Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8275 del 12/04/2011

Cassazione civile sez. VI, 12/04/2011, (ud. 25/02/2011, dep. 12/04/2011), n.8275

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Luigi – Presidente –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – rel. Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 8136/2010 proposto da:

G.E., G.A. (OMISSIS), O.

L. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE

MAZZINI 120, presso lo studio dell’avvocato FRUGONI CARLO INNOCENZO,

rappresentati e difesi dall’avvocato COMIS Sebastiano, giusta procura

a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

O.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PASUBIO 4,

presso lo studio dell’avvocato DE SANCIIS MANGELLI Simonetta, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BARNA AURELIA, giusta

mandato in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 589/2009 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE del

27.10.09, depositata il 26/11/2009;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/02/2011 dal Consigliere Relatore Dott. EMILIO MIGLIUCCI.

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. CARMELO

SGROI.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Che avverso la decisione indicata in epigrafe hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi G.A., O. L. ed G.E..

Ha resistito l’intimato.

Nominato, ai sensi dell’art. 377 cod. proc. civ., il Consigliere relatore ha depositato la relazione di cui all’art. 380 bis cod. proc. civ., ritenendo che il ricorso fosse da rigettare per manifesta infondatezza.

I ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.

Diritto

OSSERVA IN DIRITTO

Nella relazione depositata ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., si legge quanto segue:

“1. La Corte di appello di Trento rigettava l’impugnazione avverso la sentenza del Tribunale di Pordenone con cui era stata respinta la domanda diretta alla tutela del compossesso della strada campestre proposta dai comproprietari G.A., O.L. ed G.E. nei confronti del comproprietario O.R. che aveva apposto un cancello.

Hanno proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi G.A., O.L. ed G.E..

Ha resistito l’intimato.

2. Il ricorso può essere trattato in Camera di consiglio ai sensi degli artt. 376, 380 bis e 375 cod. proc. civ., essendo manifestamente infondato.

Il primo motivo lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 922, 1100 e 2697, 2727 e 2729 cod. civ., nonchè omessa motivazione, censura la mancata applicazione dell’istituto della collatio agrorum privatorum laddove la sentenza impugnata aveva ritenuto che gli attori avrebbero dovuto rivendicare la comproprietà del mappale in questione: in tal modo non aveva dato rilevanza alle prove offerte e non aveva motivato in ordine al diritto o meno di un condomino di sbarrare la strada.

Il secondo motivo, lamentando falsa applicazione degli artt. 1064 e 841 cod. civ., deduce che, anche nell’ipotesi subordinata in cui i ricorrenti godessero soltanto del diritto di servitù di passaggio, illegittima sarebbe stata l’apposizione del cancello, posto che la chiusura del fondo sarebbe avvenuta non per impedire l’accesso a estranei ma per contenere il bestiame al pascolo.

I motivi, essendo strettamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

Le censure sono infondate, tenuto conto che ai sensi dell’art. 360 bis cod. proc. civ., n. 1), introdotto dalla L. n. 69 del 2009, ratione temporis applicabile, il ricorso è da ritenersi infondato quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa.

Ed invero, premesso che in sede possessoria rileva la situazione di fatto e non la titolarità del diritto corrispondente, i motivi del ricorso non colgono la ratto decidendi della sentenza impugnata la quale non ha certo escluso che i ricorrenti fossero comproprietari- compossessori della strada e che a tale titolo avevano agito ma anzi – nel ritenere lecita la installazione del cancello perchè lo stesso non impediva od ostacolava il passaggio sulla strada – ha dato per presupposto che i ricorrenti legittimamente esercitavano il passaggio oggetto della richiesta tutela, così implicitamente riconoscendolo.

In realtà, come si è accennato, la domanda di rimozione è stata respinta sull’assorbente e motivato accertamento che il cancello in questione poteva essere aperto con una semplice spinta, dovendo qui ricordarsi l’orientamento consolidato della S.C. secondo cui in tema di tutela possessoria, non ogni modifica apportata da un terzo alla situazione oggettiva in cui si sostanzia il possesso costituisce spoglio o turbativa, essendo sempre necessario che tale modifica comprometta in modo giuridicamente apprezzabile l’esercizio del possesso (Cass. 11036/2003; 1743/2005) e, in particolare che l’apposizione di un cancello di agevole apertura, non configura spoglio o molestia ma costituisce un atto lecito rientrante nelle facoltà dei compossessori (Cass. 154/1994; 3831/1985), dovendo al riguardo ritenersi del tutto irrilevanti le ragioni soggettive che abbiano spinto il resistente alla collocazione del cancello:

decisiva, dunque, è stata la verifica, che peraltro rientra nell’indagine di fatto riservata al giudice di merito, che il cancello non apportava apprezzabile menomazione del passaggio esercitato dai ricorrenti.

