Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8347 del 12/04/2011

Cassazione civile sez. lav., 12/04/2011, (ud. 11/01/2011, dep. 12/04/2011), n.8347

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.A., C.A., L.F.,

R.E., tutte elettivamente domiciliate in ROMA, VIA

FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che le

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BONETTO SERGIO, giusta

delega in atti;

– ricorrenti –

contro

G.F.T. NET S.P.A., in liquidazione, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA P.

L. DA PALESTRINA 47, presso lo studio dell’avvocato GEREMIA RINALDO,

che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati DE LUCA ANITA,

FERRO NATALIA, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1705/2006 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 20/12/2006 R.G.N. 270/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/01/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;

udito l’Avvocato GEREMIA RINALDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 14/11 – 14/12/06 la Corte d’Appello di Torino respinse l’appello proposto da B.A., C. A., L.F. e R.E. avverso la sentenza del 20.10 – 25.11.05 del Tribunale di Torino, con la quale era stata rigettata la loro domanda diretta alla dichiarazione di illegittimita’ del licenziamento collettivo per riduzione del personale ad esse intimato dalla G.F.T. – NET s.p.a in data 20-2-03 a decorrere dall’1-3-03; la stessa sentenza confermata dal giudice d’appello aveva rigettato, altresi’, la domanda subordinata delle lavoratrici diretta all’accertamento della illegittimita’ della loro esclusione dal trattamento di mobilita’ lunga ed alla conseguente condanna al risarcimento dei danni.

La Corte territoriale addivenne a tale decisione sulla scorta delle seguenti considerazioni: all’esito del libero interrogatorio di primo grado le ricorrenti avevano ammesso che al momento della cessione dei rami d’azienda nessuna di esse vi lavorava; era risultato pacifico che le signore B., C. e R. non erano state mai addette ai rami d’azienda ceduti, mentre la L. non era piu’ addetta da quasi un anno allo stabilimento ceduto; la circostanza che una minoranza di soli impiegati fosse rimasta in forza fino al dicembre del 2003 non costituiva affatto sintomo di violazione dei principi di correttezza e buona fede, tanto piu’ che la proroga del termine fino al 31/12/03 era scaturita da un preciso accordo sindacale; la lettura della normativa di riferimento consentiva di ritenere che, essendo i costi della mobilita’ lunga a carico delle imprese, queste ultime avevano la facolta’ e non l’obbligo di accedere al relativo beneficio previdenziale e che il possesso dei requisiti contributivi ed anagrafici necessari per usufruire di un tale tipo di trattamento non poteva da solo bastare a garantire ai lavoratori il conseguimento dello stesso che, come nella fattispecie, era stato discrezionalmente riconosciuto dal Ministero del Lavoro per un numero limitato di dipendenti (22 su oltre cento dipendenti); le norme di cui alla L. n. 223 del 1991, artt. 3 e 7 non dettavano criteri di scelta tra i dipendenti aventi i requisiti per l’accesso alla mobilita’ lunga, mentre la L. n. 229 del 1997, art. 3, comma 6, si limitava a disciplinare i criteri coi quali il Ministero del Lavoro doveva ripartire i posti complessivamente disponibili a livello nazionale tra le imprese richiedenti; pertanto, l’acceso alla mobilita’ lunga non costituiva un diritto, bensi’ una mera aspettativa del lavoratore, per cui era infondata la richiesta risarcitoria; l’unico limite ipotizzabile alla discrezionalita’ datoriale era ravvisabile nel divieto di discriminazioni per motivi sindacali, di eta’, di sesso, di invalidita’ o di presunta ridotta capacita’ lavorativa, fermo restando che era onere dei lavoratori dimostrarne la eventuale sussistenza, circostanza, questa, non riscontrata nella fattispecie.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le lavoratrici di cui in epigrafe, affidando l’impugnazione a due motivi di censura.

Resiste la G.F.T. – NET S.p.A in liquidazione con controricorso.

Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Osserva la Corte che il tema di indagine introdotto con l’attuale ricorso e’ limitato alla questione diretta ad accertare se la mancata ammissione delle lavoratrici di cui in epigrafe al trattamento di mobilita’ lunga, in conseguenza della scelta datoriale ricadente su altri dipendenti inseriti nel limitato novero dei lavoratori autorizzato dal Ministero del Lavoro, rappresenti, in considerazione della omessa indicazione preventiva di oggettivi criteri di scelta da parte dell’impresa abilitata, una violazione dei generali principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. atta a giustificare il riconoscimento, in capo alle dipendenti escluse, del diritto al risarcimento del danno patito per effetto della stessa esclusione.

1. Orbene, col primo motivo si denunzia la violazione del D.L. n. 129 del 1997, art. 3 convertito nella L. n. 229 del 1997, anche in rapporto ad una corretta applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede posti dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ. La tesi sostenuta dalle ricorrenti e’ sostanzialmente quella per la quale la mancanza di norme che obblighino il datore di lavoro a determinati criteri di scelta nella individuazione dei lavoratori da avviare alla mobilita’ lunga gia’ autorizzata non dovrebbe condurre automaticamente alla piena discrezionalita’ dell’imprenditore nella scelta delle persone cui attribuire un tale beneficio di natura tipicamente previdenziale, in quanto cio’ non corrisponderebbe ad alcun criterio di razionalita’ e consentirebbe la violazione del dovere di correttezza e buona fede, particolarmente importante nel settore del diritto del lavoro. Secondo tale tesi, inoltre, se da un lato e’ vero che la norma individua la mobilita’ lunga come strumento ipotetico, attivabile solo su domanda dell’impresa, dall’altro e’ certo che la stessa norma chiarisce i criteri per il riconoscimento del diritto di accesso al trattamento (durata dello stato di crisi e prossimita’ dei lavoratori al pensionamento), per cui non sarebbe affatto irrazionale una estensione degli stessi criteri anche alla fase successiva relativa alla individuazione dei singoli lavoratori che potrebbero beneficiare del prolungamento della mobilita’. Quindi, l’adozione anche per tale fase del criterio di priorita’ stabilito dal D.L. n. 129 del 1997, art. 3 (conv. nella L. n. 229 del 1997) per l’accoglimento delle domande da parte del Ministero del Lavoro consentirebbe di operare una selezione assolutamente trasparente, verificabile, oggettiva e rispondente ai criteri di correttezza e buona fede. Invece, la scelta interpretativa restrittiva seguita dalla Corte di merito finirebbe per autorizzare in maniera ingiustificata la parte datoriale al superamento del generale principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, con conseguente disapplicazione dei criteri di razionalita’, obiettivita’ e non discriminazione nei confronti di quei lavoratori non risultati prescelti dall’impresa, in quanto tenuta ad osservare il piu’ ridotto limite numerico dei dipendenti ammessi al trattamento stesso.

Il quesito che al riguardo si pone e’ quello diretto ad accertare se il D.L. n. 129 del 1997, art. 3 convertito in L. n. 229 del 1997, ed i principi generali di correttezza e buona fede impongano o meno l’obbligo per l’imprenditore di applicare criteri obiettivi e verificabili nell’operare la scelta dei lavoratori cui attribuire i benefici della “mobilita’” lunga in un caso in cui il numero dei lavoratori licenziati in possesso dei requisiti per l’accesso a tali benefici ecceda il numero di posti autorizzati dalla competente attivita’ ministeriale.

2. Col secondo motivo viene dedotta la violazione della L. n. 223 del 1991, art. 7, commi 6 e 7, con riferimento alla qualificazione giudiziale come mera aspettativa, anziche’ come diritto, dell’accesso alla mobilita’ lunga del dipendente collocato in mobilita’ che pure sia in possesso dei relativi requisiti soggettivi specifici e si formula, di conseguenza, il seguente quesito: “Dica la Corte se costituisca violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 7, commi 6 e 7, affermare che l’accesso alla mobilita’ lunga non costituisca un diritto ma una mera aspettativa del dipendente collocato in mobilita’ che pure sia in possesso dei relativi requisiti soggettivi specifici”.

