Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8262 del 28/04/2020

Cassazione civile sez. lav., 28/04/2020, (ud. 15/01/2020, dep. 28/04/2020), n.8262

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17535/2016 proposto da:

TELECOM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE

FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCO RAIMONDO

BOCCIA, ENZO MORRICO e ROBERTO ROMEI;

– ricorrente –

contro

T.D., C.P., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA CRESCENZIO 58, presso lo studio dell’avvocato BRUNO COSSU, che

li rappresenta e difende unitamente agli avvocati SAVINA BOMBOI e

ALBERTO PICCININI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1161/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 10/02/2016″ R.G.N. 986/2014.

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza in data 10 febbraio 2016, la Corte d’appello di Bologna rigettava l’appello proposto da Telecom Italia s.p.a. avverso la sentenza di primo grado, di reiezione delle sue opposizioni ai decreti dello stesso Tribunale che le aveva ingiunto il pagamento delle rispettive somme di Euro 14.355,76 e di Euro 12.953,94 oltre accessori di legge, in favore degli ex dipendenti T.D. e C.P. per retribuzioni calcolate dal 6 aprile al 30 settembre 2012, sul presupposto dell’illegittimità del trasferimento del ramo di azienda dalla predetta società a Hewlett Packard Distributed Computing Service (HP – DCS) s.r.l., accertata dalla sentenza n. 129/2012 della medesima Corte, che l’aveva pure condannata alla reintegrazione dei lavoratori; in parziale riforma della sentenza del Tribunale, essa revocava invece, in accoglimento delle opposizioni della società cedente, i decreti ingiuntivi emessi dallo stesso Tribunale (per le rispettive somme di Euro 11.159,00 ciascuna) in favore di U.A.M. e D.G.D.;

avverso tale sentenza la società, con atto notificato il 25 luglio 2016, ricorreva per cassazione con tre motivi, cui T.D. e C.P. resistevano con unico controricorso e memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 431,282 c.p.c., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto titolo idoneo all’emissione dei decreti ingiuntivi opposti la sentenza 8 marzo 2012 della stessa Corte d’appello, in quanto priva di esecutività in via provvisoria fino alla formazione del giudicato (con sentenza della Corte di Cassazione 31 luglio 2015, n. 16262), siccome non di condanna ma di mero accertamento dell’illegittimità della cessione di ramo d’azienda da Telecom Italia s.p.a. a HP – DCS s.r.l., con ordine di ripristino del rapporto con i due lavoratori, sempre rimasto nella titolarità datoriale della società cedente: con la conseguente inesistenza di alcun obbligo, prima del giudicato, di ripristino del rapporto di lavoro e pertanto di pagamento delle retribuzioni ovvero di insorgenza di una responsabilità per risarcimento del danno (primo motivo);

2. esso è infondato;

2.1. secondo consolidato orientamento, meritevole di continuità in quanto condiviso per la sua correttezza, questa Corte reputa che, prima ancora del passaggio in giudicato, qualsiasi pronuncia giurisdizionale sia dotata di propria autorità, dato che la sentenza esplica un’efficacia di accertamento al di fuori del processo. Sicchè, la stabilità della sentenza impugnata, anche se provvisoria, costituisce naturale proprietà dell’atto giurisdizionale, che esprime la volontà della legge nel caso concreto, e con questa l’esigenza di una sua immediata, pur se temporanea, attuazione, nell’attesa del formarsi del giudicato e indipendentemente da questo (da ultimo: Cass. 25 giugno 2018, n. 16694; Cass. 3 luglio 2019, n. 17785). Nè a ciò osta l’eventuale contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi, in gradi differenti, dei procedimenti di accertamento del diritto e del quantum conseguente, posto che tra essi sussiste solo un rapporto di pregiudizialità in senso logico, e non anche in senso tecnico-giuridico, sicchè non ricorre un’ipotesi di sospensione necessaria, ai sensi dell’art. 295 c.p.c.: essendo eventualmente applicabile l’art. 337 c.p.c., comma 2 (di sospensione facoltativa, come si desume dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo riveste l’art. 282 c.p.c., poichè il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso rispetto allo stato iniziale della lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado: Cass. 3 novembre 2017, n. 26251; Cass. 4 gennaio 2019, n. 80), che, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, ne prevede soltanto la possibilità di sospensione facoltativa, con esclusione del rischio di un conflitto di giudicati in quanto, a norma dell’art. 336 c.p.c., comma 2, la riforma o la cassazione della sentenza sull’an debeatur determina l’automatica caducazione di quella sul quantum (Cass. s.u. 26 luglio 2004, n. 14060; Cass. 21 febbraio 2017, n. 4442);

3. la ricorrente deduce poi nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte territoriale, nell’inosservanza del principio di corrispondenza del chiesto al pronunciato, accertato il diritto ad un risarcimento del danno dei lavoratori, che avevano invece richiesto (tanto nel ricorso in via monitoria, tanto nelle memorie difensive nei giudizi di opposizione in primo grado e di appello) la condanna della datrice cedente il ramo d’azienda al pagamento delle retribuzioni maturate nello stesso periodo dal 6 aprile al 30 settembre 2012 (secondo motivo);

