Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8309 del 29/04/2020

Cassazione civile sez. VI, 29/04/2020, (ud. 14/01/2020, dep. 29/04/2020), n.8309

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE l

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15539-2018 proposto da:

G.G., nella qualità di tutore di G.D.,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BUONARROTI 40, presso lo

studio dell’avvocato LOREDANA FIORE, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato LORENZO NAPOLITANO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1035/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 16/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 14/01/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GABRIELLA

MARCHESE.

Fatto

RILEVATO

che:

con atto di citazione dinanzi al Tribunale di Venezia, G.G., nella qualità di tutore del figlio inabile G.D., conveniva in giudizio il Ministero della Salute al fine di ottenere l’indennizzo previsto dalla L. n. 210 del 1992, per le conseguenze dannose che asseriva essere derivate, al figlio, da vaccinazioni obbligatorie (tra cui vaccino l’antipolio (OMISSIS)) somministrate nel 1977;

la domanda era accolta dal Tribunale e, per l’effetto, il Ministero condannato al pagamento del risarcimento in misura di Euro 84.485,13, escluso il periodo per cui era maturata la prescrizione decennale (marzo 1987 – marzo 1997);

la Corte d’appello di Venezia, pronunciando sull’appello principale del Ministero e su quello incidentale di G.G., in accoglimento del primo e respinto il secondo, in riforma della decisione di primo grado, ha dichiarato che nulla spettava a G.G., nella qualità in epigrafe, condannandolo alla restituzione di quanto percepito in esecuzione della sentenza di primo grado; lo ha, altresì, condannato a rifondere le spese di entrambi i gradi di giudizio;

la Corte territoriale ha ritenuto che già sulla scorta della CTU espletata in primo grado e, comunque, in base alla nuova C.T.U., disposta in secondo grado, non fosse configurabile un nesso causale tra la malattia e le vaccinazioni;

G.G. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato ad otto motivi, cui il Ministero della Salute ha resistito con controricorso;

è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di consiglio;

parte ricorrente ha depositato memoria e istanza con cui ha chiesto la trattazione, in pubblica udienza, del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

il ricorso non presenta rilievo nomofilattico;

con il primo motivo è dedotta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 – la violazione degli artt. 442 e 439 c.p.c., per erroneità del rito adottato;

parte ricorrente assume che la Corte di appello avrebbe dovuto disporre il mutamento di ritto, come richiesto dall’appellato, trattandosi di giudizio erroneamente introdotto con il rito ordinario;

il motivo è inammissibile alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte in base alla quale i vizi di attività del giudice, denunciabili ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non sono posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria ma a garanzia di un pregiudizio concretamente subito (ex plurimis, Cass. n. 2626 del 2018) sicchè la denuncia di mancata adozione di un rito può essere invocata solo per riparare una precisa ed apprezzabile lesione che, in conseguenza del diverso rito seguito, sia stata subita sul piano pratico processuale” (Cass. n. 10341 del 2005; Cass. 10286 del 2009; Cass. n. 24561 del 2013; Cass. n. 1448 del 2015); in difetto di deduzioni in tal senso, come nella specie, la critica è inammissibile per difetto di interesse ad agire;

con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 – è dedotta l’omessa e/o insufficiente pronuncia sulle eccezioni di inammissibilità dell’appello del Ministero della Salute per violazione degli artt. 342 e 345 c.p.c.;

secondo la parte ricorrente, la sentenza non avrebbe motivato adeguatamente in ordine all’eccezione di inammissibilità dell’appello, sollevata anche con riferimento all’art. 345 c.p.c., per novità della domanda proposta dal Ministero della Salute;

anche il secondo motivo si arresta ad un rilievo di inammissibilità per difetto di specificità, non risultando trascritto nè l’atto di appello del Ministero, nè la memoria di costituzione in primo grado, su cui si fondano le denunciate censure;

con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 – è dedotta la nullità del procedimento di conferimento dell’incarico di CTU e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio;

