Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8248 del 26/04/2016


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Civile Sent. Sez. L Num. 8248 Anno 2016
Presidente: VENUTI PIETRO
Relatore: PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI

SENTENZA

sul ricorso 16775-2013 proposto da:
POMPILII ABRAMO C.F. PMPBRM5ORO1L103A, elettivamente
domiciliato in ROMA, V.RENATO FUCINI 288, presso lo
studio dell’avvocato ROBERTO RENZI, rappresentato e
difeso dall’avvocato MANOLA DI PASQUALE, giusta
delega in atti;
– ricorrente

2016
659

contro

UNIONE DEL COMMERCIO DEL TURISMO E SERVIZI PROVINCIA
TERAMO C.F. 80006170676, in persona del presidente e
legale rappresentante pro tempore, elettivamente

Data pubblicazione: 26/04/2016

omiciliato in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 44, presso
studio dell’avvocato MATTIA PERSIANI, che lo
rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCO
DI TEODORO, giusta delega in atti;
– controricorrente-

di L’AQUILA, depositata il 7/05/2013 R.G.N. 763/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 17/02/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANO
PIERGIOVANNI PATTI;
udito l’Avvocato DI PASQUALE MANOLA;
udito l’Avvocato PERSIANI MATTIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. PAOLA MASTROBERARDINO che ha concluso
i
o in subordine inammissibilità
‘W
per ,1,improcedibilità
del ricorso.

avverso la sentenza n. 514/2013 della CORTE D’APPELLO

■ffie’

RG 16775/2013

FATTO

La Corte d’appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza di primo grado (che
aveva accertato la nullità del licenziamento intimato il 20 agosto 2007 dall’Unione del

dipendente Abramo Pompilii, in quanto discriminatorio per la sua condizione di non
vedente e condannato la prima alla reintegrazione del secondo nel posto di lavorp ed al
pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di somma pari alle retribuzioni maturate dal
licenziamento all’effettiva reintegrazione, rigettandone tuttavia le domande di
qualificazione dirigenziale e risarcitorie per danni biologico, patrimoniale e non, morale e
all’immagine), con sentenza 7 maggio 2013, dichiarava il licenziamento illegittimo e
condannava la società datrice, al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di somma
pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita, oltre rivalutazione
ed interessi, rigettando nel resto l’appello principale della datrice ed integralmente quello
incidentale del lavoratore e così compensando le spese di entrambi i gradi in misura della
metà, con posizione della metà residua a carico dell’Unione i soccombente prevalente.
A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva, nel preliminare esame del primo
profilo di appello incidentale, il riconoscimento della qualifica dirigenziale al lavoratore,
per la non provata corrispondenza delle funzioni svolte (in difetto delle previste
autonomia, discrezionalità e determinazione di indirizzo) alla qualifica dirigenziale
rivendicata. Quanto al licenziamento, oggetto di appello principale della società datrice,
ne negava la nullità, riconoscendone piuttosto l’illegittimità, per essere la condizione di
non vedente del lavoratore (non già ragione di discriminazione, ma) presupposto di fatto
del contestato non proficuo svolgimento della prestazione lavorativa, non integrante
neppure giusta causa né giustificato motivo soggettivo: con la conseguente illegittimità
del licenziamento e la coerente tutela obbligatoria, tenuto conto della natura e delle
dimensioni della datrice, con liquidazione del danno alla stregua dei criteri indicati
dall’art. 8 I. 604/1966; ribadita, infine, la carenza di prova degli ulteriori danni
nuovamente domandati dal lavoratore in via di appello incidentale, interamente respinto.
Con atto notificato il 4 (15) luglio 2013, Abramo Pompilii ricorre per cassazione con tre
motivi, cui resiste l’Unione del Commercio del Turismo e dei Servizi della provincia di
Teramo con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art.
378 c.p.c.

Commercio del Turismo e dei Servizi della provincia di Teramo nei confronti del proprio

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RG 16775/2013
MOTIVI DELLA DECISIONE

L)

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1 CCNL
per i dirigenti di azienda del terziario del 27 maggio 1994, 26 dello Statuto di
Confcommercio e vizio di motivazione in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5
c.p.c., per erronea esclusione della qualifica di direttore in proprio favore, avendo egli

