Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8312 del 08/04/2010

Cassazione civile sez. un., 08/04/2010, (ud. 02/03/2010, dep. 08/04/2010), n.8312

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente –

Dott. PAPA Enrico – Presidente di sezione –

Dott. DE LUCA Michele – Presidente di sezione –

Dott. MERONE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23817/2008 proposto da:

TERNA – RETE, ELETTRICA NAZIONALE S.P.A. ((OMISSIS)), in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA F. DENZA 15, presso lo studio dell’avvocato MASTROLILLI

Stefano, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

GIANCARLO BRUNO, MAURIZIO CARBONE, FILOMENA PASSEGGIO, per delega a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.M. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA ELEONORA DUSE 35, presso lo studio dell’avvocato

PAPPALARDO Francesco, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GIAMBRA MARIA, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 279/2008 della CORTE D’APPELLO di

CALTANISSETTA, depositata il 30/04/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

02/03/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO MERONE;

uditi gli avvocati Maurizio CARBONE, Francesco PAPPALARDO;

udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI

Domenico, che ha concluso per l’inammissibilità o, in subordine,

rigetto del ricorso.

 

Fatto

La Terna – Rete Elettrica Nazionale S.p.A., con ricorso dinanzi al Tribunale di Caltanissetta, ha proposto opposizione al precetto con il quale il Sig. P.M., già dipendente della società, richiedeva il pagamento dell’importo residuo di Euro 22.325,00, a saldo della maggiore somma dovuta in forza, della transazione di una controversia di lavoro, con la quale era stato riconosciuto il diritto del P. al risarcimento del danno biologico, a carico della società.

La difesa della Terna eccepiva la infondatezza della pretesa dell’ex dipendente, in quanto la somma residua era stata versata all’erario a titolo di ritenuta IRPEF, con obbligo di rivalsa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 23, e segg., e che, comunque, trattandosi di controversia tributaria il giudice adito era carente di giurisdizione.

Il tribunale adito, ritenuta la propria giurisdizione, ha rigettato nel merito l’opposizione della società. La decisione è stata poi confermata dalla corte di appello, che, tra l’altro, in punto di fatto ha escluso assolutamente che il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno biologico fosse una sorta di incentivo all’esodo mascherata.

La Terna richiede la cassazione della sentenza di appello, sulla base di quattro motivi di impugnazione, illustrati anche con memoria.

Il P. resiste con controricorso.

Diritto

Il ricorso non può trovare accoglimento.

Con il primo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2 e vizi di motivazione, la parte ricorrente ripropone la tesi del difetto di giurisdizione del giudice adito, sottoponendo alla Corte il seguente quesito di diritto: “se la questione attinente alla legittimità della ritenuta alla fonte operata dal datore di lavoro – quale sostituto d’imposta – rientra nella giurisdizione del giudice ordinario o in quella del giudice tributario”.

Sul tema della giurisdizione in materia di rapporti tra contribuente (sostituito) e sostituto d’imposta, questa Corte ha recentemente sottoposto a revisione critica i propri precedenti arresti, giungendo alla conclusione che “le controversie tra sostituto d’imposta e sostituito, relative al legittimo e corretto esercizio del diritto di rivalsa delle ritenute alla fonte versate direttamente dal sostituto, volontariamente o coattivamente, non sono attratte alla giurisdizione del giudice tributario, ma rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di diritto esercitato dal sostituto verso il sostituito nell’ambito di un rapporto di tipo privatistico, cui resta estraneo l’esercizio del potere impositivo sussumibile nello schema potestà-soggezione, proprio del rapporto tributario” (SS.UU. 15031/2009; conf. 15032/2009).

11 collegio ritiene di dare continuità al recente indirizzo, anche perchè il creditore che si vede ridotto il pagamento di quanto a lui dovuto, può non sapere per quale ragione il debitore non abbia adempiuto integralmente e, quindi, correttamente si rivolge al giudice ordinario.

Con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16 (T.U.I.R.) (così come innovato dal D.L. n. 41 del 1995, art. 32,) artt. 1362 e 1366 cod. civ., unitamente a vizi di motivazione, viene prospettato alla Corte il seguente quesito: “se il verbale di transazione sottoscritto inter partes debba essere interpretato, secondo i canoni ermeneutici negoziali, nel senso che l’erogazione di Euro 94.000,00, prevista in verbale era al lordo o al netto delle trattenute fiscali”.