I rilievi formulati con il secondo motivo sono assorbiti, tenuto conto che, per quel che si è detto, la sentenza impugnata non ha preso in considerazione l’ipotesi che il possesso fosse esercitato dagli attori a titolo di servitù, per cui in ogni caso è inconferente il richiamo agli artt. 1064 e 841 cod. civ..

Il terzo motivo lamenta la violazione della tariffa forense di cui al D.M. n. 127 del 2004, tenuto conto che la liquidazione dei diritti e degli onorari era superiore a quella prevista per le cause di valore pari a Euro 1000,00 che era quello preso in considerazione dal tribunale e che, non essendo stata oggetto di contestazione da parte dell’appellato, doveva ritenersi coperto dalla cosa giudicata.

Il motivo va disatteso.

La mancata impugnazione della liquidazione compiuta dal tribunale certamente non comportava la formazione del giudicato sul valore della causa che – soltanto incidentalmente delibato per determinare i compensi – non ha costituito oggetto del thema decidendum dibattuto dalle parti: pertanto, quel valore non poteva vincolare il giudice di secondo grado che ha regolato le spese attenendosi alle tariffe forensi”.

Vanno condivise le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione, anche se la stessa va rettificata e integrata laddove non ha esaminato il terzo motivo confondendolo con il quarto.

Il terzo motivo, lamentando la violazione delle norme di cui agli artt. 1362, 1363 e 1366 cod. civ., censura la sentenza laddove aveva ritenuto che il cancello apposto dal convenuto si apre con una spinta, essendo tale convincimento derivato da una errata interpretazione, posto che il convenuto aveva dichiarato di avere chiesto l’autorizzazione alla posa di un cancello con catenaccio e nella comparsa di costituzione aveva confermato che per l’apertura del cancello occorre un chiavistello, ovvero un catenaccio, tant’è vero che se bastasse una spinta per aprirlo non ostacolerebbe neppure il passaggio degli animali, mentre essi ricorrenti avevano fatto presente che per aprire il cancello è necessario bloccare il veicolo aprire il cancello e oltrepassarlo.

Il motivo va disatteso.

La sentenza, nel verificare che il cancello poteva essere aperto con una semplice spinta, ha posto a base del suo convincimento le risultanze delle fotografie esibite: trattasi di un tipico accertamento di fatto riservato all’indagine del giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione che nella specie non è stato neppure dedotto, dovendosi peraltro considerare che il vizio deducibile ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, deve consistere in un errore intrinseco al ragionamento del giudice che deve essere verificato in base al solo esame del contenuto del provvedimento impugnato e non può risolversi nella denuncia della difformità della valutazione delle risultanze processuali compiuta dal giudice di merito rispetto a quella a cui, secondo il ricorrente, si sarebbe dovuti pervenire: in sostanza, ai sensi dell’art. 360 n. 5 citato, la (dedotta) erroneità della decisione non può basarsi su una ricostruzione soggettiva del fatto che il ricorrente formuli procedendo a una diversa lettura del materiale probatorio, atteso che tale indagine rientra nell’ambito degli accertamenti riservati al giudice di merito ed è sottratta al controllo di legittimità della Cassazione che non può esaminare e valutare gli atti processuali ai quali non ha accesso, ad eccezione che per gli errores in procedendo (solo in tal caso la Corte è anche giudice del fatto). In caso contrario, infatti, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. 67394/2010).

Non possono condividersi i rilievi formulati dai ricorrenti con la memoria illustrativa, dovendosi al riguardo precisare che innanzitutto la sentenza, nel riconoscere il compossesso agli attori, non lo ha certo limitato all’esercizio corrispondente al diritto di passaggio anzichè a quello di comproprietà, dovendo peraltro osservarsi – in relazione ai poteri spettanti ai sensi dell’art. 1102 cod. civ. al comunista – che in tema di comunione ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un’utilità maggiore e più intensa di quella tratta eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purchè non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso, e senza che tale uso più intenso sconfini nell’esercizio di una vera e propria servitù (Cass. 22341/2009; 5753/2007; 972/2006; 8830/2003). Ed invero nella specie la sentenza, avendo ritenuto che il cancello poteva essere aperto con una semplice spinta, ha evidentemente escluso che fosse intervenuta una modifica del godimento tale da alterare la destinazione della cosa comune e impedire il pari uso agli altri: i precedenti citati dai ricorrenti sono pertanto inconferenti. Per quel che concerne il quarto motivo vanno ribadite le considerazioni formulate dal relatore con riferimento a quello che nella relazione erroneamente era stato indicato come terzo motivo, dovendo escludersi la formazione del giudicato che è configuratale a proposito di quelle statuizioni con cui è stato o meno attribuito il bene della vita oggetto della domanda: intanto, può parlarsi di efficacia vincolante della pronuncia sul valore della controversia, anche relativamente alle spese processuali, in quanto lo stesso risulti dall’accertamento compiuto dal giudice in sede di decisione della domanda.

Pertanto, il ricorso va rigettato, essendo la sentenza conforme ai precedenti di legittimità . Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2.000,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2011

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