Osserva la Corte che per un motivo di priorita’ logica e’ opportuno affrontare preliminarmente la disamina del secondo motivo, in quanto lo stesso investe direttamente il problema dell’esistenza del diritto alla cosiddetta mobilita’ lunga da parte del lavoratore collocato in mobilita’ ed in possesso dei requisiti soggettivi. La norma invocata, vale a dire la L. n. 223 del 1991, art. 7, commi 6 e 7, dopo aver individuato al comma 6 le aree di intervento ed i requisiti di anzianita’ contributiva che devono possedere i lavoratori collocati in mobilita’ entro la data del 31/12/92, stabilisce le modalita’ di prolungamento (fino alla data di compimento dell’eta’ pensionabile) e di misura dell’indennita’ di mobilita’ (80% per i periodi successivi a quelli previsti nei primi due commi dello stesso art. 7), mentre il comma 7 prevede, entro i predetti ambiti, che ai lavoratori collocati in mobilita’ entro la suddetta data, i quali al momento della cessazione del rapporto abbiano compiuto un’eta’ inferiore di non piu’ di dieci anni rispetto a quella legalmente prevista per il pensionamento di vecchiaia e che possano far valere nell’A.G.O un’anzianita’ contributiva non inferiore a ventotto anni, l’indennita’ in esame spetta fino alla data di maturazione del diritto al pensionamento di anzianita’. La stessa disposizione normativa prevede, inoltre, che per i lavoratori dipendenti anteriormente alla data del 31/12/1992 dalle societa’ non operative della Societa’ di gestione e partecipazioni industriali Spa (GEPI) e della Iniziative Sardegna Spa (INSAR) si prescinde dal requisito dell’anzianita’ contributiva e precisa, infine, che l’indennita’ di mobilita’ non puo’ essere corrisposta per un periodo superiore a dieci anni.

Ebbene, ritiene la Corte che la soluzione auspicata attraverso il quesito conclusivo del secondo motivo di censura non trova riscontro alcuno nella struttura della norma di cui al citato L. n. 223 del 1991, art. 7, commi 6 e 7, per la semplice ragione che la stessa si limita ad individuare le aree in cui e’ possibile il ricorso alla cosiddetta mobilita’ lunga e ad elencare, nel contempo, i requisiti di anzianita’ contributiva che i lavoratori gia’ posti in mobilita’ entro una determinata data devono possedere per poter accedere al trattamento in discussione, per cui non si vede come possa farsi discendere da cio’ un obbligo giuridico in capo alla parte datoriale di adottare gli stessi criteri previsti per la preventiva autorizzazione di accesso al prolungamento anche nella susseguente fase di individuazione dei dipendenti che possono concretamente avvantaggiarsene nell’ipotesi, come la presente, in cui vi sia un numero di aspiranti superiore a quello massimo preventivamente fissato dal Ministero competente.

Una conferma che non si tratti di un obbligo giuridico facente capo al datore di lavoro, solo in presenza del quale si potrebbe ipotizzare un corrispettivo diritto dei lavoratori interessati ad essere scelti per il trattamento secondo regole specificamente predeterminate, la si trae anche dalla circostanza che la norma sulla mobilita’ lunga di cui al D.L. 19 maggio 1997, n. 129, art. 5 convertito nella L. 18 luglio 1997, n. 229, prevede al comma 6 che le imprese che intendono avvalersi delle disposizioni regolanti il trattamento in esame devono presentare domanda al Ministero del Lavoro e della previdenza sociale entro il 31/7/1997, mentre al quinto comma stabilisce che per i lavoratori collocati in mobilita’ ai fini della stessa norma gli oneri conseguenti al permanere nelle liste di mobilita’ oltre i limiti previsti dalla L. n. 223 del 1991, art. 7, commi 1, 2 e 4 ivi compreso l’onere relativo alla contribuzione figurativa, sono posti a carico delle imprese che, a tal fine, corrisponderanno all’INPS i relativi importi alla fine di ciascun anno solare, nella misura corrispondente all’onere sostenuto.

