Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8340 del 31/03/2017

Cassazione civile, sez. III, 31/03/2017, (ud. 02/02/2017, dep.31/03/2017),  n. 8340

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21519-2014 proposto da:

T.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

DELL’OROLOGIO 7, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI PAOLO

D’INCECCO BAYARD DE VOLO, rappresentato e difeso dall’avvocato

DONATO DI CAMPLI giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

T.C., ammesso al patrocinio a spese dello Stato,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POMPEO UGONIO, 3, presso lo

studio dell’avvocato GISELLA PINO, rappresentato e difeso

dall’avvocato FAUSTO ANTONUCCI giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 380/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 14/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/02/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

T.A. in data 10.5.1995 concedeva in pegno alla Banca Popolare di Milano s.p.a. BOT semestrali per un valore nominale di Lire 20.000.000 a garanzia di una linea di credito regolata su conto corrente bancario accordata a T.C..

Revocato l’affidamento e risultato inadempiente il correntista, la banca aveva esperito la procedura di vendita dei titoli oppegnorati.

Avendo T.C. restituito al terzo datore di pegno il minore importo di Lire 3.400.00, quest’ultimo azionava per il residuo importo la procedura monitoria con notifica di decreto ingiuntivo che veniva opposto dal debitore, opposizione rigettata dal Tribunale di Chieti con sentenza 25.10.2007 n.543, integralmente riformata in grado di appello.

La Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza 14.4.2014 n. 380, riteneva fondato uno dei due soli motivi di gravame dell’appello principale -proposto da T.C. – che avevano superato il vaglio di ammissibilità ex art. 342 c.p.c., rilevando che se era incontroversa la consegna dei titoli di Stato a garanzia della esposizione debitoria, non sussisteva, invece, la prova che la banca si fosse soddisfatta sulla somma riveniente dalla vendita dei titoli, atteso che, alla data del 30.6.1996, risultava accertato uno scoperto sul c/c n. (OMISSIS), intestato a T.C., di Lire 16.757.754 e la banca aveva pertanto revocato il fido, tuttavia dagli atti emergeva che in data 23.5.1997 il controvalore ricavato dalla vendita dei BOT semestrali era stato dalla stessa banca accreditato sul diverso c/c n. (OMISSIS), intestato a T.A.. Non avendo quindi la banca riscosso la somma ricavata dalla vendita dei titoli pubblici, difettava lo stesso fatto costitutivo dell’azione di regresso esercitata dal terzo datore di pegno.

La sentenza non notificata è stata ritualmente impugnata per cassazione da T.A. che ha dedotto quattro motivi.

Resiste con controricorso T.C..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Collegio ha raccomandato la redazione della motivazione in forma semplificata.

Con il primo motivo il ricorrente impugna la sentenza di appello deducendo la violazione dell’art. 342 c.p.c. non avendo la Corte territoriale dichiarato inammissibile l’appello principale di T.C. sebbene tutti i motivi di gravame formulati difettassero dei requisiti di chiarezza e specificità.

Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4.

Osserva il Collegio che, anche nel caso in cui con il ricorso per cassazione vengano denunciati “errores in procedendo”, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto – potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito -, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo di ricorso. Ed infatti soltanto quando il motivo sia stato ritenuto rispondente ai requisiti di ammissibilità prescritti dall’art. 366 c.p.c. diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque – esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione – la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1221 del 23/01/2006; id. Sez. 5, Sentenza n. 12664 del 20/07/2012).

Ove il ricorrente (appellato nel giudizio di secondo grado) denunci, pertanto, la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 20405 del 20/09/2006; id. Sez. L, Sentenza n. 11477 del 12/05/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 86 de/ 10/01/2012).

Non avendo il ricorrente assolto al predetto requisito, essendosi limitato a negare la rispondenza dell’atto di impugnazione proposto da T.C. al paradigma della norma processuale, senza tuttavia provvedere alla trascrizione ovvero al riassunto delle parti salienti dei motivi di gravame (non assolve evidentemente a tale requisito la trascrizione parziale di alcune proposizioni dell’atto di appello, dirette peraltro a dimostrare – secondo la tesi del ricorrente – asserite ammissioni del debitore-appellante in ordine all’impegno restitutorio della somma riscossa dalla banca a seguito della vendita dei titoli di Stato), la censura – la cui esposizione si esaurisce nel mero richiamo di precedenti giurisprudenziali di questa Corte – deve essere dichiarata inammissibile.

Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza di appello, per violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., nella parte in cui aveva ritenuto l’attore in regresso onerato della prova della escussione del pegno, sebbene il debitore non avesse specificamente contestato la esistenza del credito restitutorio, ed anzi l’avesse implicitamente ammessa proponendo le eccezioni di estinzione del credito per intervenuto pagamento e per compensazione.

Il motivo è infondato.

Premesso che l’esercizio dell’azione di regresso del terzo datore di pegno nei confronti del debitore garantito, in seguito all’inadempimento di quest’ultimo ed alla conseguente escussione del pegno da parte del creditore pignoratizio (che trova fondamento nella applicazione analogica dell’art. 2871 c.c. in materia di garanzia ipotecaria: cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 6073 del 04/12/1985; id. Sez. 3, Sentenza n. 18522 del 03/09/2007), implica quale fatto costitutivo della pretesa recuperatoria la prova dell’avvenuto pagamento del debito altrui (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1991 del 07/04/1979, relativa ad azione di regresso del fidejussore; id. Sez. 1, Sentenza n. 2673 del 19/04/1983, con riferimento alla azione di regresso nei rapporti interni tra più coobbligati cambiari di pari grado; id. Sez. U, Sentenza n. 3168 del 05/04/1996, in relazione a regresso proposta dal garante contro il debitore principale; id. Sez. 3, Sentenza n. 5331 del 08/03/2007, con riferimento al regresso del coobbligato solidale), e premesso altresì che al presente giudizio, introdotto anteriormente alla data 4.7.2009 di entrata in vigore della legge 18 giugno 2009 n. 69, non trova applicazione l’art. 115 c.p.c., nel testo modificato dall’art. 45, comma 14, della indicata legge (giusta la disposizione transitoria di cui alla stessa L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 1), dovendo pertanto rinvenirsi le fonti normative del “principio di non contestazione” nell’art. 167 c.p.c., comma 1, (come modificato dalla L. n. 353 del 1990) e nell’art. 416 c.p.c., comma 3, osserva il Collegio che, se è indubitabile che, alla stregua di dette norme processuali, la ammissione esplicita o implicita (mediante comportamenti processuali concludenti, estrinsecati nello svolgimento di difese incompatibili con la negazione del diritto azionato) dei fatti costitutivi della domanda, od anche la non puntuale e specifica contestazione dei fatti allegati dall’attore, determina la sottrazione del fatto non contestato al “thema probandum” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 761 del 23/01/2002; id. Sez. 1, Sentenza n. 5191 del 27/02/2008), tuttavia nel caso di specie tale ipotesi non ricorre, dovendosi considerare:

a) che la condotta processuale del debitore ingiunto (il ricorrente riporta alle pag. 15-17 del ricorso numerosi stralci dell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo, nei quali l’opponente sosteneva la tesi difensiva della estinzione del credito di regresso, per avvenuto pagamento o per compensazione con altri eccepiti controcrediti) non è affatto inequivoca nel senso ritenuto dal ricorrente, che riporta solo in modo parziale le difese svolte dal debitore-opponente: come emerge, infatti, dal controricorso (nel quale alle pag. 7-8 vengono riprodotti i nove motivi formulati nell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo) le eccezioni di estinzione per pagamento o per compensazione (motivi di opposizione nn. 9 e 10) risultano formulate in via alternativa e logicamente subordinata alla principale contestazione della inesistenza “dell’oggetto del presunto diritto vantato”: l’opponente aveva rilevato la “carenza…. delle prove di tali presunti asseriti diritti; il credito della presunta somma di denaro non è liquido-determinato….; non è esigibile ” in quanto “non sono riscontrabili neanche elementi di prova da cui desumere presuntivamente da un lato una forte probabilità di esistenza del credito e dall’altro lato una rapida riscontrabilità di tale esistenza ” (motivo di opposizione n. 5), difese tutte riprodotte anche nell’atto di appello e che la Corte territoriale ha interpretato come esplicita contestazione dell'”an” della pretesa azionata in regresso, che in quanto tale onerava il creditore della prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio;

b) che il principio di non contestazione opera sul piano del riparto dell'”onus probandi” tra le parti del processo, venendo a semplificare le attività connesse alla verifica probatoria dei fatti allegati, con la conseguenza che il fatto non contestato deve essere tenuto in considerazione dal Giudice ai fini dell’accertamento della fattispecie concreta e, qualora corrisponda ad uno degli elementi costitutivi della fattispecie normativa applicabile al rapporto controverso, deve essere valutato unitamente agli altri elementi della fattispecie oggetto di prova, ai fini dell’accertamento del diritto. Il principio di non contestazione non opera, invece, anche in funzione limitativa del potere del Giudice di valutazione delle risultanze istruttorie, nel senso che il “fatto non contestato” non può immutare o porre nel nulla la realtà processuale che emerge dalle altre evidenze istruttorie delle quali il Giudice dispone in fase di decisione: se le risultanze probatorie forniscono, infatti, una rappresentazione dei fatti diversa o contrastante o comunque incompatibile con il “fatto non contestato”, quest’ultimo non potrà che risultare recessivo (in quanto positivamente smentito da altri fatti dimostrati in giudizio) rispetto alla realtà come effettivamente accertata in base alle evidenze oggettive emerse dalla verifica probatoria processuale. Le parti del processo, pure agendo – nell’ambito del principio dispositivo – senza incontrare nell’esercizio dei poteri di allegazione dei fatti e di deduzione probatoria- limiti diversi dalle preclusioni e decadenze delle fasi processuali, non per questo dispongono, infatti, anche del potere di “negare la verità” – recte di contraddire i fatti per come allegati ed accertati – richiedendo al Giudice di affermare, come esistente, una fattispecie concreta non corrispondente alle evidenze processuali e come può e deve essere rilevata dal Giudice nell’esercizio di valutazione dei fatti acquisiti al giudizio, siano essi provati o non contestati. Su tali conclusioni convergono, infatti, i precedenti giurisprudenziali di questa Corte che attribuiscono in ogni caso prevalenza alla prova dedotta ed assunta in giudizio relativa a fatto che avrebbe dovuto ritenersi estraneo al “thema probandum” in quanto non contestato (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 4249 del 16/03/2012), e che ritengono il “fatto non contestato” non vincolate per il giudizio di rilevanza e selezione delle prove effettuato dal Giudice di merito alla stregua dei complessivi elementi istruttori, giudizio che potrebbe infatti portare a sconfessare la (solo apparente) “verità” del fatto non contestato (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 16554 del 06/08/2015, secondo cui “in tema di verificazione del passivo, il principio di non contestazione, che pure ha rilievo rispetto alla disciplina previgente quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, non comporta affatto l’automatica ammissione del credito allo stato passivo solo perchè non sia stato contestato dal curatore (o dai creditori eventualmente presenti in sede di verifica), competendo al giudice delegato (e al tribunale fallimentare) il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove”). Orbene la tesi del ricorrente fondata sulla asserita condotta non contestativa dell'”an” del debitore-opponente, non potrebbe comunque assumere nel caso di specie carattere dirimente, atteso che la Corte d’appello, secondo il proprio giudizio valutativo del merito, ha ritenuto di attribuire rilevanza decisiva a quegli elementi fattuali, emersi dalla istruttoria (trasferimento del controvalore ricavato dalla vendita dei titoli di Stato sul conto corrente n. (OMISSIS) intestato al terzo datore di pegno), oggettivamente incompatibili con il “fatto – asseritamente – non contestato” della riscossione da parte della banca delle somme ricavate dalla vendita dei titoli pubblici a soddisfazione del credito vantato nei confronti del correntista debitore-inadempiente, coerentemente concludendo per la insussistenza della prova del pagamento del debito effettuata dal terzo datore di pegno e che legittimava l’esperimento dell’azione di regresso.

