Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8320 del 31/03/2017

Cassazione civile, sez. III, 31/03/2017, (ud. 18/01/2017, dep.31/03/2017),  n. 8320

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6673/2014 proposto da:

M.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 172,

presso lo studio dell’avvocato LETIZIA TILLI, rappresentata e difesa

dall’avvocato SABATINO CIPRIETTI giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

S.I.;

– intimata –

nonchè da:

S.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA B. GERMANICO

96, presso lo studio dell’avvocato ALESSIO COSTANTINI, rappresentata

e difesa dall’avvocato AUGUSTO LA MORGIA giusta procura a margine

del controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

M.P.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 893/2013 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 17/09/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/01/2017 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale, assorbito l’incidentale;

udito l’Avvocato ALBERTO SAGNA per delega;

udito l’Avvocato ALESSIO COSTANTINI per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2010, M.P. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Pescara S.I., per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti a seguito di offese dalla medesima ricevute.

Espose di essere stata posta a conoscenza da parte del proprio figlio B.F. (del quale la convenuta era moglie separata) che la S., nel corso di una lite in casa tra coniugi, l’avrebbe definita “puttana” e come una che avrebbe “fatto figli a destra e a manca”.

Si costituì la convenuta, eccependo l’abusiva registrazione e divulgazione della discussione e chiedendo il rigetto della domanda per mancanza di rilievo penale della propria condotta.

Il Tribunale di Pescara, con la sentenza n. 870/2012, rigettò la domanda osservando che: la circostanza che le frasi fossero state pronunciate durante una lite in casa tra coniugi induceva a dubitare che esse fossero dirette a diffamare l’attrice invece che, più verosimilmente, il figlio; mancava l’elemento costitutivo del reato di diffamazione della “comunicazione con più persone”, la quale doveva escludersi perchè le figlie presumibilmente dormivano e comunque erano molto piccole per rendersi conto del significato delle suddette frasi e perchè era stato il B. a registrare la comunicazione e a farla avere alla madre.

2. La decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di L’Aquila, con sentenza n. 893 del 17 settembre 2013.

La Corte ha premesso che la circostanza che le frasi fossero state pronunciate per oltraggiare il marito con il quale era in corso la separazione non è sufficiente ad elidere il contenuto diffamatorio e che la condotta posta in essere dalla S. integra certamente la fattispecie della diffamazione, sussistendone tutti gli elementi sia oggettivi (le frasi pronunciate hanno indubbia valenza diffamatoria e potevano quindi essere apprezzate nel loro significato oggettivamente lesivo anche dai bambini, seppur piccoli, i quali erano sicuramente presenti alla lite) sia soggettivi (dolo generico).

La Corte di appello ha tuttavia constatato l’assenza di qualsiasi argomentazione circa l’esistenza e la consistenza del pregiudizio, se non come mero rinvio alle argomentazioni svolte in primo grado, non essendo indicate in concreto le specifiche ripercussioni che la lesione possa aver prodotto nella sfera personale e familiare, nonchè nel contesto sociale, indispensabili per una valutazione anche equitativa del danno, a maggior ragione quando, come nel caso, l’episodio maturi e si definisca in un ambito familiare assai ristretto.

3. Avverso tale decisione, propone ricorso in Cassazione M.P., sulla base di tre motivi.

3.1. Resiste con controricorso S.I., la quale formula anche ricorso incidentale condizionato basato su tre motivi. Deposita memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1. Con il primo motivo, M.P. deduce la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., artt. 91, 92 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

La Corte di Appello, avendo ritenuto, contrariamente al Tribunale, la sussistenza del fatto illecito, non avrebbe potuto confermare in toto la sentenza di primo grado, ma avrebbe dovuto riformare nella parte ritenuta erronea, con le relative conseguenze anche in ordine alle spese.

Il giudice del secondo grado avrebbe violato gli artt. 91 e 92 c.p.c., per non aver riconsiderato il pregresso regime delle spese di lite, pur avendo condiviso le censure mosse dall’appellante avverso la decisione del Tribunale.

Il motivo è infondato.

La Corte di Appello, pur seguendo un differente percorso argomentativo, ha confermato il decisum del Tribunale, che consisteva nel rigetto della domanda risarcitoria formulata dalla M., la quale quindi è rimasta soccombente anche in grado di appello.

In relazione al regolamento delle spese processuali, la relativa statuizione è sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione di legge, quale si verificherebbe nell’ipotesi in cui, contrariamente al divieto stabilito dall’art. 91 c.p.c., le stesse venissero poste a carico della parte totalmente vittoriosa (Cass. civ. Sez. Unite, 30/05/2016, n. 11137).

La valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale rientra, invece, nei poteri discrezionali del giudice di merito, il quale non è tenuto a rendere conto, con un’espressa motivazione, del mancato ricorso a tale facoltà. Ne consegue che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza considerare l’eventualità di una compensazione, non costituisce motivo censurabile in cassazione, e ciò neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. S.U. n. 14989/2005; successivamente: Cass. n. 24892/2005; n. 7607/2006; Cass. n. 5457/2014).