secondo la parte ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe considerato l’incompatibilità dell’ausiliario con l’incarico conferito, per essere il professionista prescelto specialista in infettivologia pediatrica piuttosto che in neurologia ed essere incardinato in una struttura dell’ASL, come tale, non imparziale;

inammissibile è, nel complesso, pure il terzo motivo;

in via generale, occorre in questa sede ribadire che la scelta del consulente tecnico è riservata, anche per quanto riguarda la categoria professionale di appartenenza, all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito (ex plurimis, Cass. n. 6050 del 2010) sicchè la decisione di affidare l’incarico ad un professionista piuttosto che ad un altro (nella specie, infettivologo pediatrico invece che neurologo) non è censurabile in sede di legittimità e neppure richiede una specifica motivazione;

quanto alla supposta mancanza di imparzialità derivante da una asserita condizione di “sostanziale” incompatibilità del consulente tecnico d’ufficio, deve osservarsi come la stessa possa farsi valere esclusivamente mediante lo strumento della ricusazione, nel termine di cui all’art. 192 c.p.c. (Cass. n. 4287 del 2016; Cass. n. 12822 del 2014) senza che sussista una deroga per il caso (come quello prospettato) in cui la parte sia venuta a conoscenza solo successivamente della situazione di incompatibilità (Cass. n. 3657 del 1998); in tale ultima ipotesi, l’interessato può solo prospettare le ragioni che giustificherebbero un provvedimento di sostituzione affinchè il giudice, se lo ritenga, si avvalga dei poteri che gli conferisce in tal senso l’art. 196 c.p.c.; la valutazione operata al riguardo è, tuttavia, insindacabile in Cassazione (Cass. n. 3657 cit.) se non nei ristretti limiti del vizio di motivazione, tempo per tempo vigente e, nella specie, non validamente illustrato;

le restanti censure, nel dedurre la nullità della consulenza tecnica, pongono, in realtà, questioni che sono di fatto e non di diritto e, come tali, afferiscono più propriamente ad un’ipotesi di vizio di motivazione;

in ogni caso, esse sono prospettate senza le indicazioni necessarie, secondo le previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., nn. 4 e 6, non risultando trascritta la relazione peritale oggetto di censure;

si rammenta che la parte che addebita alla consulenza tecnica d’ufficio lacune di accertamento o errori di valutazione oppure si duole di erronei apprezzamenti contenuti in essa (o nella sentenza che l’ha recepita) ha l’onere di trascrivere integralmente nel ricorso per cassazione almeno i passaggi salienti e non condivisi e di riportare, poi, il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di evidenziare gli errori commessi dal giudice del merito nel limitarsi a recepirla e nel trascurare completamente le critiche formulate in ordine agli accertamento ed alle conclusioni del consulente d’ufficio. Le critiche mosse alla consulenza ed alla sentenza devono pertanto possedere un grado di specificità tale da consentire alla Corte di legittimità di apprezzarne la decisività direttamente in base al ricorso (Cass. n. 13845 del 2007, v. pure Cass. n. 3224 e 16368 del 2014 e, in motiv., Cass. n. 4287 del 2016);

con il quarto motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – è dedotta violazione della L. n. 210 del 1992, artt. 1 e 3 e dell’art. 41 c.p. ed omesso esame di uno o più fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti;

secondo la parte ricorrente, il consulente non avrebbe indicato neppure sommariamente eventuali cause o concause di natura non vaccinante; non avrebbe fatto alcun riferimento agli altri vaccini inoculati a G.D. il 7.3.1977 (DTP); tra l’altro, neppure avrebbe tenuto conto delle varie osservazioni formulate dal consulente di parte;

il difetto di specificità, evidenziato in relazione al motivo precedente, travolge anche il quarto motivo; la mancata trascrizione della relazione peritale impedisce, infatti, di valutare compiutamente i rilievi mossi;

