Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8298 del 12/04/2011

Cassazione civile sez. III, 12/04/2011, (ud. 21/12/2010, dep. 12/04/2011), n.8298

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6919/2006 proposto da:

R.A., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CLELIA 18, presso lo studio dell’avvocato R.

A., difensore di sè medesimo;

– ricorrente –

contro

I.G.M.P.;

– intimato –

sul ricorso 9711/2006 proposto da:

I.G.M.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DELLA CAVA AURELIA 193, presso lo studio dell’avvocato I.

G.M.P., difensore di sè medesimo;

– ricorrente –

e contro

R.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 869/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

Sezione Seconda Civile, emessa il 19/10/2004, depositata il

24/02/2005; R.G.N. 1422/2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

21/12/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato R.A.;

udito l’Avvocato I.G.M.P.;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SCARDACCIONE Eduardo Vittorio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso principale e del ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’avv. R.A. propose impugnazione dinanzi alla Corte d’Appello di Roma avverso la sentenza del Tribunale di Roma, con la quale era stata parzialmente accolta l’opposizione proposta dal medesimo avverso il precetto notificatogli il 18 maggio 1999 ad istanza dell’avv. I.G.M. (per il pagamento della somma di L. 68.700.126, oltre accessori maturati successivamente alla notifica del precetto, in base al titolo esecutivo costituito dalla sentenza parziale n. 11361 del 12/9/95 con la quale l’avv. R. era stato condannato al pagamento della somma di L. 500.000 mensili a decorrere dall’ 11/5/1992 per l’occupazione abusiva dell’immobile sito in (OMISSIS)) ed era stato dichiarato che l’avv. I. aveva diritto di procedere esecutivamente nei confronti dell’opponente “per la somma di L. 51.911.681 per capitale e diritti e L. 2.752.980 per spese, oltre interessi legali dal 12/9/1995 all’11/5/1999 sulla somma di L. 20.000.000, interessi legali da computarsi, a decorrere da ogni scadenza mensile, sull’importo di L. 500.000 mensili, per il periodo 12/9/1995 – 11/5/1999, ed interessi legali sull’intera somma cosi determinata dalla data del precetto al soddisfo”; quindi, erano state rigettate le domande riconvenzionali dell’opposto e condannato l’opponente alle spese di giudizio. Dedusse l’appellante che il primo giudice: 1) aveva erroneamente pronunciato sull’opposizione come se fosse stata proposta avverso un precetto notificato il 18/12/1995, mentre l’opposizione riguardava altro precetto notificato il 18/5/1999; 2) non aveva tenuto conto dell’eccezione di compensazione, sollevata dall’avv. R. con riguardo al credito disposto in suo favore nei confronti dell’avv. I. con la sentenza definitiva n. 3947/99, per la quale era maturata la coesistenza tra i due crediti sin dal 5/3/99; 3) aveva erroneamente dichiarato il diritto dell’opposto a procedere ad esecuzione forzata, sull’erroneo presupposto che l’opponente non avrebbe dovuto tenere conto della mutata situazione verificatasi a seguito del pignoramento dell’immobile; 4) aveva erroneamente affermato l’esistenza del diritto alla percezione degli interessi in mancanza di un’espressa pronuncia di condanna nella sentenza costituente titolo esecutivo; 5) aveva erroneamente ammesso l’autoliquidazione in precetto di spese afferenti procedure esecutive precedentemente promosse, riconoscendo inoltre il diritto anche in relazione a voci di “non chiara comprensione”; 6) aveva erroneamente posto a carico dell’opponente per l’intero le spese di lite.

La Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato inefficace il precetto opposto “nella parte avente ad oggetto la somma di L. 14.035.466 esposta per interessi legali e le somme di L. 2.355.000 e di L. 1.169.000 esposte rispettivamente per onorari e diritti la prima, per esborsi la seconda, riferibili a precedenti precetti ed attività esecutive”; ha compensato per un terzo le spese di entrambi i gradi di giudizio, condannando l’appellante al pagamento dei due terzi restanti; ha ordinato la cancellazione della parola “incallito” dalla comparsa di risposta dell’avv. I. ai sensi dell’art. 89 c.p.c..

Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma propone ricorso per cassazione l’avv. R.A., a mezzo di tre motivi. Resiste con controricorso l’avv. I.G.M., il quale propone altresì ricorso incidentale fondato su tre motivi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, va disposta la riunione del ricorso incidentale n. 9711/2006 al ricorso principale n. 6917/2006.

1. Col primo motivo del ricorso principale è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 156, 161 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per avere il giudice d’appello disatteso la censura concernente l’indicazione nel dispositivo della sentenza appellata di un precetto notificato il 18 dicembre 1995, mentre l’opposizione era stata proposta avverso il precetto notificato il 18 maggio 1999, in modo che risulterebbe dal dispositivo della sentenza che il Tribunale di Roma avrebbe pronunciato in ordine ad un precetto che non era oggetto dell’opposizione de qua (poichè, tra l’altro, il precetto del 18 dicembre 1995 era stato oggetto di altra opposizione tra le medesime parti decisa dal Pretore di Roma con sentenza n. 5142/97, che era stata anche richiamata dal Tribunale nella motivazione della sentenza impugnata); dal momento che la Corte d’Appello aveva rilevato che nella motivazione della sentenza si faceva invece costante riferimento al precetto notificato il 18 maggio 1999 come oggetto dell’opposizione, si verterebbe, secondo il ricorrente, in ipotesi di insanabile contrasto tra dispositivo e motivazione e, non essendo consentito individuare la statuizione del giudice attraverso una valutazione di prevalenza di una delle contrastanti affermazioni contenute nella sentenza, nè essendo possibile fare ricorso all’interpretazione complessiva della decisione ovvero utilizzare il procedimento di correzione di errore materiale, si sarebbe determinata una nullità della sentenza.

Inoltre, si sarebbe avuto anche un vizio di omessa pronuncia per la mancata statuizione nel dispositivo della sentenza in ordine al capo di domanda concernente l’opposizione al precetto del 18 maggio 1999.

Il motivo è infondato sotto entrambi i profili.

Come già rilevato dalla Corte d’Appello, la sentenza del primo giudice non è viziata da contrasto tra dispositivo e motivazione nè ha omesso di pronunciarsi sul precetto notificato il 18 maggio 1999, poichè il contenuto della motivazione è tale che non vi è dubbio alcuno che il Tribunale si sia pronunciato proprio su tale ultimo precetto.

Pertanto, il riferimento fatto in dispositivo al precetto notificato il 18 dicembre 1995 deve ritenersi un errore materiale, tale cioè da determinare un contrasto soltanto apparente tra dispositivo e motivazione (cfr., da ultimo, Cass. 14 aprile 2010, n. 8894): il vero contrasto che comporta la nullità della sentenza si ha soltanto quando essa sia inidonea a consentire l’individuazione in concreto del comando giudiziale (cfr., tra le tante, Cass. 2 luglio 2007 n. 14966); quando, invece, la statuizione sia certa e certamente desumibile dalla combinazione di dispositivo e motivazione, poichè non vi è un contrasto tra le due parti della sentenza che sia necessario superare mediante l’attribuzione della prevalenza delle statuizioni dell’una sull’altra, ma esse risultano perfettamente coerenti, non vi è nullità della sentenza.

Escluso il contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza di primo grado, nemmeno può ritenersi l’omessa pronuncia sull’opposizione al precetto notificato il 18 maggio 1999, poichè questo e non altro è stato l’oggetto della decisione del Tribunale.

2. Col secondo motivo di ricorso l’avv. R. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1241 c.c., e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa pronuncia ed insufficiente motivazione, con riferimento all’eccezione di compensazione, per avere la Corte d’Appello ritenuto proposta tale eccezione soltanto con l’atto di appello e, quindi, per averne ritenuto l’inammissibilità; in particolare, per avere svolto una motivazione affetta da vizio logico o giuridico sia perchè già nell’atto di opposizione in primo grado l’opponente aveva manifestato una volontà compatibile con la proposizione dell’eccezione sia perchè, come da costante insegnamento della Suprema Corte, questa non necessita di formule sacramentali.

