Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8268 del 07/04/2010

Cassazione civile sez. II, 07/04/2010, (ud. 10/12/2009, dep. 07/04/2010), n.8268

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.T., rappresentata e difesa, per procura speciale

notarile in atti, dall’Avvocato Crisci Lucio, elettivamente

domiciliata in Roma, via Nicastro n. 3, presso lo studio

dell’Avvocato Carlo Voccia;

– ricorrente –

contro

S.G., rappresentata e difesa, per procura a margine del

controricorso, dall’Avvocato De Vincentis Giuseppe, elettivamente

domiciliata in Roma, via Valadier n. 4, presso lo studio

dell’Avvocato Giovanni Romano;

– controricorrente –

e nei confronti di:

S.A.;

S.M., quale tutrice di S.U.; S.M.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 3324/05,

depositata in data 1 dicembre 2005.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10

dicembre 2009 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;

sentito, per la ricorrente, l’Avvocato Lucio Rodolfo Crisci, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

sentito, per la resistente, l’Avvocato Giuseppe De Vincentis, che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

LECCISI Giampaolo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza depositata in data 1 dicembre 2005, ha rigettato l’appello proposto da F.T. avverso la sentenza del Tribunale di Benevento che aveva dichiarato aperta la successione ab intestato di Sa.Es., deceduta il (OMISSIS), e di S.A.P., deceduto il (OMISSIS); ha dichiarato esecutivo il progetto di divisione predisposto dal CTU; ha ordinato il pagamento delle somme di denaro, come determinate dal CTU, da parte dei coeredi F.T. e S.A., per quanto di rispettiva spettanza, a favore degli altri coeredi aventi diritto, trattenendo le quote ad esse attribuite. Con la medesima sentenza, la Corte d’appello ha altresi dichiarato inammissibile l’appello incidentale di S.G..

Per quanto in questa sede rileva, e precisamente con riferimento al capo di sentenza relativo alle somme di cui a 17 buoni fruttiferi postali del complessivo importo di L. 78.000.000, cointestati al de cuius S.A.P. e a F.T. – che, ad avviso di quest’ultima, erroneamente non erano stati esclusi dalla massa ereditaria del S. o quanto meno non lo erano stati nella misura del 50% -, la Corte d’appello ha osservato che se è vero che la dichiarazione di successione, nella quale detti buoni fruttiferi erano stati indicati come appartenenti al de cuius, non poteva avere il valore di confessione stragiudiziale, tuttavia la stessa poteva formare oggetto di libera valutazione da parte del giudice ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ. E la valenza indiziaria della dichiarazione emergeva da due considerazioni esattamente svolte dal Tribunale: la prima, relativa al fatto che la F. aveva attribuito per intero al de cuius le somme portate dai buoni fruttiferi, pur comportando ciò una maggiore imposizione fiscale; la seconda, concernente la mancata rettifica della dichiarazione per il caso in cui la stessa fosse stata erroneamente effettuata.

Del resto, osservava la Corte, dagli atti non erano emersi elementi di prova idonei a ritenere che quella somma appartenesse in tutto o in parte alla F., quale ad esempio la percezione di redditi da parte di quest’ultima. Sulla base di questi rilievi, nonchè del comportamento processuale della F., che pur avendo incidentalmente affermato che la firma apposta in calce alla dichiarazione di successione era apocrifa, non aveva provveduto a disconoscerla, la Corte territoriale riteneva superata la presunzione di cui all’art. 1298 c.c., comma 2.

Per la cassazione di questa sentenza, ha proposto ricorso F. T. sulla base di un unico motivo.