è, peraltro, pure il caso di osservare come, nella sostanza, il ricorrente si limiti a contrapporre alle considerazioni del C.T.U. di secondo grado che ha escluso il nesso di causalità tra la patologia di cui è affetto G.D. (pacificamente “encefalopatia epilettogena grave – tipo Lennox Gastaut -“) ed il vaccino antipolio orale e la vaccinazione DTP (sotto tale profilo è anche infondata la censura per cui la sentenza impugnata non avrebbe considerato le altre vaccinazioni cui il G. si era sottoposto), altre argomentazioni che, se manifestano l’acceso dibattito che da tempo si registra su tali questioni, non rivelano acquisizioni ed elementi decisivi al fine di confutare la soluzione giudizialmente accertata; neppure può rilevare la denuncia secondo cui non sarebbe stata individuata una possibile eziologia alternativa “considerato che trattasi di complesse malattie la cui origine è ancora ignota e la ricerca di fattori ulteriori e diversi rispetto al patrimonio genetico è oggetto di studi della ricerca scientifica” (così, in motivazione, p. 9, Cass. n. 8788 del 2019);

resta assorbito l’esame del quinto motivo con cui – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – è dedotta violazione della L. n. 210 del 1992, art. 1 ed omesso esame, da parte della sentenza impugnata, della domanda, oggetto di appello incidentale, relativa ad una diversa decorrenza dell’indennizzo, stante il definitivo accertamento di insussistenza del diritto allo stesso;

con il sesto motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – è dedotta violazione della L. n. 210 del 1992 nella parte in cui la sentenza ha previsto la restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado;

secondo la parte ricorrente, la Corte di appello non avrebbe considerato che l’indennizzo erogato in base alla L. n. 210 del 1992 ha natura assistenziale e che, dunque, non sarebbe ripetibile nel caso in cui sia stato trattenuto in buona fede;

il motivo è infondato;

il diritto della controparte (ferma restando la necessità della relativa domanda) alla restituzione delle somme erogate in esecuzione della sentenza di primo grado sorge per effetto della pronuncia di appello; la caducazione della prima decisione comporta che viene meno “ex tunc” e definitivamente il titolo delle attribuzioni, sicchè la parte ha diritto al ripristino della situazione patrimoniale precedente (v. ex multis Cass. n. 16559 del 2005; Cass. n. 3758 del 2007); la relativa questione non si inquadra nell’ambito dell’istituto dell’indebito, per esserne diverse natura e funzione, e quindi neppure vengono in rilievo gli stati soggettivi di buona o mala fede dell’accipiens;

è assorbito, per ragioni sovrapponibili a quelle esposte in relazione al quinto motivo, anche il settimo motivo con cui -ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – è dedotta violazione della L. n. 210 del 1992, art. 3 e dell’art. 2946 c.c., per omessa pronuncia sul motivo di appello incidentale concernente la ritenuta prescrizione delle somme antecedenti di dieci anni la data di presentazione della domanda di indennizzo;

con l’ottavo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – è dedotta violazione dell’art. 92 c.p.c. nonchè omesso esame della richiesta della parte appellata di compensazione delle spese di lite in caso di esito sfavorevole della lite;

il motivo è inammissibile;

la facoltà di compensare le spese, ex art. 92 c.p.c., comma 2, rientra nel potere discrezionale del giudice del merito che non è tenuto a motivare il mancato uso di tale facoltà; se, infatti, l’esercizio del potere di disporre la compensazione è stato, nel tempo, sottoposto a un controllo sempre più stringente, con conseguente sindacabilità della motivazione a tale riguardo resa, il mancato esercizio dello stesso non può essere dedotto quale motivo di illegittimità della pronuncia di merito che ha applicato il principio della soccombenza (Cass. n.22224 del 2014);

conclusivamente, in base alle svolte argomentazioni, il ricorso va rigettato, con le spese liquidate, secondo soccombenza, come da dispositivo, in favore della parte controricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore della parte controricorrente, liquidate in Euro 2.500,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2020

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