Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8277 del 24/03/2021

Cassazione civile sez. II, 24/03/2021, (ud. 22/09/2020, dep. 24/03/2021), n.8277

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24132/2019 proposto da:

O.K., rappresentato e difeso dall’Avvocato MANUELA AGNITELLI,

presso il cui studio a Roma, viale Mazzini 6, elettivamente

domicilia, per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi

12 domicilia per legge;

– controricorrente –

avverso il DECRETO n. 5354/2019 del TRIBUNALE DI MILANO, depositato

il 23/6/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 22/9/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Milano, con il decreto in epigrafe, ha respinto il ricorso con il quale O.K., nato in (OMISSIS), aveva impugnato il provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale da lui presentata.

O.K., con ricorso notificato in data 24/7/2019, ha chiesto, per quattro motivi, la cassazione del decreto, dichiaratamente comunicato il 26/6/2019.

Il ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2 e art. 11, lett. e) ed f), in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 e l’illogica, contraddittoria ed apparente motivazione, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato sul rilievo che il richiedente non fosse credibile e che la vicenda narrata esula dalla fattispecie e non consente di pronosticare un rischio di persecuzione in caso di rimpatrio.

1.2. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, il tribunale non ha adempiuto al dovere di valutare la domanda di protezione internazionale secondo i criteri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3. Il richiedente, infatti, nel suo racconto, ha fatto emergere, con precisione e coerenza, la composizione della sua famiglia, il contesto spazio-temporale dei fatti e i motivi della sua fuga, compiendo ogni ragionevole sforzo per circostanziare, nel rispetto dei criteri previsti dall’art. 3 cit., la domanda di protezione.

1.3. Nel giudizio di protezione internazionale, del resto, non trovano applicazione le norme processuali ordinarie, essendovi in capo al richiedente un onere probatorio attenuato.

1.4. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. c), e art. 3, comma 3, lett. a), artt. 2, 3, 5, 8 e 9 CEDU e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha rigettato la domanda di protezione sussidiaria non avendo ravvisato nè l’esistenza di un danno grave, nè l’impossibilità di ricevere protezione dalle autorità statali.

1.5. Il tribunale, però, ha osservato il ricorrente, così facendo, ha palesemente violato l’art. 14, comma 1, lett. b), avendo rigettato la domanda senza procedere ad alcuna valutazione circa la sussistenza o meno del grave danno che lo straniero richiedente rischia effettivamente di ricevere nel suo Paese per effetto di tortura o di altra forma di pena o trattamento inumano o degradante.

1.6. Peraltro, ha aggiunto il ricorrente, il giudice, a norma del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1 bis, deve acquisire, anche d’ufficio, le informazioni relative alla situazione del Paese d’origine ed alla specifica situazione del richiedente che ritiene necessarie ad integrazione del quadro probatorio prospettato da quest’ultimo.

1.7. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la

violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 3, lett. a) e b) e degli artt. 3 e 7 CEDU, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha rigettato la domanda di protezione sussidiaria ritenendo che in Nigeria non sussista una situazione di pericolo generalizzato.

1.8. Il tribunale, però, ha osservato il richiedente, così facendo, non ha svolto una valutazione sullo stato effettivo ed attuale del Paese d’origine, operando, piuttosto, un arbitrario e contraddittorio giudizio prognostico, futuro ed incerto, in violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3. In base a tale norma, infatti, la domanda di protezione di protezione internazionale dev’essere valutata avendo riguardo, tra l’altro, alle vicende politiche del paese d’origine al momento della decisione.

1.9. Il tribunale, invece, non ha ritenuto sufficiente, al fine di concedere la protezione sussidiaria, nè la vicenda rappresentata dal richiedente, vale a dire il timore di essere ucciso dalla famiglia della sua ragazza, nè la criticità della situazione sociopolitica esistente in Nigeria al momento della decisione in merito alla domanda.

2.1. I motivi, da trattare congiuntamente, sono infondati.

2.2. In tema di protezione internazionale, infatti, l’accertamento del giudice del merito deve avere, anzitutto, ad oggetto la credibilità soggettiva del richiedente il quale, infatti, ha l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (cfr. Cass. n. 27503 del 2018).

