Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8342 del 08/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 08/04/2010, (ud. 10/02/2010, dep. 08/04/2010), n.8342

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 22141/2006 proposto da:

B.F., + ALTRI OMESSI

domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli

avvocati DE TINA Flaviano, TROISI MIRCO, giusta mandato a margine del

ricorso;

– ricorrenti –

contro

BANCA POPOLARE DI VICENZA S.C. A R.L. in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A.

GRAMSCI 54, presso lo studio dell’avvocato ZELA MARINA, rappresentata

e difesa dagli avvocati MAGNANI MARTELLA, VITALI DANILO, giusta

mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2/2006 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 22/02/2006 r.g.n. 164/04;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

10/02/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato VITALI DANILO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

1. La sentenza di cui si domanda la cassazione rigetta l’appello proposto da B.B. ed altri ottantuno lavoratori, e conferma la decisione del Tribunale di Udine n. 359 del 3.12.2003, decisione con la quale erano state giudicate prive di fondamento le domande proposte contro la Banca Popolare di Vicenza s.c.a.r.l. per l’accertamento del diritto del B. e degli altri litisconsorti, tutti dipendenti della Banca, ad osservare l’orario semifestivo nei giorni “ultimo di carnevale” e “giorno delle ceneri”.

2. I lavoratori erano stati in precedenza alle dipendenze della Banca Popolare Udinese, presso la quale le due giornate indicate venivano da lungo tempo considerate “semifestive”; subentrata nell’anno 2000 l’attuale datrice di lavoro, la riduzione di orario era stata negata sulla base delle previsioni dell’ “accordo d’ingresso” stipulato con le organizzazioni sindacali in data 11.12.2000.

3. La Corte di appello di Trieste giudica infondata la pretesa dei lavoratori provenienti dalla Banca Popolare Udinese perchè l'”uso aziendale” esistente presso l’azienda trasferita aveva cessato di operare per effetto della stipulazione del contratto aziendale del 2000; la prospettazione secondo cui il diritto rivendicato sarebbe derivato dalle stesse clausole dell’accordo sindacale del 2000 doveva reputarsi inammissibile perchè tardivamente formulata, ma in ogni caso non era giustificata dall’interpretazione negoziale.

4. Il ricorso dei lavoratori ( B.E. unitamente ad altri cinquanta dipendenti) si articola in cinque motivi, ulteriormente precisati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.;

resiste con controricorso la Banca Popolare di Vicenza S.c.a.r.l..

Diritto

1. Con il primo motivo di ricorso viene denunziata violazione di norme di diritto (artt. 1340, 1362, 1374, 2077, 2078 e 2112 c.c.) e vizio di motivazione perchè il c.d. “uso aziendale” si inserisce nei contratti individuali di lavoro e rimane insensibile alle modificazioni in peius operate dai contratti collettivi; in ogni caso, per ritenere la valenza collettiva degli usi aziendali, sarebbe stato necessario accertare in fatto la stipulazione di un contratto collettivo tacito per volontà del datore di lavoro e dei sindacati, nonchè la legittimazione delle organizzazioni sindacali stipulanti gli accordi che si asseriva incidenti sui detti usi.

1.1. Il motivo non è fondato perchè il giudice del merito si è uniformato ai principi di diritto enunciati dalla più recente, e divenuta consolidata, giurisprudenza della Corte. Questi principi si possono così sintetizzare: la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento del datore di lavoro tenuto nei confronti dei propri dipendenti, che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti (individuali e collettivi), integra, di per sè e indipendentemente dalla volontà del datore di lavoro, gli estremi dell’uso aziendale, il quale, in ragione della sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali – tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d’azienda, e che sono definite tali perchè, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a realizzare un’uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda – agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale (vedi Cass. n. 9690/1996; n. 10783/2000; n. 9626/2004; n. 15489/2007; Cass. Sez. Un., n. 26107/2007; Cass. n. 18991/2008; n. 17481/2009; n. 18263/2009).

1.2. L’applicazione dei richiamati principi rende non condivisibili le argomentazioni contenute nel motivo di ricorso: se la modifica in melius del trattamento dovuto ai lavoratori nasce dal fatto costituito dal comportamento, reiterato e generalizzato, tenuto dal datore di lavoro, la fattispecie non risulta riconducibile alla previsione di cui all’art. 1340 c.c. – norma che presuppone un uso già esistente per una determinata tipologia di contratti, la tacita volontà di inserimento delle parti ed il potere delle stesse di escluderlo – nè ad altra propria della disciplina civilistica dei contratti – ma è peculiare del diritto del lavoro, collocandosi sul piano della regolamentazione collettiva esterna ai contratti individuali; l’origine dell’uso aziendale dal mero fatto del comportamento spontaneo del datore di lavoro (su cui vedi già Cass., S.U. n. 3134/1994) ne esclude, quindi, la natura contrattuale, cosicchè nessuna indagine deve compiersi in ordine alla volontà del datore di lavoro e dei sindacati; la dimensione collettiva e non individuale della regolamentazione originata da un uso aziendale comporta l’inapplicabilità del disposto dell’art. 2077 c.c., comma 2, con la conseguente legittimazione delle fonti collettive (nazionali e aziendali) alla modifica anche in peius.

1.3. La deduzione, peraltro generica, sul difetto di legittimazione delle organizzazioni stipulanti l’accordo di “ingresso” del 2000, non risulta proposta nei giudizi di merito ed è, pertanto, inammissibile in questa sede.

2. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata violazione di norme di diritto (art. 2697 c.c., artt. 112, 420, 429 e 437 c.p.c.) e vizio di motivazione in relazione all’affermata inammissibilità dell’argomentazione difensiva secondo la quale la clausola finale contenuta nell’accordo “d’ingresso” del 2000, mediante il rinvio all’accordo aziendale 27.2.1998 operante presso la Banca Popolare di Udine, aveva garantito ai dipendenti passati alle dipendenze della Banca Popolare di Vicenza tutte le condizioni di maggior favore già in atto, compreso l’uso concernente i due giorni considerati semifestivi. Si sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, la produzione del testo dell’accordo aziendale 27.2.1998 doveva considerarsi espressiva dell’intento di replicare alle eccezioni della parte convenuta con una controeccezione; in ogni caso, rispetto alla prospettazione del ricorso introduttivo, secondo cui l’uso aziendale restava efficace anche per il nuovo datore di lavoro, le ulteriori specificazioni costituivano “mera difesa” rispetto all’eccezione della Banca convenuta dell’avvenuta soppressione ad opera dell’accordo del 2000; pertanto, nessuna modificazione della domanda proposta in primo grado, richiedente l’autorizzazione del giudice, sarebbe stata operata dagli attori.

2.1. Il motivo non è fondato.

Diversamente da quanto riferiscono i ricorrenti, la domanda formulata con il ricorso introduttivo era basata unicamente sull’esistenza di un uso aziendale che, inserendosi nei contratti individuali, modificava in melius le condizioni di lavoro stabilite dalla contrattazione, restando insensibile alle regolamentazioni peggiorative disposte in sede collettiva, ovvero unilaterale del datore di lavoro, mentre nel 2001 la nuova azienda aveva negato il diritto; la Banca convenuta aveva eccepito che la specifica regolamentazione contenuta nell’accordo d’ingresso 11.12.2000 comportava dal 1 gennaio 2001 la sostituzione dei trattamenti aziendali vigenti in precedenza, come comunicato ai dipendenti con nota 23.2.2001. La Corte di appello di Trieste, rilevato che alla prima udienza di discussione i lavoratori si erano limitati a produrre il testo del contratto aziendale 27.2.1998, senza altre precisazioni e deduzioni, e che la pretesa fondata sullo stesso contratto collettivo aziendale del 2000 era stata esplicitata soltanto in sede di note difensive autorizzate, ha ritenuto nuova la questione interpretativa della clausola finale dell’accordo di “ingresso”, siccome sollevata per la prima volta in sede di giudizio di appello.

2.2. La decisione di inammissibilità della questione in appello è conforme al diritto.

Si configura domanda nuova – e, come tale, inammissibile in appello (con rilevabilità dell’inerente violazione del divieto anche d’ufficio in funzione dell’attuazione rigorosa del principio del doppio grado di giurisdizione) – quando gli elementi dedotti in secondo grado comportano il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, integrando una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado, e ciò anche se questi fatti erano già stati esposti nell’atto introduttivo del giudizio al mero scopo di descrivere ed inquadrare altre circostanze, mentre soltanto nel giudizio di appello, per la prima volta, siano stati dedotti con una differente portata, a sostegno di una nuova pretesa, determinando in tal modo l’introduzione di un nuovo tema di indagine e di decisione (vedi Cass., n. 18119/2008; n. 17660/2008; n. 6431/2006; n. 22473/2004).

2.3. Alla stregua dell’accertamento del giudice del merito, non specificamente contestato, la domanda originaria dei lavoratori assumeva ad unica causa pretendi l’insensibilità dell’uso aziendale, siccome inserito nel contratto individuale, rispetto alle modifiche peggiorative recate dalla contrattazione collettiva. La domanda fondata sulla clausola finale dell’accordo di “ingresso” in quanto richiamante “le condizioni di maggior favore derivanti dal contratto aziendale 27.2.1998” aveva natura di vera e propria domanda subordinata sotto il profilo logico-giuridico, del tutto autonoma rispetto alla principale in quanto basata su fatti diversi e richiedenti indagini completamente differenti. Questa domanda, da ritenersi mai proposta nel giudizio di primo grado (siccome, alla stregua dell’insindacabile accertamento del giudice del merito, la mera produzione dell’accordo del 1998 non poteva essere intesa quale richiesta di interpretare il significato del rinvio contenuto nell’accordo del 2000,) è stata, pertanto, inammissibilmente formulata solo nel giudizio di appello.

3. Il rigetto del secondo motivo del ricorso ha effetto assorbente dell’esame degli altri tre motivi di ricorso – esame cui i ricorrenti non hanno interesse -, motivi che censurano la sentenza impugnata in relazione alle altre rationes decidendi che contiene; contestazione della conformità a legge della ritenuta inammissibilità della produzione del testo del contratto aziendale 27.2.1998 alla prima udienza di discussione (terzo motivo); censura dell’interpretazione data dal giudice di merito alla clausola finale dell’accordo di “ingresso” richiamante “le condizioni di maggior favore derivanti dal contratto aziendale 27.2.1998 (quarto motivo); censura relativa alla medesima questione interpretativa sotto il profilo della mancata ammissione di mezzi istruttori, anche di ufficio, al fine di accertare l’intenzione delle parti stipulanti l’accordo di “ingresso” (quinto motivo).

4. Il mutamento della giurisprudenza di legittimità in tema di “usi aziendali” ed il persistere di opinioni contrastanti in dottrina costituiscono ragioni sufficienti per compensare per l’intero le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa per l’intero le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2010

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