ed essendo tale qualifica classificata dirigenziale dalla norma contrattuale collettiva: e ciò
anche per illogicità e contraddittorietà argomentativa, frutto di una non corretta
valutazione probatoria, sulla base delle rappresentate risultanze istruttorie, criticamente
illustrate.
Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c.,
15 1. 300/1970, 3 I. 108/1990 e vizio di motivazione in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 3 e n. 5 c.p.c., per il mancato riconoscimento della natura discriminatoria del
licenziamento in difetto di prova della non proficuità della prestazione lavorativa, di cui
ravvisata la condizione di cecità del lavoratore presupposto di fatto, invece esclusiva
ragione del licenziamento.
Con il terzo, il ricorrente deduce vizio di motivazione in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 5 c.p.c., per mancato riconoscimento di danni ulteriori (alla professionalità
patrimoniale e non, all’immagine, biologico) rispetto a quelli risarcibili in conseguenza
della illegittimità del licenziamento, denunciati e deducibili, anche in via presuntiva, di cui
offerto idonea prova documentale ed orale.
Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 1 CCNL per i dirigenti
di azienda del terziario del 27 maggio 1994, 26 dello Statuto di Confcommercio e vizio di
motivazione, per erronea esclusione della qualifica di direttore in proprio favore, è
inammissibile.
Il profilo di formale denuncia di violazione di norme di diritto non integra gli appropriati
requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla
disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella
sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme
regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza
di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28
febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).
Più specificamente, l’art. 1 CCNL per i dirigenti di azienda del terziario del 27 maggio
1994 (indicato come prodotto sub doc. n. 17 in fascicolo di primo grado e debitamente
trascritto a pg. 8 del ricorso l’articolo 1, secondo cui:

2

“1. Sono dirigenti a norma dell’art.

effettivamente svolto le funzioni ad essa corrispondenti, secondo la previsione statutaria

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2094 c. c., ed agli effetti del presente contratto, coloro che, rispondendo direttamente
all’imprenditore o ad altro dirigente a ciò espressamente delegato, svolgono funzioni
aziendali di elevato grado di professionalità, con ampia autonomia e discrezionalità e
iniziativa e col potere di imprimere direttive a tutta l’impresa o ad una sua parte
autonoma. 2. La qualifica di dirigente comporta la partecipazione e la collaborazione, con

dell’impresa ed il fine della sua utilità sociale. 3. Sono dirigenti, a titolo esemplificativo: i
direttori; i condirettori; i vice direttori; gli institori, a norma dell’art. 2203 e seguenti del
c.c.; i procuratori, di cui all’art. 2209 c.c., con stabile mandato ad negotia; i capi di
importanti servizi e uffici, sempre che le loro funzioni si esercitino nelle condizioni
specificate nei commi precedenti.”) non è stato contestato nella sua interpretazione in
diritto.
Essa è stata, d’altro canto, corretta nell’individuazione (all’ultimo capoverso di pg. 3 della
sentenza) delle caratteristiche della qualifica dirigenziale nella preposizione, come alter
ego dell’imprenditore, alla direzione dell’intera organizzazione aziendale ovvero ad una
branca o settore autonomo di essa, con investitura di attribuzioni che, per la loro
ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità comportati, gli consentano, sia
pure nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un
indirizzo ed un orientamento al governo complessivo dell’azienda, assumendo la
corrispondente responsabilità ad alto livello (Cass. 16 settembre 2015, n. 18165; Cass.
22 dicembre 2006, n. 17464); ovvero nella sufficienza dell’ampia responsabilità
demandata, nell’ambito della sua qualificazione professionale, al dipendente che operi
con un corrispondente grado di autonomia e responsabilità, con riferimento, in
considerazione della complessità della struttura dell’azienda, alla molteplicità delle
dinamiche interne e alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione
dirigenziale (non sempre riassumibili a priori in termini compiuti) ed alla contrattazione
collettiva di settore (Cass. 24 giugno 2009, n. 14835).
Oggetto di effettiva contestazione è stata piuttosto la valutazione probatoria dei poteri di
iniziativa e discrezionalità goduti da Abramo Pompilii ai fini dell’integrazione del suo
effettivo esercizio delle mansioni di direttore (come esposto ai primi tre capoversi di pg. 4
della sentenza): ma ciò integra un accertamento in concreto della sussistenza delle
condizioni necessarie per l’inquadramento del funzionario in una o altra categoria, che
costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e censurabile in sede di
legittimità soltanto per vizi di motivazione (Cass. 22 dicembre 2006, n. 17464). Ed oggi,
neppure più deducibili alla luce dell’attuale testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.

3

la responsabilità inerente al proprio ruolo, all’attività diretta a conseguire l’interesse

RG 16775/2013
(di denuncia “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto
di discussione tra le parti”), applicabile ratione temporis per la pubblicazione della

sentenza impugnata in data posteriore (7 maggio 2013) al trentesimo giorno successivo a
quella di entrata in vigore della legge 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del decreto
legge 22 giugno 2012, n. 83 (12 agosto 2012), secondo la previsione dell’art. 54, terzo

