Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8295 del 12/04/2011

Cassazione civile sez. II, 12/04/2011, (ud. 25/11/2010, dep. 12/04/2011), n.8295

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – rel. Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 31020-2007 proposto da:

T.P., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

CARAVAGGIO DOMENICO, giusta procura a margine dell’atto di citazione;

– ricorrente –

contro

A.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 534/2007 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE del

27/06/07, depositata il 08/10/2007;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/11/2010 dal Consigliere Relatore Dott. IPPOLISTO PARZIALE;

udito l’Avvocato Battaglia Monica, (delega avv. Caravaggio Domenico),

difensore del ricorrente che si riporta agli scritti difensivi;

è presente il P.G. in persona del Dott. PIERFELICE PRATIS che nulla

osserva sulla relazione ex art. 380 bis c.p.c..

Fatto

FATTO E DIRITTO

1. – T.P. impugna la sentenza n. 534 del 2007 con la quale la Corte d’appello di Trieste ne ha rigettato l’appello avverso la sentenza del Tribunale di Udine che, a sua volta, ne aveva rigettato la domanda di pagamento del saldo di quanto assuntivamente ancora dovutogli da A.M. per la posa in opere di piastrelle.

Il Tribunale aveva ritenuto non provata la domanda, avendo il convenuto prodotto fattura emessa dall’attore e recante quietanza ampiamente liberatoria il cui tenore letterale escludeva potesse trattarsi di solo acconto.

La Corte territoriale – per quanto in questa sede ancora interessa in relazione al thema decidendum introdotto con il ricorso – confermava tale decisione, osservando che, sebbene nel contratto iniziale la determinazione del dovuto fosse stata rapportata alle ore di lavoro occorrenti, nella fattura la stessa determinazione era stata operata a corpo, onde, mentre attraverso la quietanza liberatoria apposta alla fattura stessa il convenuto aveva fornito la prova del pagamento, era mancata da parte dell’attore la prova d’un maggior importo dovuto.

2. – Il ricorrente articola tre motivi di ricorso. Con il primo ed il secondo, trattati congiuntamente, deduce “vizi di motivazione su un punto decisivo del giudizio” e “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” concludendo l’esposizione con il seguente quesito:

®quali sono gli elementi in forza dei quali la quietanza può ritenersi estintiva di ogni obbligazione principale ed accessoria scaturente dall’esecuzione del contratto d’opera”. Con il terzo motivo deduce “violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’articolo 24 della Costituzione” e formula il seguente quesito: “se il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, altera alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda e/o eccezione, ovvero pone a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda e/o eccezione, incorre nella violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato”.

3. – Nessuna attività in questa sede ha svolto l’intimato A. M..

4. – Su relazione ex art. 380 bis c.p.c. del Consigliere designato, avverso la quale il ricorrente ha depositato memoria critica, il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio.

5. – Il Collegio condivide le conclusioni alle quali è pervenuto il Consigliere relatore, risultando il ricorso non rispondente alle prescrizioni contenute nell’art. 366 bis c.p.c. per le ragioni che seguono, con le quali rimangono disattese anche le argomentazioni svolte dal ricorrente nella memoria.

Infatti, il ricorso, tenuto conto delle sopra indicate date di pronunzia e pubblicazione della sentenza impugnata, è soggetto “ratione temporis” (vedi D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2) alle nuove disposizioni regolanti il processo di cassazione, tra le quali, segnatamente per quel che rileva, l’art. 366 bis c.p.c. (inserito dall’art. 6 del citato D.Lgs.) a termini del quale nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 l’illustrazione di ciascun motivo “si deve concludere a pena di inammissibilità con la formulazione di un quesito di diritto” e nel caso di cui al 5 con la “chiara indicazione del fatto controverso”.