Attivatasi la procedura per la trattazione del ricorso in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., con ordinanza emessa all’udienza del 31 gennaio 2008, questa Corte ha disposto la rinnovazione della notificazione a S.G.. Espletato l’incombente, l’intimata ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ., art. 809 c.c. e art. 1298 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

La ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello, dopo aver riconosciuto che alla dichiarazione di successione non poteva essere attribuito il valore di confessione stragiudiziale, ha poi basato la propria decisione essenzialmente su detta dichiarazione di successione, in tal modo, peraltro, dando luogo non ad un’acquisizione di prova stabilmente ancorata al processo, ma alla libera creazione e valutazione di una prova. Il giudice di merito ha quindi proceduto illegittimamente alla inclusione dei buoni postali fruttiferi nella massa ereditaria di S.A.P., indebitamente arricchendo la detta massa e negando, di contro, ad essa ricorrente la proprietà esclusiva sui buoni postali, che costituiscono meri titoli di legittimazione e non anche titoli di credito. Del resto, proprio perchè si trattava di titoli di legittimazione, non trasferibili agli eredi del cointestatario deceduto, essa ricorrente aveva potuto riscuoterli, del tutto legittimante, nella loro interezza: per effetto della cointestazione, infatti, quei buoni erano stati trasmessi all’altro cointestatario, a titolo di donazione indiretta.

Sotto altro profilo, la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che la mera intestazione del buono, costituente titolo di legittimazione, potesse integrare la prova dell’appartenenza al soggetto cointestatario delle somme in esso indicate. In tal modo, la Corte d’appello ha sottratto alla F. somme che erano state oggetto di donazione indiretta e ha accresciuto la massa ereditaria, in violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. e art. 809 cod. civ., incorrendo altresì in incongruenza e illogicità.

In ogni caso, osserva la ricorrente, la Corte ha errato a considerare fonte di prova la dichiarazione di successione, giacchè questa, se non poteva avere valore di confessione stragiudiziale, in quanto non fatta nei confronti degli eredi, avrebbe dovuto essere esclusa dal processo. Al contrario, su tale dichiarazione la Corte ha fondato il proprio convincimento.

Il ricorso è infondato e va rigettato.

Occorre in proposito premettere che “l’art. 116 c.p.c., comma 1 consacra il principio del libero convincimento del giudice, al cui prudente apprezzamento – salvo alcune specifiche ipotesi di prova legale – è pertanto rimessa la valutazione globale delle risultanze processuali, essendo egli peraltro tenuto ad indicare gli elementi sui quali si fonda il suo convincimento nonchè l’iter seguito per addivenire alle raggiunte conclusioni, ben potendo al riguardo disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata; e tale apprezzamento è insindacabile in cassazione in presenza di congrua motivazione, immune da vizi logici e giuridici” (Cass., n. 12912 del 2004; Cass., n. 13441 del 2004)). Peraltro, “poichè l’art. 116 cod. proc. civ. prescrive come regola di valutazione delle prove quella secondo cui il giudice deve valutarle secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti, la sua violazione e, quindi, la deduzione in sede di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 4 è concepibile solo: a) se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure che il legislatore prevede per una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale); b) se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso (oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi). La circostanza che il giudice, invece, abbia male esercitato il prudente apprezzamento della prova è censurabile solo ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5” (Cass., n. 26965 del 2007; Cass., n. 20112 del 2009).

Ciò premesso, occorre rilevare che l’unico motivo nel quale si articola il ricorso muove da una premessa – quella che la Corte d’appello avrebbe fondato la propria decisione unicamente sulla dichiarazione di successione, pur avendo in linea di principio escluso che la stessa potesse avere efficacia di confessione stragiudiziale – erroneo, in quanto non tiene conto delle articolate argomentazioni sulla base delle quali l’appello è stato rigettato.

La Corte d’appello ha infatti ritenuto che la dichiarazione di successione, della quale era stato e-scluso il valore di confessione stragiudiziale, avesse comunque una sua valenza indiziaria, desumibile da due rilievi: a) il fatto che la ricorrente abbia attribuito per intero al de cuius le somme portate dai buoni fruttiferi, pur comportando ciò una maggiore imposizione fiscale; b) il fatto che la ricorrente, anche a volere ipotizzare che la dichiarazione fosse affetta da errore, non abbia provveduto a rettificarla.