Ed infatti, esso introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione,
relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza
risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe
determinato un esito diverso della controversia): con la conseguenza della doverosa
indicazione dal ricorrente del “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, del “dato”,
testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, del “come” e del “quando” tale fatto
sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e della sua “decisività”; fermo
restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di
omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato
comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato
conto di tutte le risultanze probatorie. Sicchè, detta riformulazione deve essere
interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come
riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass.
s.u. 7 aprile 2014, n. 8053).
Quanto, infine, all’art. 26 dello Statuto di Confcommercio, esso è insindacabile in sede di
legittimità quale atto negoziale, in difetto, come appunto nel caso di specie, di deduzione
dei canoni legali di ermeneutica contrattuale violati, ai sensi degli artt. 1362 ss. c.c.
(Cass. 18 aprile 2008, n. 10218; Cass. 1 novembre 2007, n. 23569).
Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 15 I.
300/1970, 3 I. 108/1990 e vizio di motivazione, per il mancato riconoscimento della
natura discriminatoria del licenziamento in difetto di prova della non proficuità della
prestazione lavorativa, è invece fondato.
Ed infatti, il licenziamento è stato intimato al lavoratore sulla base della contestazione di
avere appreso l’ente datore in ritardo, rispetto all’accertamento, il riconoscimento al
proprio dipendente dello status di invalido civile, in quanto non vedente. E da ciò la
conseguenza tratta, senza disposizione di alcun accertamento sanitario a norma dell’art.
5, ult. comma 1. 300/1970, del non avere “almeno a far data dal riconoscimento della …
patologia, … più reso proficuamente le prestazioni per le quali … assunto e dedotte in

comma del decreto legge citato.

RG 16775/2013
contratto, attuando artifizi per occultare tale condizione”, con la conclusione apodittica,
per cui: “In ogni caso se è vero che Lei è stato riconosciuto invalido civile in quanto non
vedente e che per tale ragione beneficia delle provvidenze di legge, è indubbio come tale
condizione La renda inidoneo alle mansioni dedotte in contratto”.
Il tenore letterale della lettera, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale e

proprio la condizione di non vedente del lavoratore sia stata la ragione esclusiva del
licenziamento intimatogli: tanto più che la stessa Corte aquilana ha contraddittoriamente
rilevato che “la incapacità a rendere proficuamente la prestazione di lavoro è correlata
non ad effettive disfunzioni rilevate nello svolgimento dei compiti di pertinenza del
Pompilii, posto che nessun fatto specifico gli viene rimproverato, ma alla sua condizione di
invalidità … che non ha impedito però al Pompi/il, almeno fino a che è durato il rapporto,
di svolgere le sue attività” (così all’ultimo capoverso di pg. 4 della sentenza).
Ed inoltre, neppure è emerso, secondo l’accertamento condotto dalla Corte territoriale,
che il predetto facesse lavorare al proprio posto altri impiegati (come illustrato al primo
capoverso di pg. 5 della sentenza): con ciò neppure configurandosi gli “artifizi”contestati,
certamente non integrati da un’omessa rivelazione della propria condizione di handicap
visivo, nel perdurante svolgimento della prestazione lavorativa.
L’assunto della consistenza dello stato di cecità del lavoratore, non già quale ragione
esclusiva del licenziamento, ma quale presupposto di fatto della non proficuità della
prestazione lavorativa appare poi smentito dall’accertato difetto di prova al riguardo:
“atteso che l’Unione non ha dato prova del fatto che la condizione di carenza visiva abbia
ostacolato la capacità del Pompilii di rendere proficuamente la prestazione, avendo ciò
affermato come ipotetica conseguenza della cecità, ma mai provato” (così in fine del
primo periodo di pg. 5 della sentenza).
Ed allora appaiono integrate le violazioni di legge denunciate, per la non corretta
sussunzione della concreta fattispecie accertata in quella astratta regolata dagli artt. 3 I.
108/1990 e 15 l. 300/1970, in ordine al licenziamento per ragioni di discriminazione da
handicap.
Ed infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art.
360, primo comma, n. 3 c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che
può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a
fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), per l’esclusivo rilievo
che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva
esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata

secondo quanto invece a suo tempo accertato dal Tribunale, radica il convincimento che

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male applicata (Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348).
Sicchè, il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa
applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del
fatto incontestata: come appunto nel caso di specie, in cui è risultata invece controversa
l’applicazione della norma di diritto.

scrutinato e (per le superiori ragioni) accolto, con assorbimento del terzo (vizio di
motivazione, per mancato riconoscimento di danni ulteriori rispetto a quelli risarcibili in
conseguenza della illegittimità del licenziamento), la Corte d’appello di L’Aquila, in
diversa composizione, in sede di rinvio, che pure provvederà alla regolazione delle spese
del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte

Iffitler4kof
rigetta il primo motivo; accoglie il secondo, assorbito il terzo; cassa la sentenza” -Con
rinvio, anche per le spese del giudizio, alla Corte d’appello di L’Aquila, in diversa
composizione.

Così deciso in Roma, il 17 febbraio 2016

Il consigl

est.

Il Presidente

A ciò provvederà, in ragione della cassazione della sentenza in relazione al motivo qui

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