Puo’, quindi, dedursi che diversi fattori contribuiscono nel loro insieme alla formazione del convincimento che non puo’ sussistere il diritto prospettato col secondo quesito: anzitutto, la mancata previsione normativa di criteri di scelta per l’individuazione dei lavoratori in mobilita’ da avviare allo speciale trattamento di prolungamento della stessa, nel caso in cui questo sia autorizzato per un numero inferiore rispetto a quello dei legittimi aspiranti; in secondo luogo, la volontarieta’ del ricorso al particolare trattamento di prolungamento della mobilita’ da parte delle imprese rientranti nel novero di quelle che hanno titolo per richiederlo ai sensi della stessa L. n. 229 del 1997 e la correlata facolta’ del Ministero di autorizzarlo e di stabilire i limiti dell’autorizzazione; il carico contributivo dell’operazione ricadente sulle stesse imprese richiedenti; infine, la mancata allegazione di atti discriminatori da parte del datore di lavoro.

In particolare modo va rilevata l’obiettiva inconciliabilita’ della libera scelta imprenditoriale del ricorso al trattamento di cui si discute e del suo carico contributivo sul datore di lavoro con la prefigurazione di particolari obblighi a carico di quest’ultimo nell’operazione di cernita all’interno degli aspiranti lavoratori eventualmente in esubero, i quali possono, pertanto, vantare solo una legittima aspettativa a poter beneficiare del prolungamento del trattamento di mobilita’ e non il diritto ad un automatico accesso allo stesso, non essendo rinvenibile un tale tipo di diritto nella struttura normativa che disciplina l’istituto in esame. Ne consegue che il secondo motivo e’ infondato.

In merito al primo motivo, volto ad accertare se il D.L. n. 129 del 1997 (convertito nella L. n. 229 del 1997) e i principi generali di correttezza e buona fede previsti dalle norme del codice civile impongano o meno l’obbligo per l’imprenditore di applicare criteri obiettivi e verificabili nell’operare la scelta dei lavoratori cui attribuire i benefici della “mobilita’” lunga in un caso in cui il numero dei lavoratori licenziati in possesso dei requisiti per l’accesso a tali benefici ecceda il numero di posti autorizzati dalla competente attivita’ ministeriale, si osserva che l’unico limite che si puo’ prefigurare, in mancanza di norme che contengano precisi criteri di scelta, e’ quello generale, di fonte costituzionale, del divieto di adozione di atti discriminatori di cui all’art. 3 Cost., per cui mai potrebbero avere valore giuridico criteri di scelta basati su ragioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche o di condizioni personali e sociali. Tra l’altro, e’ appena il caso di osservare che nella fattispecie nemmeno sono state allegate o provate circostanze atte a far ritenere che i criteri di scelta adoperati dalla societa’ convenuta eludessero il predetto divieto di atti discriminatori. Egualmente, va rilevato che non risultano essere state effettuate allegazioni su eventuali violazioni del generale principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. astrattamente invocato, in relazione a fattispecie concretamente verificatesi.

Ne consegue che anche il primo motivo e’ infondato.

In definitiva, puo’ affermarsi che la mancanza di qualsiasi previsione normativa in ordine ai criteri di scelta per l’accesso al trattamento della cosiddetta “mobilita’ lunga” di cui al D.L. n. 129 del 1997, art. 3 convertito nella L. n. 229 del 1997, i cui costi contributivi sono a carico del datore di lavoro che ne abbia fatto richiesta, non consente di ravvisare, in assenza di specifiche allegazioni circa evidenti comportamenti discriminatori del datore di lavoro, una violazione dei generali principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., propri dell’ambito obbligazionario, nell’operato di quest’ultimo nel caso in cui il medesimo non indichi i criteri ai quali si e’ attenuto nel pervenire alla individuazione dei dipendenti da includere nell’elenco definitivo dei lavoratori numericamente prestabilito in sede di autorizzazione dal Ministero del Lavoro, ai sensi del suddetto decreto legge, art. 3, comma 6 in numero inferiore rispetto a quello dei dipendenti astrattamente candidati al beneficio. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

La novita’ della questione trattata induce la Corte a ritenere interamente compensate tra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio.

Cosi’ deciso in Roma, il 11 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2011

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA