Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8348 del 24/03/2021

Cassazione civile sez. II, 24/03/2021, (ud. 06/10/2020, dep. 24/03/2021), n.8348

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22100/2019 proposto da:

O.D., rappresentato e difeso dall’avvocato NUNZIA LUCIA

MESSINA, e domiciliato presso la cancelleria della Corte di

Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO

PROTEZIONE INTERNAZIONALE CATANIA;

– intimato –

avverso il provvedimento del TRIBUNALE di CATANIA, depositato il

17/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/10/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso depositato il 13.3.2018 il ricorrente impugnava il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale con il quale era stata respinta la sua istanza volta ad ottenere la predetta tutela.

Con il decreto impugnato, il Tribunale di Catania rigettava il ricorso.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione O.D., affidandosi a cinque motivi.

Il Ministero dell’Interno intimato non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.L. n. 13 del 2017, art. 35-bis, convertito in L. n. 46 del 2017, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè il giudice di merito avrebbe erroneamente omesso di considerare il contesto di violenza generalizzata esistente in Libia, Paese in cui il richiedente era rimasto per diversi mesi venendo anche imprigionato. Ad avviso del ricorrente, il Tribunale avrebbe dovuto considerare che la Libia non era soltanto un Paese di mero transito e, quindi, apprezzarne il contesto nell’ambito della valutazione sulla sussistenza del pericolo nel rimpatrio.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’omesso esame di fatto decisivo, sempre con riferimento al suo vissuto in Libia, ove sarebbe rimasto per nove mesi.

Le due censure, che meritano una trattazione congiunta giacchè concernono, sotto diversi profili, la medesima questione, sono inammissibili. La permanenza in Libia per un periodo di alcuni mesi non è di per sè rilevante ai fini della protezione internazionale, posto il principio generale, che merita di essere qui ribadito, secondo cui “Nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione” (Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 29875 del 20/11/2018, Rv. 651868). Perchè il contesto del Paese di transito possa rilevare occorre, ai fini della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c), che il richiedente deduca un forte radicamento in quel territorio, tale da poter far presumere il suo ritorno nel detto Paese di transito, e non in quello di origine, in caso di rimpatrio; oppure, ai fini della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. a) e b) e soprattutto della protezione umanitaria, l’esistenza di conseguenze fisiche e psicologiche derivanti dalle violenze e dai trattamenti disumani ai quali egli sia stato esposto nel predetto Paese di transito. Entrambe tali deduzioni mancano totalmente nel caso di specie, posto che il ricorrente nulla di specifico allega, nè sotto il primo, nè sotto il secondo aspetto.

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,11 e 32, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 32, nonchè il vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè il giudice catanese avrebbe dovuto apprezzare il racconto personale, ed in particolare il fatto che la sua fidanzata fosse deceduta a seguito di un aborto, con riguardo al contesto di estrema povertà e disagio esistente nel Paese di origine.

Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 5 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 32, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè il giudice di merito non avrebbe considerato la condizione di estrema vulnerabilità in cui si trovava l’ O., tanto in Nigeria che in Libia, anche alla luce del livello di integrazione socio-lavorativa da lui raggiunto in Italia.

Anche queste censure, che meritano un esame congiunto, sono inammissibili. Esse, invero, si risolvono in una generica istanza di rivalutazione dei fatti, inammissibile in questa sede (Cass. Sez. U., Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790).

Inoltre, esse non si confrontano con le contraddizioni più significative che il Tribunale siciliano ha evidenziato nella storia narrata dal richiedente: in particolare, la circostanza che l’ O. fosse fuggito dalla Nigeria diversi mesi dopo l’aggressione che sarebbe stata subita da suo padre, senza aver subito – dopo tale evento – ulteriori episodi di intimidazione o violenza; nonchè il fatto che il medesimo non avesse chiarito i motivi per cui non aveva sporto denuncia in patria in relazione alla predetta aggressione.

Con il quinto ed ultimo motivo il ricorrente lamenta la violazione dei precetti costituzionali a tutela della “sfera umana e personale” e del combinato disposto del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè il giudice etneo non aveva riconosciuto la sussistenza dei presupposti per la concessione della tutela umanitaria.

Anche questa censura è inammissibile poichè essa neppure coglie la ratio del rigetto. Il Tribunale, invero, ha escluso la protezione umanitaria per assenza di integrazione del richiedente in Italia, dimostrata (tra l’altro) anche dalla non conoscenza della lingua italiana; il ricorrente non attinge in alcun modo questo decisivo passaggio della motivazione del provvedimento impugnato, limitandosi a proporre argomenti generici privi di qualsiasi profilo di attinenza alla specifica condizione soggettiva dell’interessato.

In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese, in assenza di svolgimento di attività difensiva da parte intimata nel presente giudizio di legittimità.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

PQM

la Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 6 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2021

 

 

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