5.1 – Quanto alle prime due censure, va preliminarmente rilevato che l’evidenza delle singole questioni da decidere in funzione di corrispondenti censure mosse alla sentenza impugnata è impedita, anzi tutto, dalla formulazione congiunta, nell’ambito d’un’unica trattazione, di censure per violazione di legge e per vizio di motivazione, ciò che si verifica vieppiù ove, come nella specie, risulti inidoneo il corrispondente quesito per le une e manchi il momento di sintesi per le altre, dacchè, giusta quanto questa Corte ha ripetutamente rilevato, deduzione congiuntiva siffatta integra una palese negazione della regola di chiarezza posta dall’art. 366-bis cod. proc. civ, per la prospettazione dei vizi tanto della prima quanto della seconda categoria, là dove è prescritto che ciascun motivo debba contenere, nell’un caso, il quesito di diritto e, nell’altro, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assuma omessa, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione renda questa inidonea a giustificare la decisione; cumulando, infatti, nella medesima argomentazione critica, il vizio di violazione di legge con quello di motivazione, si omette tale chiara indicazione, che dovrebbe comunque concludersi con un momento di sintesi equipollente al quesito di diritto, rimettendo al giudice di legittimità il compito d’enucleare, dalla mescolanza delle argomentazioni, la parte concernente il vizio di motivazione, il quale deve, invece, avere un’autonoma collocazione ed in ordine al quale la mancanza, l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione debbono avere, ciascuna autonomamente considerata in ragione delle peculiari caratteristiche del singolo vizio, separata trattazione e distinta sintesi interrogativa (Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9153;

Cass. 11 aprile 2008, n. 9470; Cass. 29 febbraio 2008, n. 5471; Cass. 23 luglio 2008, n. 20355);

5.2 – Quanto ai due quesiti di diritto, se ne è riportato il testo integrale dacchè alla sola loro lettura ci si avvede ch’essi non rispondono a quanto prescritto dall’art. 366 bis c.p.c., in quanto una formulazione appropriata del quesito di diritto, aderente alla sua funzione, richiede che la parte, rispetto a ciascun punto della sentenza investito da un motivo di ricorso, dopo avere riassunto di quel punto gli aspetti di fatto rilevanti ed averne indicato il modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe, invece, deciso e che la Corte, accogliendo il ricorso, dovrebbe avallare.

Non può, per contro, ritenersi che un corretto quesito di diritto sia ravvisabile quando, onde comprenderne il senso ed il contenuto, si renda necessario far ricorso all’esposizione del motivo. Osta a tale interpretazione dell’art. 366-bis c.p.c. il rilievo che il dettato normativo impone che l’esposizione del motivo si debba “concludere” con un quesito da solo sufficiente a svolgere una propria funzione di individuazione della questione di diritto posta alla Corte, sicchè è necessario che tale individuazione sia assolta da una parte specifica del ricorso, a ciò deputata attraverso espressioni puntuali che siano idonee ad evidenziare alla Corte la questione, ed esclude, invece, che la questione possa risultare da un’operazione d’individuazione delle implicazioni della esposizione del motivo di ricorso affidata al lettore di tale esposizione e non rivelata direttamente dal quesito stesso. In sostanza, se il legislatore avesse voluto prevedere soltanto che il quesito si evincesse dall’esposizione del motivo, non avrebbe previsto che quest’ultima si concludesse con la formulazione del quesito, che implica palesemente un quid che non può coincidere con detta esposizione; avrebbe detto, dunque, che l’esposizione del motivo deve proporre un quesito di diritto, lasciando così alla Corte di cassazione l’opera di individuazione del medesimo, cioè, in definitiva, la valutazione della idoneità dell’esposizione a prospettare il quesito. Incontroverso, dunque, che il quesito di diritto non possa essere desunto per implicito dalle argomentazioni a sostegno della censura, ma debba essere esplicitamente formulato, nell’elaborazione dei canoni di redazione di esso la giurisprudenza di questa Suprema Corte è ormai chiaramente orientata nel ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso debba consentire l’individuazione tanto del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato, quanto, correlativamente, del principio di diritto, diverso dal precedente, la cui auspicata applicazione ad opera della Corte medesima possa condurre ad una decisione di segno inverso rispetto a quella impugnata; id est che il giudice di legittimità debba poter comprendere, dalla lettura del solo quesito inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la diversa regola da applicare.