In materia di protezione internazionale, in effetti, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, ed, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora lo stesso, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. n. 8367 del 2020, in motiv.; Cass. n. 15794 del 2019; conf., Cass. n. 19197 del 2015).

La valutazione d’inattendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente costituisce, peraltro, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (Cass. n. 27503 del 2018) che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata.

2.3. Nel caso di specie, il tribunale ha ritenuto che il racconto del ricorrente non sia credibile, risultando inverosimile il racconto svolto dallo stesso in ordine ai motivi per i quali ha lasciato il proprio Paese posto che dalle dichiarazioni rese al riguardo emergono contraddizioni intrinseche in relazione ad aspetti centrali della vicenda e contraddizioni con quanto poi riferito in ricorso, traendone la conclusione che, in tale situazione, non è rinvenibile alcun rischio in caso di rimpatrio.

Ora, a fronte di tale apprezzamento, il ricorrente non ha specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame, seppur dedotti in giudizio, sia stato omesso dal giudice di merito, nè la loro decisività ai fini di una diversa pronuncia a lui favorevole, limitandosi, piuttosto, a sollecitare una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. La valutazione delle prove raccolte, in effetti, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.).

Ed è, peraltro, noto che l’inattendibilità del racconto del richiedente, così come (oramai incontestabilmente) accertata dai giudici di merito, costituisce motivo sufficiente per negare tanto il riconoscimento dello status di rifugiato, quanto la concessione della protezione sussidiaria dallo stesso invocata ai sensi del cit. D.Lgs. n. 251, art. 14, lett. a) e b).

2.4. Il tribunale, del resto, ha rilevato che il richiedente, ove mai ritenuto credibile, non ha prospettato, nel suo racconto, alcun atto riconducibile alla fattispecie legale di persecuzione così come delineata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, avendo narrato di atti dai quali non è desumibile nè la frequenza nè la gravità e che non sono stati posti in essere dallo Stato o da partiti o organizzazioni che controllano lo Stato o la gran parte del suo territorio ovvero da soggetti non statuali ove i responsabili dello Stato non possano o non vogliano fornire protezioni, come invece imposto dal cit. D.Lgs. n. 251, art. 5, ed, in ogni caso, per ragioni non riconducibili ai motivi di razza, religione, nazionalità o appartenenza ad un particolare gruppo sociale od opinione politica, come previsto dal D.Lgs. n. 251 cit., art. 8.

In effetti, il requisito essenziale per il riconoscimento dello status di rifugiato è il fondato timore di persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine del richiedente a causa della razza, della religione o della nazionalità dello stesso o per la sua appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate (Cass. n. 18353 del 2006). Le liti tra privati per ragioni proprietarie o – come quella narrata dal richiedente – familiari, del resto, non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi ma con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b), (Cass. n. 9043 del 2019; Cass. n. 8367 del 2020, in motiv.).

2.5. Il tribunale, inoltre, ha ritenuto che non sia ravvisabile il rischio per il richiedente di subire in caso di rimpatrio nel Paese d’origine un danno grave ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), vale a dire la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violazione indiscriminata in situazione di conflitto armato interno o internazionale.

In effetti, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, va accertata in conformità della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), secondo cui il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria: il grado di violenza indiscriminata deve aver, pertanto, raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019).

La decisione impugnata, a seguito di un accertamento in fatto che non è stato oggetto di una specifica censura per il mancato esame di uno o più fatti decisivi, ha escluso la sussistenza di tale eventualità. Il tribunale, infatti, ha ritenuto che, alla luce delle informazioni aggiornate, la situazione generale della Nigeria, con particolare riguardo alla zona di Benin City, e cioè dell’Edo State, non presenta una situazione di violenza generalizzata e che, nella zona di rimpatrio del richiedente, non vi è alcun conflitto armato.