A ciò la Corte d’appello ha aggiunto, che “dagli atti non sono emersi elementi di prova idonei a far ritenere che quella somma appartenesse in tutto o in parte alla appellante quale ad esempio la percezione di redditi da parte di quest’ultima”. La Corte ha poi tenuto conto del comportamento processuale della ricorrente, la quale, pur avendo nell’atto di appello, incidentalmente affermato che la firma apposta in calce alla dichiarazione era apocrifa, non ha poi provveduto a disconoscerla.

Quanto alla circostanza, valorizzata dall’appellante, che ella aveva riscosso l’intero importo dei buoni postali fruttiferi, la Corte ha comunque rilevato che tale circostanza non era idonea a provare che ella ne fosse la proprietaria, essendo sufficiente la contestazione dei buoni a legittimare la riscossione dell’intero.

Sulla scorta di tutti tali elementi, quindi, la Corte d’appello, lungi dall’attribuire efficacia probatoria diretta alla dichiarazione di successione, ha ricostruito la vicenda nel senso che doveva ritenersi superata la presunzione di cui all’art. 1298 cod. civ., comma 2.

A fronte di tali articolate argomentazioni, le censure della ricorrente non appaiono idonee ad evidenziare la denunciata violazione di legge. Quanto alla violazione dell’art. 809 cod. civ., denunciata sul rilievo che la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto che la proprietà dei buoni era stata trasmessa ad essa ricorrente a titolo di donazione indiretta, ai sensi dell’art. 809 cod. civ., deve rilevarsi che la deduzione risulta nuova. La Corte dr appello, infatti, non ha affrontato la questione della configurabilità della cointestazione dei buoni fruttiferi in termini di donazione indiretta e dalla ricognizione delle censure proposte in appello, come contenuta nel ricorso per cassazione, non vi è traccia di una simile deduzione. E’ evidente quindi che la questione o non è stata devoluta al giudice di appello, ovvero, ove fosse stata evoluta, avrebbe dovuto essere censurata per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ..

Quanto, invece, alla denunciata violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., appare evidente come, alla luce dei principi enunciati da questa Corte sul punto, la violazione non sia nel caso di specie configurabile , nel senso che la Corte d’appello non ha attribuito efficacia probatoria privilegiata a mezzi di prova che ne erano privi, ma si è limitata a svolgere un ragionamento presuntivo, sorretto da motivazione coerente ed esaustiva, all’esito del quale ha escluso che potesse ritenersi operante, nel caso di specie, la presunzione di cui al citato art. 1298 c.c., comma 2. In proposito, si deve ricordare, secondo la giurisprudenza di questa Corte, da un lato, che “la cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art. 1854 cod. civ.) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto (art. 1298 c.c., comma 2), ma tale presunzione da luogo soltanto all’inversione dell’onere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici – purchè gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa” (Cass., n. 28839 del 2008); dall’altro, che “in tema di valutazione delle prove, nel nostro ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non esiste una gerarchia di efficacia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori, essendo rimessa la valutazione delle prove al prudente apprezzamento del giudice. Da ciò consegue che il convincimento del giudice sulla verità di un fatto può basarsi anche su una presunzione, eventualmente in contrasto con altre prove acquisite, se da lui ritenuta di tale precisione e gravita da rendere inattendibili gli altri elementi di giudizio ad esso contrari, alla sola condizione che fornisca del convincimento cosi attinto una giustificazione adeguata e logicamente non contraddittoria” (Cass., n. 9245 del 2007).

Esclusa, dunque, la denunciata violazione di legge, deve rilevarsi che la prospettazione della ricorrente sembra risolversi in una censura all’apprezzamento delle risultanze istruttorie, adeguatamente e logicamente valutate dal giudice del merito, e quindi in una censura che ove volesse ritenersi che sia stata implicitamente proposta (la ricorrente non ha infatti formulato la censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5), risulterebbe inammissibile in sede di legittimità.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte suprema di Cassazione, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2010

 

 

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