Ove tale articolazione logico-giuridica manchi, il quesito si risolve in un’astratta petizione di principio che, se pure corretta in diritto, risulterebbe, ciò nonostante, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie concreta, l’errore di diritto imputato al giudice a quo ed il difforme criterio giuridico di soluzione del punto controverso che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione del principio cui la Corte deve pervenire nell’esercizio della funzione nomofilattica.

Tali dovendosi, dunque, ritenere i requisiti onde il quesito di diritto possa essere considerato idoneo ex art. 366 bis c.p.c., nel caso di specie questa Corte avrebbe dovuto, alla sola lettura di quelli formulati dal ricorrente, poter intendere quali errori avessero indotto il giudice a quo ad affermare l’idoneità della fattura quietanzata a comprovare l’adempimento dell’obbligazione del committente e quale corretta soluzione in diritto avrebbe dovuto condurre ad una decisione diversa da quella adottata; e, poichè le ragioni di detta affermazione sono multiple, pur concorrendo, nella composizione d’una complessa argomentazione, alla formazione del conclusivo convincimento, altrettanti sarebbero dovuti essere, anzi tutto, gli errori denunziati e, corrispondentemente, i distinti quesiti, ciascuno dei quali inteso all’enunciazione di regulae iuris diverse da quelle assunte dal detto giudice a giustificazione d’ognuna delle plurime ragioni concorrenti nella formazione del deasum (da ultimo, Cass. SS.UU. 6.2.09 n. 2863). La ricostruzione del significato dell’art. 366-bis nei detti termini, al di là della conformità alla voluntas legis, non può essere accusata di formalismo, come sembra lumeggiare il ricorrente con la memoria, giacchè si rivela funzionale ad assicurare un accesso consapevole e meditato al giudizio di legittimità (com’è noto non garantito dall’ordinamento solo a tutela dello jus litigatoris per la sua stessa logica di giudizio a critica limitata, certamente considerata dal legislatore costituente, allorquando sentì il bisogno di ancorare la garanzia del ricorso per cassazione alla violazione di legge), in quanto costringe nella redazione del ricorso per cassazione ad uno sforzo di sintesi delle ragioni di ciascun motivo che è garanzia di ponderazione della sua illustrazione e della rispondenza ai motivi limitati di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3. e, nel contempo, sulla base della rispondenza all’in quod plerumque accidit che quanto si riesce a sintetizzare è frutto di meditazione, mette la Corte di cassazione in grado di occuparsi dei ricorsi che verosimilmente rispondano al modello legale del giudizio di legittimità e, quindi, meritino l’accesso ad esso.

Questa constatazione evidenzia che si è in presenza di un formalismo che non risulta fine a se stesso e che non appare mortificare la garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale, di cui all’art. 24 Cost.. Orbene, i due quesiti sopra riportati, all’evidenza, non rispondono affatto agli evidenziati requisiti, in quanto non consentono l’identificazione degli elementi costitutivi della fattispecie cui dovrebbero essere applicate specifiche regulae iuris che, a loro volta, non vengono indicate, ma, soprattutto, non contengono alcun riferimento alle singole ragioni dell’impianto motivazionale della sentenza impugnata e non consentono d’evincere le difformi ragioni per le quali ciascuna delle argomentazioni poste dal giudice a quo a fondamento dell’adottata statuizione sarebbe tale da dar luogo alla denunziata violazione della norma indicata nell’intestazione del secondo motivo e di quelle neppure indicate quanto al primo motivo, id est la discrasia tra le rationes decidendi della sentenza impugnata ed i vari difformi principi di diritto che dovrebbero essere enunziati da questa Corte e posti a fondamento d’una decisione diversa e rispondente agli intenti del ricorrente.

In definitiva, sono inammissibili gli esaminati motivi, la formulazione dei quali e la redazione dei cui quesiti, ponendosi in violazione di quanto prescritto dal citato art. 366-bis, si risolve, sostanzialmente, in un’omessa proposizione dei quesiti medesimi, stante la loro inidoneità a chiarire i vizi di motivazione e gli errori di diritto imputati alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie. Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile; parte intimata non avendo svolto difese, il ricorrente evita le conseguenze della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2011

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