Il motivo è infondato con riguardo a tutti i profili denunciati.

Corretta è l’affermazione in diritto contenuta nella sentenza impugnata per la quale l’eccezione di compensazione è eccezione in senso proprio, la cui proposizione da parte dell’opponente, nel giudizio di opposizione all’esecuzione va fatta sin con l’atto introduttivo del giudizio, salva la possibilità di modifica o di precisazione ai sensi dell’art. 183 c.p.c., pure richiamato dalla Corte d’Appello.

Parimenti corretta risulta sulla base degli atti consultabili con riferimento alla denunciata violazione ex art. 360 c.p.c., n. 4 – l’affermazione del giudice d’appello, secondo cui, con l’atto di citazione in opposizione l’opponente avv. R. non manifestò affatto la volontà di valersi della compensazione. E’ vero, infatti, quanto affermato dal ricorrente principale secondo cui la giurisprudenza di legittimità non richiede per la valida proposizione dell’eccezione l’uso di formule sacramentali o comunque di rito; tuttavia, è necessario che all’allegazione dell’esistenza di un credito nei confronti della controparte segua un’inequivoca manifestazione di volontà di imputare l’importo di tale credito a, parziale o totale, compensazione col credito del quale la controparte pretende il pagamento nello stesso giudizio. Nel caso di specie, non solo tale volontà non è affatto desumibile in termini certi dall’atto di opposizione dell’avv. R., ma anzi da esso è evincibile una volontà contraria, secondo quanto rilevato – con motivazione congrua e logica – dalla Corte d’appello. Nè può rilevare, per quanto detto sopra, che, come sostenuto dal ricorrente, questi abbia manifestato la propria volontà di compensazione con la comparsa conclusionale di primo grado, poichè, al momento del relativo deposito, era già maturato il termine preclusivo.

Infine, è congrua e logica la motivazione, laddove osserva che la semplice indicazione dell’importo che si assume dovuto dalla controparte, non è di per sè sola, sufficiente a dimostrare che di tale credito l’opponente intendesse valersi a fini di compensazione;

soprattutto quando, come pure congruamente rilevato dal giudice di appello, non lo abbia imputato a fini di compensazione, ma addirittura abbia offerto banco iudicis il pagamento della somma, inferiore a quella precettata, che riteneva dovuta alla controparte.

3. Col terzo motivo di ricorso è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 474 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè vizio di motivazione, per avere il giudice di secondo grado ritenuto infondato il terzo motivo d’appello, sul presupposto che l’indennità di occupazione non possa essere considerata come frutto dell’immobile pignorato. Sostiene il ricorrente che la motivazione della sentenza della Corte d’Appello sarebbe in palese contrasto con quanto statuito nella sentenza n. 11365/95, costituente il titolo esecutivo posto a base del precetto oggetto dell’opposizione, dalla quale si evincerebbe che il pagamento in favore dello I. della somma di L. 500.000 mensili per il periodo di occupazione esclusiva dell’immobile non sarebbe altro che “il pagamento della corrispondente quota di frutti civili traibili dal godimento indiretto dello stesso immobile”; secondo il ricorrente, questa affermazione della sentenza di primo grado troverebbe riscontro anche nella sentenza della Corte d’Appello n. 12592/97 nella quale si legge: “…per quanto riguarda i frutti civili, la Corte ritiene che la somma di L. 500.000 mensili liquidata in via equitativa è congrua perchè corrisponde, per nozioni di comune esperienza, al 50% del canone locativo per uso abitativo …”.

Il dedotto contrasto non sussiste poichè risulta dal tenore della motivazione della citata sentenza del Tribunale, riportata in ricorso, che il riferimento ai frutti civili non è fatto a questi in quanto tali, ma quale parametro per la determinazione della misura del pregiudizio sofferto dal comproprietario per l’occupazione esclusiva che altro comproprietario faccia dell’immobile di proprietà comune (trattandosi di una prestazione risarcitoria sostitutiva del godimento non fruito: così già Cass. 10 gennaio 1983, n. 176; cfr., di recente, Cass. 12 maggio 2010,n. 11486, circa la natura di risarcimento di un danno in re ipsa). Si tratta di un’inequivoca applicazione dell’art. 1102 c.c., che presuppone che al comproprietario non occupante sia stato prodotto un pregiudizio a causa dell’impedimento a fare uso dell’immobile comune in maniera diretta ovvero indiretta, traendone i frutti civili, attraverso la locazione a terzi o ad uno dei condividenti.