Il terzo e quarto motivo censurano la sentenza di appello per vizio di omessa motivazione su un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe considerato che il debitore aveva eseguito pagamenti parziali del credito azionato in regresso, e nel corso del processo aveva svolto difese (eccezioni di pagamento; eccezione di compensazione) con le quali implicitamente aveva riconosciuto la esistenza di tale credito.

Inoltre la Corte d’appello avrebbe inesattamente rilevato che il credito restitutorio risultava diverso dal debito garantito, inferiore, in quanto non aveva considerato il successivo incremento di tale debito, lievitato dal Lire 16.757.754 a Lire 20.720.344, come emergeva dalla lettera in data 22.5.1997 della BPM s.p.a.

Il terzo motivo è infondato, il quarto è inammissibile.

Occorre premettere che la censura volta a denunciare un vizio concernente un “error facti”, in relazione a sentenza pubblicata in data successiva all’11.9.2012, può essere dedotto esclusivamente nei limiti riservati al “vizio di motivazione”, come riformulato dal D.L. n. 83 del 20123, art. 54, comma 3 conv. in L. n. 134 del 2012, e quindi soltanto nei casi in cui – esclusa la ipotesi, che non ricorre nel caso di specie, di assoluta mancanza di motivazione riconducibili all’elemento di validità del provvedimento giurisdizionale richiesto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dall’art. 111 Cost., comma 6 – il Giudice di appello abbia del tutto omesso di considerare un fatto storico, principale o secondario, che abbia costituito oggetto di discussione e risulti decisivo per pervenire ad un diverso assetto del regolamento di interessi del rapporto controverso (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).

Nella specie la Corte d’appello non ha affatto trascurato di considerare i pagamenti parziali effettuati dal debitore, nè le eccezioni da questi svolte nel corso del giudizio di merito, ma ha ritenuto recessivi tali elementi diretti alla prova della condotta non contestativa del credito, in quanto dalle altre emergenze probatorie risultava che la banca non si era soddisfatta sul controvalore dei titoli di Stato e dunque difettava il presupposto legale per esperire l’azione di regresso. Ed è appena il caso di ribadire che la valutazione delle risultanze probatorie involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento della decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra alcun limite se non quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare ogni deduzione difensiva, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 13910 del 09/11/2001; id. Sez. L, Sentenza n. 11933 del 07/08/2003; id. Sez. 2, Sentenza n. 1554 del 28/01/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006; id. Sez. L, Sentenza n. 17097 del 21/07/2010; id. Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016).

Quanto all’errore – oggetto di censura con il quarto motivo – in cui è incorsa la Corte territoriale nell’omessa considerazione che lo scoperto di debito sul conto corrente intestato al debitore si era incrementato nel corso del tempo, lo stesso attiene ad una circostanza riferita soltanto ad abundantiam dal Giudice di appello ed è comunque privo del carattere della decisività, richiesto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che non inficia la “ratio decidendi”, precedentemente individuata, sulla quale si fonda il rigetto della domanda di regresso.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in dispositivo.

La domanda di condanna per responsabilità processuale aggravata svolta dal resistente ai sensi dell’art. 96 c.p.c. deve essere rigettata:

se intesa a conseguire la condanna della parte soccombente al pagamento di “una somma equitativamente determinata”, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3 la domanda risulta manifestamente infondata, atteso che il giudizio risulta introdotto con ricorso monitorio in data 14.10.2002 e la disposizione processuale di cui viene richiesta l’applicazione è stata introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 12, con effetto per i giudizi instaurati a far data dal 4.7.2009, con contestuale abrogazione – disposta dalla medesima L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 20, – della disposizione dell’art. 385 c.p.c., comma 4 (che prescriveva: “quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’art. 375, la Corte, anche d’ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave”) introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 13 ed applicabile alle sentenze pubblicate dal 2.3.2006, e dunque anch’essa non applicabile al presente giudizio.

se intesa, invece, a chiedere il risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c., comma 1, la domanda risulta del tutto carente di prova in ordine al pregiudizio patrimoniale subito.

PQM

rigetta il ricorso principale e rigetta la domanda di condanna proposta dal resistente ai sensi dell’art. 96 c.p.c..

Condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2017

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