Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8354 del 08/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 08/04/2010, (ud. 03/03/2010, dep. 08/04/2010), n.8354

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. PICONE Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VETRURIA 100,

presso lo studio dell’avvocato ANTONAZZO STEFANIA, rappresentato e

difeso dall’avvocato MICALETTO FRANCESCO, giusta mandato in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

S.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

ADRIATICO 23, presso lo studio dell’avvocato RICCI RENATO,

rappresentata e difesa dall’avvocato DE MARINI MARCELLO, giusta

mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2653/2005 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 10/01/2 r.g.n. 987/05;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del

03/03/2010 dal Consigliere Dott. PICONE Pasquale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

PREMESSO IN FATTO

La sentenza di cui si domanda la cassazione rigetta l’appello di B.A. e conferma la decisione del Tribunale di Lecce – giudice del lavoro – in data 11.11.2004, con la quale il B. era stato condannato al pagamento di Euro 80.784,69 in favore di S.C., erede del coniuge B.F., a titolo di liquidazione della quota degli utili spettanti per l’attivita’ prestata dal defunto quale collaboratore nell’impresa familiare.

La Corte di appello di Lecce perviene al rigetto dell’impugnazione osservando: il diritto alla quota degli utili, maturato alla data della morte del collaboratore familiare, risultava correttamente determinato in base all’imputazione del reddito spettante a ciascun partecipante stabilita con la scrittura privata (OMISSIS), ne’ era comprovato un accordo circa il reinvestimento degli utili; dalla consulenza tecnica non erano emersi debiti dell’azienda, mentre il reddito prospettico dell’impresa era stato determinato con riferimento alle dichiarazioni fiscali 1995 – 1997 e capitalizzato secondo il tasso del 13,19%.

Il ricorso di B.A. si articola in tre motivi; resiste con controricorso S.C..

Diritto

RITENUTO IN DIRITTO

Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione dell’art. 230 bis c.c., si censura la sentenza impugnata per non aver considerato, ai fini della determinazione del valore dell’azienda, le esposizioni debitorie, ne’ il fatto che l’impresa familiare veniva a cessare con la morte del partecipante.

Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 230 bis c.c. e vizio della motivazione, si deduce che B.A. prestava la sua opera quale lavoratore subordinato alle dipendenze di B. F..

Con il terzo motivo, denunciando ancora violazione dell’art. 230 bis c.c. e vizio della motivazione, si sostiene che la cessazione dell’attivita’ e l’impossibilita’ di cessione a terzi a causa dell’esposizione debitoria costituivano elementi che avrebbero dovuto essere valutati ai fini della determinazione del valore.

Il ricorso, esaminati unitariamente tre motivi, deve essere dichiarato inammissibile.

Va richiamato il principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui, qualora una determinata questione che implichi un accertamento in fatto non risulti in alcun modo trattata nella sentenza impugnata, il ricorrente per Cassazione che richiami tale questione in sede di legittimita’ denunciando sul punto il vizio di omessa motivazione, per evitare una pronuncia di inammissibilita’ per novita’ della censura, ha l’onere di allegare non solo la gia’ avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente abbia a cio’ provveduto, onde dare modo alla Corte di Cassazione di controllare la veridicita’ di tale asserzione, (cfr., tra le numerose decisioni, Cass. 10 luglio 2001, n. 9336; 19 giugno 2002, n. 8932; 20 agosto 2003. n. 12255).

Alla stregua di tale principio non e’ ammissibile la questione posta con il secondo motivo, diretta a contestare la sussistenza del presupposto stesso dell’istituto dell’impresa familiare, cioe’ l’assenza di rapporto di lavoro subordinato o autonomo, contestazione che non risulta essere stata sollevata nei gradi di merito.

Ugualmente deve dirsi in ordine alla denuncia relativa alla mancata considerazione della circostanza che, con la morte di B. F., l’attivita’ era definitivamente cessata, trattandosi di fatto non risultante dalla motivazione della sentenza e in relazione al quale il vizio di motivazione non e’ denunciabile allorche’ non siano indicate le modalita’ con le quali e’ stato sottoposto allo scrutinio del giudice del merito.

Quanto infine all’esposizione debitoria dell’impresa familiare (circostanza richiamata nel primo e nel terzo motivo), non sussistono i requisiti di ammissibilita’ della contestazione mossa all’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui non erano comprovati debiti dell’impresa. Ci si limita, infatti, a dedurre che i debiti sarebbero dimostrati dai documenti prodotti in causa, ma nulla viene precisato sul contenuto dei detti documenti e in ordine alla rituale produzione di essi in giudizio.

Va richiamato, al riguardo, il principio secondo il quale la parte che denuncia, in sede di legittimita’, il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie e processuali, ha l’onere di indicare, a pena di inammissibilita’ della censura, specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato o erroneamente interpretato dal giudice di merito, al fine di consentire il controllo della decisivita’ dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse, dato che questo controllo, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, deve poter essere compiuto dalla Corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non e’ consentito sopperire con indagini integrative (vedi, tra le decisioni piu’ recenti, Cass. 10 luglio 2009, n. 16215). Residuano pertanto mere affermazioni del ricorrente che si contrappongono a quelle, di segno opposto, contenute nella sentenza impugnata, esulandosi cosi’ dallo schema del vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimita’ ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Alla declaratoria di inammissibilita’ del ricorso segue la condanna del ricorrente al rimborso delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, nella misura determinata in dispositivo.

PQM

LA CORTE Dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, liquidate le prime in Euro 20,00 i secondi in Euro 2.000,00 (duemila/00).

Cosi’ deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 3 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2010

 

 

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