2.6. Nè, infine, rileva l’invocata violazione del dovere di cooperazione istruttoria da parte del tribunale. In materia di protezione internazionale, infatti, ove le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità (nella specie neppure prospettata) di fornire riscontri probatori (Cass. n. 16925 del 2018; Cass. n. 8367 del 2020). Il dovere di cooperazione istruttoria, piuttosto, sussiste solo se reso possibile dal positivo vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati dalla norma ma non anche di supplire a deficienze probatorie concernenti la situazione personale del richiedente, essendo necessaria al riguardo soltanto la verifica di credibilità prevista nel suo complesso dell’art. 3 cit., comma 5.

In ogni caso, come questa Corte ha affermato (cfr. le ordinanze n. 13449 del 2019, n. 13450 del 2019, n. 13451 del 2019 e n. 13452 del 2019), il giudice di merito, nel fare riferimento alle cd. fonti privilegiate di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 81, comma 3, deve indicare la fonte in concreto utilizzata nonchè il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione. Nel caso di specie, la decisione impugnata soddisfa i suindicati requisiti, posto che la stessa ha indicato la fonte in concreto utilizzata ed il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da detta fonte.

Il ricorrente, d’altra parte, non ha adempiuto all’onere di indicare in modo specifico gli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, con il preciso richiamo, anche testuale, alle fonti di prova proposte, alternative o successive rispetto a quelle utilizzate dal giudice di merito (cfr. Cass. n. 26728 del 2019), e tali da far ritenere che, nella zona di provenienza del richiedente, per un conflitto armato interno tra le forze governative e uno o più gruppi armati ovvero tra due o più gruppi armati, sussista un grado di violenza indiscriminata di livello talmente elevato che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, il rischio effettivo di subirne la conseguente minaccia.

3.1. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione del comb. disp. di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. c) e comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’illogica, contraddittoria ed apparente motivazione, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta dal richiedente limitandosi a rilevare la mancata allegazione della sua integrazione sociale.

3.2. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, il tribunale non ha provveduto ad alcun esame, specifico ed attuale, della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente, con riferimento al Paese d’origine, in comparazione con la sua integrazione e le condizioni di vita in Italia, al fine di verificare se il suo rimpatrio possa privarlo dell’esercizio dei suoi diritti umani essenziali.

3.3. Il richiedente, infatti, è stato costretto a scappare dal suo Paese per il timore di essere ucciso dai familiari della sua ragazza, ha percorso vari Stati, tra cui la Libia, e, dopo un rischioso viaggio in mare, una volta giunto in Italia, ha iniziato da subito ad intraprendere diverse attività lavorative. Il suo rientro nel suo Paese lo esporrebbe, quindi, ad un immediato pericolo della propria incolumità personale.

4.1. Il motivo è infondato.

4.2. La protezione umanitaria è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. 5358 del 2019; Cass. n. 23604 del 2017).

I seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, prima dell’intervento attuato con il D.L. n. 113 del 2018, erano accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass. n. 4455 del 2018).

4.3. Nel caso di specie, il tribunale ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta dal ricorrente rilevando, in sostanza, che il richiedente non aveva dedotto la sussistenza di specifiche situazioni di vulnerabilità personale che potessero giustificare la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Il ricorrente, dal suo canto, non ha censurato tale statuizione (d’inammissibilità, in parte qua, della domanda) riproducendo, in ricorso, le parti della domanda di protezione in cui aveva, ad onta di quanto ritenuto dal tribunale, dedotto i fatti costitutivi, nei termini in precedenza esposti, del diritto di asilo azionato.

4.4. D’altra parte, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (applicabile ratione temporis: cfr. Cass. SU n. 29459 del 2019), al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018).

Tale comparazione presuppone, pertanto, un livello d’integrazione sociale nel Paese di accoglienza che, nella specie, il tribunale non ha ravvisato, in difetto di qualsiasi altro elemento di valutazione, che il ricorrente non dimostra di aver dedotto in giudizio (Cass. n. 8367 del 2020).

5. I motivi articolati in ricorso si rivelano, quindi, del tutto infondati. Peraltro, poichè il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, è manifestamente inammissibile.

4. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

5. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al ministero dell’interno le spese di lite, che liquida in Euro 2.100,00 per compenso, oltre spese prenotate a debito; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2021

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