Pertanto, è corretta l’affermazione della sentenza impugnata relativamente alla circostanza che il pignoramento dell’immobile in comproprietà non determina l’imposizione del vincolo sull’indennità di occupazione dovuta dal comproprietario occupante nei confronti dell’altro, poichè non può essere considerata come frutto dell’immobile pignorato, essendo invece un indennizzo, posto a carico non già di terzi, ma di uno degli stessi comunisti al fine di perequare il godimento esclusivo che questi ne faccia, mentre il diritto dominicale attribuirebbe a tutti i comproprietari un pari diritto di godimento.

Al fine di corroborare l’affermazione della Corte d’Appello circa l’inapplicabilità nel caso di specie dell’art. 2912 c.c., giova aggiungere, con specifico riguardo alle norme che regolano il processo esecutivo, che il giudice dell’esecuzione quando autorizza il debitore ad occupare l’immobile pignorato, così lasciandolo nel godimento di un bene che è ancora di sua proprietà, consente l’esercizio di una delle facoltà di cui si compone il diritto di proprietà; quindi, non può certo imporre al debitore il pagamento di una somma di denaro che in tanto sì giustificherebbe in quanto altro fosse il titolo della detenzione. Pertanto nessun “frutto”, ai sensi e per gli effetti del citato art. 2912 c.c., produce l’immobile pignorato quando è occupato dal debitore esecutato; analogamente è a dirsi quando i debitori esecutati siano più d’uno perchè comproprietari del bene sottoposto a pignoramento, come accaduto nel caso di specie, in cui il pignoramento risulta essere stato effettuato sìa contro l’avv. I. che contro l’avv. R..

Ne segue che quando è autorizzata l’occupazione dell’immobile pignorato da parte di uno soltanto dei comproprietari, senza il consenso dell’altro (o degli altri), il regolamento dei rapporti tra comproprietari resta estraneo alla procedura esecutiva immobiliare poichè da tali rapporti potrebbe sorgere – e di fatto sorge – nient’altro che un diritto di credito del comproprietario non occupante per il godimento esclusivo che altro comproprietario abbia dell’immobile comune, che esula dalla procedura esecutiva immobiliare, avendo questa tutt’altro oggetto.

3.1. La motivazione che precede è l’unica consentita a questa Corte, malgrado il controricorrente insista nell’affermare che il pignoramento sarebbe del tutto ininfluente ai fini di causa perchè, a seguito dell’esecuzione avviata dalla Banca di Roma con pignoramento notificato nel 1996, la banca creditrice-mutuante sarebbe stata soddisfatta nel 1998, con conseguente estinzione della procedura esecutiva. La Corte d’Appello ha “evidenziato che l’avv. I. non ha fornito alcuna prova che sia sopravvenuta alcuna causa di inefficacia o di estinzione di tale pignoramento, poichè l’estinzione deve essere disposta giudizialmente o autorizzata dal creditore procedente (nessuno dei documenti prodotti contiene siffatto provvedimento) e il semplice pagamento del debito per cui è stata promossa l’esecuzione non è sufficiente a far venir meno il vincolo …omissis…”: essendo corretta in diritto di tale ultima affermazione, è evidente come ogni altro accertamento riguardi profili di fatto riservati al giudice del merito, il cui esame è precluso a questa Corte, essendo congrua la relativa motivazione.

3.2. Col terzo motivo di ricorso, il ricorrente introduce un ulteriore profilo di censura, sempre relativo all’applicazione dell’art. 474 c.p.c., da parte del giudice d’appello, per non avere tenuto conto che la pronuncia giurisdizionale con la quale è stata accolta una domanda di condanna del convenuto ad una determinata prestazione di fare o di dare, compresa quella relativa al pagamento di somme di denaro, produce i suoi effetti per le prestazioni che si riferiscono al periodo anteriore alla proposizione della domanda, non per il periodo successivo. Sotto tale profilo, il motivo – prima ancora che infondato poichè la sentenza Tribunale di Roma n. 11361/1995, posta a base del precetto, contiene una condanna per il futuro (per la cui ammissibilità è sufficiente richiamare, tra le altre, Cass. 31 maggio 2005, n. 11603) – va reputato, così come proposto, inammissibile poichè non risulta che si tratti di censura fatta valere con i motivi di appello nè con l’atto introduttivo dell’opposizione. In particolare, il ricorrente vi ha fatto soltanto cenno nel ricorso principale ed ha, invece, svolto ampia illustrazione in diritto con la memoria ex art. 378 c.p.c., senza però indicare in quale degli atti dei precedenti gradi di giudizio avesse avanzato tale motivo di opposizione, che, come detto, non si evince dal richiamo degli originari motivi di opposizione a precetto che lo stesso ricorrente svolge nei propri scritti e che si legge nella sentenza impugnata.

4. Col primo motivo di ricorso incidentale l’avv. I. deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 1219 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè vizio di motivazione, censurando la sentenza impugnata laddove, accogliendo il quarto motivo d’appello, ha riformato la sentenza di primo grado in punto di debenza degli interessi, motivando nel senso che il titolo esecutivo posto a base del precetto “non contiene, nè in motivazione, nè in dispositivo, alcuna condanna al pagamento degli interessi sull’indennità medesima”.

Il motivo è fondato.

Al riguardo, va richiamata la giurisprudenza di questa Corte per la quale “una volta che la sentenza o il provvedimento abbiano acquistato efficacia esecutiva, il credito, nella somma globale liquidata dal giudice con riferimento alla data in cui il provvedimento è pronunciato, divenuto esigibile, produce interessi da sè. E siccome li produce, sino al momento in cui il credito non è estinto, in misura predeterminata, come effetto che la legge ricollega direttamente al fatto della condanna dal momento in cui diviene esecutiva, non c’è bisogno che il giudice pronunci condanna.

al pagamento di tali interessi perchè essi siano da considerare non solo dovuti, ma. coperti dalla, efficacia esecutiva del titolo” (così in motivazione Cass. 14 maggio 2003 n. 7371, ma cfr. nello stesso senso già Cass. 21 aprile 1999 n. 3944).

Nel caso di specie, la sentenza del Tribunale di Roma n. 11361/95 ha liquidato la somma dovuta a titolo di indennità di occupazione, dando luogo ad un credito liquido di somma di denaro in favore dell’avv. I. nei confronti dell’avv. R.. La stessa sentenza ha inoltre fissato la scadenza mensile per il relativo pagamento, anche quanto alla condanna per il futuro, fino al momento di definitivo rilascio dell’immobile. Pertanto, il credito, oramai liquido, di somma di denaro è divenuto esigibile, per i ratei già scaduti (corrispondenti alla somma complessiva di L. 20.000.000 per le quaranta mensilità scadute dall’11 maggio 1992 all’11 settembre 1995), dalla data della sentenza che ne ha effettuato la liquidazione (12 settembre 1995), mentre è divenuto esigibile via via, a far data dalle singole scadenze mensili, con riferimento alle indennità dovute per i periodi di occupazione successivi alla pronuncia della sentenza di condanna. Ne segue che il creditore, avv. I., legittimamente ha inserito in precetto gli interessi legali prodottisi di pieno diritto, ma soltanto con riferimento a quelli decorrenti dalla data di pubblicazione della sentenza che costituiva il titolo esecutivo posto a base del precetto. Correttamente pertanto il giudice di primo grado ha riconosciuto il suo diritto a procedere ad esecuzione forzata per riscuotere tali interessi.

Va perciò cassata la sentenza d’appello oggetto della presente impugnazione limitatamente alla statuizione di riforma della sentenza di primo grado in punto di diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata per il credito per interessi legali. Su questo credito ritiene questa Corte di decidere nel merito, statuendo come da sentenza del Tribunale di Roma n. 21571/2001, specificamente riconoscendo all’avv. I. il diritto a procedere esecutivamente per il pagamento degli interessi legali dal 12/9/1995 all’11/5/1999 sulla somma di Euro 10.329,15 (corrispondente alla somma di L. 20.000.000), nonchè degli interessi legali da computarsi, a decorrere da ogni scadenza mensile, sull’importo di Euro 258,20 (corrispondente alla somma di L. 500.000 mensili), per il periodo 12/9/1995-11/5/1999, e, quindi, degli interessi legali sull’intera somma così determinata dalla data del precetto al soddisfo.

5. Col secondo motivo del ricorso incidentale l’avv. I. deduce violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla statuizione di illegittimità del precetto per le somme riferibili, quali onorari, diritti ed esborsi, a precedenti precetti ed attività esecutive (pignoramento mobiliare e procedura esecutiva presso terzi).

Il motivo è infondato.

La decisione della Corte d’Appello è basata sulla richiamata giurisprudenza di questa Corte per la quale l’art. 95 cod. proc. civ., nel porre a carico del debitore esecutato le spese sostenute dal creditore procedente e da quelli intervenuti che partecipano utilmente alla distribuzione, presuppone che il processo esecutivo sia iniziato con il pignoramento eseguito dall’ufficiale giudiziario;

pertanto, detta disposizione non può trovare applicazione in caso di pignoramento negativo e di mancato inizio dell’espropriazione forzata, con la conseguenza che, divenuto inefficace il precetto per decorso del termine di novanta giorni, le spese di esso restano a carico dell’intimante, in forza del combinato disposto dell’art. 310 e dell’art. 632, u.c., secondo il quale le spese del processo estinto restano a carico delle parti che le hanno anticipate (così Cass. 26 settembre 2006 n. 20836 in un caso in cui le spese del pignoramento negativo erano state dedotte in un precetto successivo; ma, nello stesso senso, anche Cass. 15 dicembre 2003 n. 19184, Cass. 14 aprile 2005 n. 7764, Cass. 9 novembre 2007 n. 23408).

La Corte d’Appello di Roma ha fatto corretta applicazione dei principi espressi dalla su citata giurisprudenza, atteso che le precedenti esecuzioni intraprese dal medesimo creditore avv. I. contro il medesimo debitore avv. R. non risultano essere pervenute all’esito fisiologico del compimento di un pignoramento mobiliare, l’una, e della dichiarazione positiva del terzo, l’altra.

Nè si rinviene il contrasto, con l’altra giurisprudenza richiamata dal ricorrente a sostegno delle proprie argomentazioni, per la quale il precetto ben può contenere anche l’intimazione di pagamento delle spese del precetto stesso e di tutti gli atti successivi e conseguenti alla sentenza effettivamente sostenute, senza che occorra una liquidazione da parte del giudice (cfr., di recente, Cass. ord. 2 dicembre 2008, n. 28627). Infatti, come rilevato anche dalla Corte d’Appello, la c.d. autoliquidazione delle spese che possono essere inserite in precetto riguarda le spese relative al titolo esecutivo ed all’attività svolta per l’avvio dell’esecuzione minacciata col precetto, cioè quelle indispensabili per incardinare una determinata procedura esecutiva, non anche tutte quelle relative a diverse procedure esecutive, pur se fondate sul medesimo titolo esecutivo.

6. Col terzo ed ultimo motivo del ricorso incidentale il ricorrente lamenta violazione ed erronea applicazione dell’art. 89 c.p.c., nonchè vizio di motivazione relativamente all’ordine di cancellazione della parola “incallito” contenuta nella sua comparsa di risposta.

Il motivo è infondato sotto entrambi i profili.

