Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8346 del 24/03/2021

Cassazione civile sez. II, 24/03/2021, (ud. 22/09/2020, dep. 24/03/2021), n.8346

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24354/2019 proposto da:

A.S., rappresentato e difeso dall’Avvocato MASSIMILIANO

VIVENZIO, presso il cui studio a Robbiate, via Novarino 6,

elettivamente domicilia, per procura speciale in calce al ricorso

del 23/7/2019;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il DECRETO n. 5427/2019 del TRIBUNALE DI MILANO, depositato

il 26/6/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 22/9/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Milano, con il decreto in epigrafe, ha respinto l’impugnazione che A.S., nato in (OMISSIS), aveva proposto avverso il provvedimento con il quale la commissione territoriale aveva a sua volta respinto la domanda di protezione internazionale da lui presentata.

A.S., con ricorso notificato il 26/7/2019, ha chiesto, per due motivi, la cassazione del decreto, dichiaratamente notificato il 26/6/2019.

Il ministero dell’interno è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 9, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 14, lett. C e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha rigettato la domanda di protezione sussidiaria sulla base di informazioni generali circa la situazione interna del Mali che, però, non tengono in considerazione gli eventi susseguitisi a partire dal gennaio del 2019, quando, cioè, il giudizio era ancora in corso.

1.2. Il tribunale, infatti, ha osservato il ricorrente, tra l’udienza di comparizione e la definizione del procedimento, avvenuta nella Camera di consiglio dell’8 maggio 2019, avrebbe avuto la possibilità, avvalendosi dei poteri istruttori che la legge gli riserva, di acquisire ulteriori elementi di valutazione sullo stato generale del Paese, tant’è che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, richiede che la domanda sia esaminata alla luce di informazioni precise ed aggiornate.

1.3. Il mancato esercizio dei poteri istruttori che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 9, riconosce al tribunale, ha concluso il ricorrente, non ha consentito la verifica dell’attuale e concreta esistenza in Mali di una diffusa violenza, che rileva ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

2.1. Il motivo è infondato. Rileva la Corte che, in effetti, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale va accertata in conformità della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), secondo cui il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria: il grado di violenza indiscriminata deve aver, pertanto, raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019).

2.2. Il decreto impugnato, a seguito di un accertamento in fatto che non è stato oggetto di una specifica censura per il mancato esame di uno o più fatti decisivi, ha ritenuto l’insussistenza di tale eventualità: il tribunale, in particolare, avvalendosi dei poteri officiosi d’indagine e d’informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ha accertato che “la situazione generale del Paese, con particolare riferimento alla regione di provenienza, vale a dire Kayes, secondo le informazioni aggiornate non presenta una generalizzata situazione di violenza indiscriminata”.

2.3. Nè rileva la invocata violazione del dovere di cooperazione istruttoria da parte del tribunale. Come questa Corte ha più volte affermato (cfr. le ordinanze n. 13449 del 2019, n. 13450 del 2019, n. 13451 del 2019 e n. 13452 del 2019), il giudice di merito, nel fare riferimento alle cd. fonti privilegiate di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve indicare la fonte in concreto utilizzata nonchè il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione. Nel caso di specie, la decisione impugnata soddisfa i suindicati requisiti, posto che la stessa (p. 6 e 7) ha indicato la fonte in concreto utilizzata ed il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da detta fonte. Ed è noto che, in tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, il ricorrente ha il dovere, inadempiuto nel caso di specie, di indicare in modo specifico gli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, con il preciso richiamo, anche testuale, alle fonti di prova proposte, alternative o successive rispetto a quelle utilizzate dal giudice di merito, in modo da consentire alla Suprema Corte l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria (cfr. Cass. n. 26728 del 2019).

3.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e/o l’erronea applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta dal richiedente per la mancanza del rischio che lo stesso possa essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali, senza, tuttavia, considerare che le informazioni più aggiornate, adeguatamente verificate, avrebbero potuto condurre il collegio ad una diversa valutazione.

3.2. Il rigetto della domanda di protezione umanitaria, inoltre, ha aggiunto il ricorrente, appare contraddittoria rispetto a quanto lo stesso tribunale ha riportato in ordine alle condizioni del sud del Mali, che ha visto l’uccisione di cento persone nell’arco di un anno, che possono rappresentare un evento ostativo all’esercizio dei diritti fondamentali da parte del richiedente.

3.3. Il tribunale, infine, lì dove ha ritenuto che il principale motivo di uscita dal Paese è riconducibile a ragioni economiche, ha omesso di considerare la sussistenza o meno di una condizione di vulnerabilità del richiedente in caso di rimpatrio.

4.1. Il motivo è infondato. La protezione umanitaria è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. 5358 del 2019; Cass. n. 23604 del 2017). I seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, prima dell’intervento attuato con il D.L. n. 113 del 2018, erano accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass. n. 4455 del 2018).

4.2. Ora, nel caso in esame, il tribunale ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta dal ricorrente rilevando, in sostanza, che il richiedente non presenta una situazione di vulnerabilità personale che possa giustificare la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si tratta, com’è evidente, di un accertamento in fatto che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata. Il ricorrente, al contrario, pur avendone l’onere a norma (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), non ha specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame, ancorchè dedotti in giudizio, sia stato omesso dal giudice di merito nè, infine, la loro decisività ai fini di una differente pronuncia a lui favorevole.

4.3. D’altra parte, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (applicabile ratione temporis: cfr. Cass. SU n. 29459 del 2019), al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018). Tale comparazione presuppone, pertanto, un livello d’integrazione sociale nel Paese di accoglienza che, nel caso di specie, il tribunale ha escluso, in difetto di qualsiasi altro elemento di valutazione, che il ricorrente non dimostra di aver dedotto nel giudizio di merito (Cass. n. 8367 del 2020). Il tribunale, infatti, con accertamento in fatto non censurato per l’omesso esame di fatti decisivi specificamente dedotti, per un verso, ha ritenuto che, per quanto riguarda la vita trascorsa in Italia, il ricorrente risultava avere svolto le tipiche attività organizzate nei centri di accoglienza, realizzandosi, così, una situazione non indicativa di un effettivo radicamento in Italia mentre, per altro verso, ha escluso che il richiedente fosse nell’impossibilità di essere ricollocato in Mali, tenuto conto che lo stesso, avendo compiuto ventotto anni, non era più giovanissimo.

5. I motivi articolati in ricorso si rivelano, quindi, del tutto infondati. Peraltro, poichè il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, è manifestamente inammissibile.

6. Nulla per le spese di lite in difetto di controricorso da parte del ministero resistente.

7. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2021

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