4.2. Con il secondo motivo, la ricorrente principale lamenta la “violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059 c.c. e art. 185 c.p., nonchè dell’art. 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3, oltre che omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5″.

Una volta ritenuta sussistente la diffamazione e raggiunta la prova del fatto illecito, l’oltraggio alla persona e la divulgazione, non poteva non ritenersi esistente il pregiudizio che necessariamente ne derivava.

Il danno, infatti, sarebbe in re ipsa ogni qualvolta venga accertata la rilevanza penale dell’illecito diffamatorio.

In ogni caso il danno sarebbe stato risarcibile anche in mancanza di un fatto-reato, derivando da una grave lesione di diritti costituzionalmente garantiti, e poteva essere quantificato e liquidato come da richieste o con criteri equitativi parametrati al pregiudizio attuale e potenziale nella vita sociale e familiare nonchè alla gravità dell’offesa.

Inoltre, con l’atto di appello si era censurata specificamente la sentenza per l’erroneità della soluzione offerta ed erano state esposte tutte le ragioni di fatto e di diritto su cui fondava l’impugnazione.

Anche questo motivo è infondato.

Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come nel caso di lesione al diritto alla reputazione, non è in re ipsa, ma costituisce un danno conseguenza, che deve essere allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento. (cfr. ex multis Cass. n. 10510/2016; Cass. n. 21865/2013).

Del resto, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili, ma che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare (Cass. n. 127/2016).

La Corte di Appello, fondando la decisione di rigetto sulla omessa indicazione delle conseguenze pregiudizievoli che sarebbero derivate alla persona offesa, ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi.

Nè, dalla trascrizione dell’atto di appello inserita nel ricorso, risulta che la M. abbia invece argomentato in concreto in ordine alle specifiche ripercussioni che si sarebbero prodotte nella sua sfera personale e familiare e nel contesto sociale.

4.3. Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

La Corte di appello non si sarebbe pronunciata sulle istanze istruttorie ritualmente formulate in primo grado e reiterate in appello dalla ricorrente, con le quali si intendeva proprio dare prova della sussistenza ed entità del danno.

Il motivo è infondato.

Secondo il più recente orientamento di questa Corte, in osservanza del principio di specificità dei motivi di appello, anche la riproposizione delle istanze istruttorie, non accolte dal giudice di primo grado, deve essere specifica, sicchè è inammissibile il mero rinvio agli atti del giudizio di primo grado (Cass. n. 5812/2016).

Laddove non sia necessario uno specifico mezzo di gravame, la parte deve comunque riprodurre le istanze istruttorie non accolte dal giudice di primo grado, essendo inammissibile una riproposizione generica con rinvio agli atti del procedimento di primo grado.

Nella specie, come risulta dalla trascrizione dell’atto di appello, la ricorrente ha riproposto solo genericamente i mezzi di prova dedotti in primo grado, senza indicare di quali mezzi di prova si trattasse e dove fossero stati dedotti.

Nè risulta se tale istanza sia stata poi reiterata in sede di precisazione delle conclusioni, ovvero sia stata rinunciata.

5. Il rigetto del ricorso principale rende superfluo l’esame del ricorso incidentale condizionato, di cui, per completezza, si illustrano i motivi.

5.1. Con il primo motivo del ricorso incidentale, la S. lamenta “omessa motivazione circa la decisiva questione dell’inammissibilità dell’appello per carenza di interesse in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

La Corte aquilana avrebbe omesso di esaminare l’eccezione preliminare di inammissibilità dell’appello per omessa impugnazione del capo della sentenza di primo grado in cui si evidenziava la mancanza di nesso causale tra l’ipotizzata diffamazione e la lesione dell’onore della ricorrente.

5.2. Con il secondo motivo, la ricorrente incidentale deduce la “omessa motivazione circa la decisiva questione della infondatezza della domanda per carenza del nesso causale in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5″.

La Corte di Appello non avrebbe analizzato, ritenendolo assorbito, l’aspetto del nesso causale, che sarebbe stato interrotto per effetto della condotta del figlio della signora M., il quale avrebbe dato vita ad un’azione idonea da sola a produrre la lesione all’onore eventualmente patita dalla madre.

5.3. Con il terzo motivo, la ricorrente incidentale lamenta l’omesso esame della decisiva questione, oggetto di contrasto tra le parti, della sussistenza dell’elemento della presenza di più persone atta alla qualificazione del reato di diffamazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

La Corte di appello avrebbe ritenuto che le figlie dei coniugi fossero presenti alla lite, e che fossero in grado di apprezzare il disvalore delle parole pronunciate, immotivatamente ed in via del tutto assiomatica.

6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente principale.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale condizionato. Condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 5.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 18 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2017

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