Riguardo all’applicazione dell’art. 89 c.p.c., comma 1, è sufficiente richiamare la giurisprudenza di questa Corte per la quale la valutazione da parte del giudice di merito sul carattere sconveniente o offensivo di espressioni contenute nelle difese delle parti e sulla loro estraneità all’oggetto della lite, nonchè l’emanazione o meno dell’ordine di cancellazione delle medesime a norma dell’art. 89 c.p.c., integrano esercizio del potere discrezionale non censurabile in sede di legittimità (cfr. Cass. 7 luglio 2004 n. 12479; Cass. 12 febbraio 2009 n. 3487). In ordine a tale esercizio, s’impone al giudice del merito un obbligo di motivazione nel rispetto dei canoni metodologici posti dall’ordinamento in maniera espressa o implicita: riguardo alla motivazione, peraltro, il sindacato di legittimità è circoscritto alla violazione del canone metodologico in sè, ed è esclusa ogni nuova valutazione del fatto rappresentato (cfr. Cass. 24 maggio 2002 n. 7628).

Il ricorrente incidentale censura la motivazione della sentenza impugnata con specifico riguardo ai criteri di valutazione dell’offensività della parola “incallito” dei quali si è avvalso il giudice del merito, non con riguardo alle modalità con le quali ha svolto la propria motivazione sul punto. Ne segue che il ricorrente, quando afferma che – contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di secondo grado – l’aggettivo sarebbe stato da lui usato correttamente quanto al suo significato letterale e senza alcun intento offensivo nei confronti della controparte, nonchè in rapporto di pertinenza con i fatti di causa, e quindi non avrebbe dovuto essere ordinata la sua cancellazione, sostanzialmente richiede a questa Corte – che quell’ordine di cancellazione dovrebbe cassare – una nuova valutazione in merito alla sconvenienza od offensività del termine che, invece, per quanto detto sopra, è preclusa al giudice di legittimità.

7. Va rigettata, inoltre, la domanda del ricorrente incidentale di ordinare la cancellazione della frase riportata alla pag. 8 della memoria ex art. 378 c.p.c., di controparte (pur trattandosi di domanda ammissibile poichè riguarda un atto diretto a questo giudice di legittimità: cfr. Cass. 17 marzo 2009 n. 6439): infatti, il ricorrente principale risulta avere riportato tra virgolette (“carenza delle minime cognizioni in materia civile e processuale emergenti in capo all’Avvocato I.”) il contenuto di una segnalazione inviata al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma con un’ordinanza emessa in un procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria civile; di tutto ciò il ricorrente principale da atto dettagliatamente, sicchè non può essere a lui riferita la paternità della frase che il ricorrente incidentale reputa offensiva.

8. Avuto riguardo all’accoglimento di uno soltanto dei motivi del ricorso incidentale, a fronte della soccombenza di entrambe le parti, rispettivamente sui motivi del ricorso principale e su tutti gli altri motivi di quello incidentale, nonchè alla natura ed alla durata del contenzioso in essere tra le medesime parti, si ritiene di giustizia la compensazione delle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce al ricorso principale n. 6919/2006 il ricorso incidentale n. 9711/2006.

Rigetta il ricorso principale ed i motivi secondo e terzo del ricorso incidentale.

Accoglie il primo motivo del ricorso incidentale e, per l’effetto, cassa la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 869 del 24 febbraio 2005 limitatamente alla dichiarazione di inefficacia del precetto notificato in data 18.05.1999 “nella parte avente ad oggetto la somma di L. 14.035.466 esposta per interessi legali” e, decidendo nel merito, dichiara che l’avv. I.G.M. ha diritto di procedere esecutivamente nei confronti dell’avv. R.A. per il credito degli interessi legali dal 12/9/1995 all’11/5/1999 sulla somma di Euro 10.329,15 (corrispondente a L. 20.000.000), nonchè degli interessi legali da computarsi, a decorrere da ogni scadenza mensile, sull’importo di Euro 258,20 (corrispondente a L. 500.000), per il periodo 12/9/1995-11/5/1999, e quindi degli interessi legali sull’intera somma così determinata dalla data indicata in precetto (12 maggio 1999) al soddisfo; conferma nel resto l’impugnata sentenza.

Rigetta la domanda proposta dal ricorrente incidentale ai sensi dell’art. 89 c.p.c., comma 1.

Compensa tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2011

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