Il motivo è inammissibile perchè il quesito, nella prima parte, prospetta un interrogativo meramente teorico che non porta alla soluzione del problema concreto. Infatti, la prima domanda è: se, per intendere il contenuto di un atto di transazione, debbano applicarsi o meno i canoni ermeneutici negoziali. La risposta positiva, auspicata dal ricorrente, non porta di per sè alla risoluzione della controversia che ha ad oggetto (non il metodo ma) l’esito dell’interpretazione recepita dalla corte di appello. In altri termini, affermando che l’atto transattivo va interpretato secondo i canoni ermeneutici propri dell’interpretazione negoziale, non si fa alcun passo avanti nella definizione della causa.

La seconda parte del quesito (la somma dovuta al P. era stata stabilita al netto o al lordo delle ritenute fiscali) non risulta consequenziale rispetto alla premessa, perchè non sintetizza, e nemmeno ipotizza, il percorso interpretativo attraverso il quale i giudici di appello, applicando i canoni ermeneutici negoziali, avrebbero dovuto o potuto giungere ad una decisione differente da quella adottata. A parte la considerazione che l’esame del contenuto della transazione è indagine di merito che non compete a questo giudice di legittimità, salvo che non venga denunciato, in maniera autosufficiente, un vizio di motivazione; vizio che nella specie risulta soltanto enunciato e nemmeno trasfuso in un apposito quesito-sintesi, secondo le indicazioni di Cass. 2652/2008.

Anche il terzo motivo appare inammissibile. La difesa della parte ricorrente, denunciando ancora la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1366 cod. civ., unitamente a vizi di motivazione, prospetta un quesito che non offre alcuna indicazione sul vulnus che inficerebbe il ragionamento e la decisione dei giudici di merito, finendo, ancora una volta per rivolgere a questa Corte un interrogativo che attiene al merito. Infatti, si chiede di sapere, genericamente, “se il giudice del merito ha fatto corretta applicazione dei canoni ermeneutici negoziali nel ritenere che l’erogazione di Euro 94.000,00 prevista nel verbale di transazione sottoscritto inter partes non costituisse reddito da lavoro dipendente assoggettabile a ritenuta fiscale IRPEF”. Inoltre, anche in questo caso manca il quesito-sintesi riferito al vizio di motivazione e, comunque, i motivi attinenti alla interpretazione del verbale di transazione sono inammissibili anche perchè lo stesso non risulta che sia stato depositato ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

Infine, anche il quarto motivo è inammissibile, in quanto, denunciando congiuntamente vizi di motivazione e violazione/falsa applicazione dell’art. 16, novellato dal D.L. n. 41 del 1995, art. 32, T.U.I.R., la ricorrente prospetta alla Corte un quesito assolutamente generico e privo della sintesi in fatto, con il quale si chiede di sapere “se, nel caso di specie (ma quale è il caso di specie ?), la trattenuta alla fonte IRPEF, operata dal datore di lavoro quale sostituto d’imposta, era conforme a legge”. E’ noto che il quesito intanto è tale in quanto prospetti un “caso giuridico”, nelle sue concrete componenti di fatto e di diritto, in maniera da consentire alla Corte di enunciare un principio di diritto che risolva quella specifica causa. Il rinvio al “caso di specie” fatto dal ricorrente nella formulazione del quesito, senza ulteriori specificazioni, svuota il quesito stesso di ogni contenuto e, quindi, è inammissibile perchè inidoneo a risolvere la controversia.

La carenza formale dei quesiti stride poi con la concretezza della decisione impugnata che in punto di fatto ha stabilito che il tenore letterale del verbale di transazione “non lascia dubbi sulla effettiva causale del versamento della somma pattuita di Euro 94.000, che le parti hanno voluto ricollegare esclusivamente alla definizione del rapporto giudiziario avente ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno biologico”, al di fuori di ogni possibile connessione con il trattamento di fine rapporto.

Conseguentemente, il ricorso, nel suo complesso, va rigettato, con compensazione delle spese del giudizio di legittimità, considerando che il nuovo orientamento in materia di giurisdizione è successivo alla proposizione dell’odierno ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2010

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