimento datoriale consistito nell’adibizione del lavoratore – per circa due mesi – a mansioni inferiori rispetto alla qualifica di appartenenza, va valutata la proporzionalità del comportamento del F. che, svolte per due mesi le nuove mansioni assegnate, ha eccepito l’inadempimento con lettera del proprio legale di fiducia (del 19.4.2011), ha ritenuto di assentarsi (dal giorno successivo, ossia dal 20.4.2011) dal posto di lavoro.

La Corte distrettuale ha evidenziato che il rifiuto della prestazione diversa da quella in precedenza assegnata trovava giustificazione nell’art. 1460 c.c. in considerazione del protrarsi dell’adibizione a mansioni inferiori per oltre due mesi, nonostante diffida formale del legale del lavoratore.

Ritiene il Collegio di confermare l’orientamento già enunciato in precedenti ipotesi concernenti il rifiuto della prestazione a seguito di adibizione a mansioni inferiori, orientamento in base al quale il lavoratore non può rendersi totalmente inadempiente alla prestazione sospendendo ogni attività lavorativa, ove il datore di lavoro assolva a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro), potendo – una parte – rendersi totalmente inadempiente e invocare l’art. 1460 c.c. soltanto se è totalmente inadempiente l’altra parte.

L’adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può, difatti, consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario che, peraltro, può essergli urgentemente accordato in via cautelare, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartito dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost. e può legittimamente invocare l’art. 1460 c.c., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell’altra parte (cfr. Cass. 29.1.2013, n. 2033; Cass. 20.7.2012 n. 12696; Cass. 19.12.2008 n. 29832, Cass. 5.12.2007 n. 25313).

Nell’alveo di questo orientamento si pone altresì la recente decisione di questa Corte che ha ritenuto giustificato il rifiuto della prestazione lavorativa a fronte di un inadempimento datoriale complesso ossia non esclusivamente consistente in una dequalificazione professionale ma altresì comportante una esposizione a responsabilità penale connessa allo svolgimento delle nuove mansioni (Cass. 19.7.2013, n. 17713).

In linea più generale, con particolare riguardo al requisito della proporzionalità dei comportamenti nell’ambito del contratto a prestazioni corrispettive, questa Corte ha ritenuto il rifiuto della prestazione lavorativa una legittima forma di autotutela a fronte di un inadempimento datoriale che comprometta i beni personali del lavoratore (vita e salute), in violazione del dovere di protezione della persona del lavoratore, e che metta irrimediabilmente a rischio la sua incolumità (cfr. da ultimo Cass. 30/11/2016 n. 24459; Cass. 19/01/2016 n. 831; Cass. 07/05/2013 n. 10553).

4 – La Corte territoriale non si è, inoltre, soffermata sulla tempistica cronologica degli avvenimenti, e in particolare sull’assenza dal posto di lavoro nel giorno immediatamente successivo alla lettera di diffida inoltrata al datore di lavoro, trattandosi di un elemento non trascurabile, al fine di stabilire, nell’ambito della valutazione complessiva del comportamento del F. e della ricorrenza della buona fede richiesta dall’art. 1460 c.c., se il rifiuto allo svolgimento della totalità delle mansioni assegnate poteva realmente essere configurato, dal punto di vista della violazione alla disciplina e alla diligenza che il lavoratore, come legittima forma di autotutela tale da escludere la sanzione del licenziamento.

5 – Il ricorso va, pertanto, accolto non essendosi, la Corte territoriale, conformata al consolidato orientamento di questa Corte che ritiene legittimo, nel contratto a prestazioni corrispettive ex art. 1460 c.c., il rifiuto da parte del lavoratore di essere addetto allo svolgimento di mansioni non spettantegli, sempre che tale rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e sia conforme a buona fede.

Ne deriva che il ricorso va accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata.

Posto che la Corte distrettuale rileva che risulta pacifico che l’assenza del F. si è protratta per oltre quattro giorni e che la disciplina collettiva riconnette, a tale mancanza, la sanzione del licenziamento, non sono necessari ulteriori accertamenti; la causa va decisa nel merito, con il rigetto delle domande di accertamento della illegittimità del licenziamento intimato il 4.5.2011 e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro.

6 – Quanto alla regolamentazione delle spese, per il giudizio di merito si compensano integralmente le spese tra le parti in considerazione della parziale soccombenza reciproca, mentre le spese del presente giudizio di legittimità vengono poste a carico del controricorrente soccombente.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta le domande di accertamento della illegittimità del licenziamento e di applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18. Compensa tra le parti le spese del giudizio di merito e condanna il controricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2018

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