4. essa deduce quindi nullità per violazione e falsa applicazione dell’art. 2118 c.c., L. n. 153 del 1969, art. 22, comma 1, lett. c), L. n. 503 del 1992, art. 10, comma 6, per avere la Corte territoriale erroneamente condannato la società cedente il ramo d’azienda, nonostante la cessazione dell’unico rapporto dei due lavoratori con la cessionaria (tale dal 16 aprile 2003): per pensionamento di T. il (OMISSIS), incompatibile con la persistenza di alcun “vincolo obbligatorio lavoristico nei confronti di Telecom”; e per dimissioni di C. il (OMISSIS) e risoluzione pertanto del rapporto per volontà del lavoratore, in assenza di alcun illecito fonte di un danno risarcibile (terzo motivo);

4.1. i due motivi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono infondati;

4.2. occorre premettere, quanto al primo dei due, in linea generale, il principio per il quale il giudice ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente i fatti posti a base della domanda o delle eccezioni e di individuare le norme di diritto conseguentemente applicabili, anche in difformità rispetto alle indicazioni delle parti, incorrendo nel vizio di ultrapetizione soltanto ove sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta nè allegata in giudizio dalle parti (Cass. 17 luglio 2007, n. 15925; Cass. 3 agosto 2012, n. 13945; Cass. 21 febbraio 2019, n. 5153);

4.3. nel caso di specie, non sussiste la violazione denunciata, per avere la Corte territoriale esercitato un tale potere di qualificazione giuridica della domanda del lavoratore, sulla base dell’identità dei fatti allegati senza immutarli nè alterarli: senza pertanto integrazione della violazione denunciata, la quale, sostanziandosi nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Cass. 11 aprile 2018, n. 9002; Cass. 21 marzo 2019, n. 8148);

4.4. in accoglimento sul punto del motivo di appello di Telecom Italia s.p.a. (illustrato al p.to 3. di pg. 2 della sentenza), essa ha, infatti, qualificato come risarcitorio il credito pecuniario dei lavoratori (per le ragioni esposte al terz’ultimo e penultimo capoverso di pg. 4 della sentenza), che avevano ottenuto ciascuno dal Tribunale di Bologna, conformemente alla loro domanda nei confronti della predetta società, un decreto ingiuntivo a titolo di retribuzioni dal 6 aprile al 30 settembre 2012 (sulla base della sentenza n. 129/2012 della medesima Corte felsinea, di accertamento dell’illegittimità del trasferimento del ramo di azienda dalla citata società a HP – DCS e ordine di ripristino del rapporto di lavoro con la cedente), avverso il quale Telecom Italia s.p.a. aveva proposto le opposizioni, rigettate dal Tribunale con la sentenza (che ribadiva la natura retributiva dei crediti pecuniari dei lavoratori) gravata di appello, rigettato con la decisione, qui ricorsa;

4.5. in ordine al secondo dei due motivi congiuntamente esaminati, occorre, preliminarmente rilevare la novità della questione prospettata, non risultante trattata dalla sentenza impugnata, neppure avendo la ricorrente indicato specificamente, nè trascritto gli atti nei quali l’avrebbe posta nei gradi di merito: ciò riflettendosi sulla genericità del motivo, in violazione del principio prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (Cass. 11 gennaio 2007, n. 324; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430);

4.6. in ogni caso, questa Corte ha risolto la questione relativa alla natura, se retributiva ovvero risarcitoria, dei crediti che i lavoratori abbiano ingiunto in pagamento a Telecom Italia s.p.a., a titolo di emolumenti loro dovuti per effetto del mancato ripristino del rapporto da parte della società predetta (nonostante l’ordine del Tribunale con la citata sentenza di accertamento di illegittimità della cessione del ramo d’azienda) con decorrenza dalla messa in mora da parte dei lavoratori medesimi, nel senso della natura retributiva e non più risarcitoria (come invece secondo un indirizzo precedente: Cass. 17 luglio 2008 n. 19740; Cass. 9 settembre 2014 n. 18955; Cass. 25 giugno 2018, n. 16694), sulla scorta dell’insegnamento posto recentemente dalle Sezioni unite civili di questa Corte (sentenza 7 febbraio 2018, n. 2990): con la conseguente indetraibilità di quanto percepito dai lavoratori a titolo di retribuzione per l’attività prestata alle dipendenze della predetta società, già cessionaria del ramo d’azienda; sicchè, essa ha ritenuto che, in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., il pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente a detto accertamento ed alla messa a disposizione delle energie lavorative in favore dell’alienante da parte del lavoratore, non produca effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa (Cass. 3 luglio 2019, n. 17784; Cass. 7 agosto 2019, n. 21158);

4.7. questa Corte ha pure chiarito “come soltanto un legittimo trasferimento d’azienda comporti la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto”; essendo “evidente che l’unicità del rapporto venga meno, qualora… il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare”; e che “l’unicità del rapporto presupponga la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c.. Sicchè, accertatane l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale)”. E pertanto, “il trasferimento del medesimo rapporto si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente”. Ed è infine decisivo osservare come “a fronte di una duplicità di rapporti (uno, de iure, ripristinato nei confronti dell’originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l’altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa)… accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve ne sia un’altra giuridicamente resa in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto”. E’ così indubbio che “al dipendente la retribuzione spetti tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (Cass. 23 novembre 2006, n. 24886; Cass. 23 luglio 2008, n. 20316)”; perchè “una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva” (Cass. 3 luglio 2019, n. 17784, sub p.ti 6.2., 6.3. in motivazione);

5. pertanto il ricorso deve essere rigettato, con la compensazione delle spese del giudizio tra le parti, per la novità della soluzione adottata dalla giurisprudenza di legittimità, in epoca successiva alla proposizione del ricorso e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate le spese del giudizio tra le parti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 15 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2020

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