Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8239 del 26/04/2016


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Civile Sent. Sez. L Num. 8239 Anno 2016
Presidente: MAMMONE GIOVANNI
Relatore: DORONZO ADRIANA

Data pubblicazione: 26/04/2016

SENTENZA

sul ricorso 21608-20’10 proposto da:
MAZZONI MARIA C.F. MZZMRA29P48E805G, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PISISTRATO 11, presso lo
studio del] ‘avvocato GIANNI ROMOLI, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato SERGIO
CENCETTI, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2016
contro

328

I.N.P.S.
SOCIALE C.E.

ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA
8007750587,

in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato

‘vi 7

in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura
Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli
avvocati LUIGT CALIULO, LELIO MARITATO, ANTONINO
SGROI, giusta delega in atti;

contronicorrente

di PERUGIA, depositata il 25/09/2009 R.G.N. 281/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 26/01/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANA
DORONZO;
udito l’Avvocato POMOLI GIANNI;
udito l’Avvocato SORCI ANTONINO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO, che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

avverso la sentenza n. 521/2009 della CORTE D’APPELLO

Udienza 26 gennaio 2016
R.G. N. 21608/2010

Svolgimento del processo
L- Con sentenza depositata in data 25/9/2009 la Corte d’appello di
Perugia ha rigettato l’appello proposto da Maria Mazzoni contro la
sentenza del Tribunale della stessa sede, di rigetto dell’opposizione
proposta dalla Mazzoni avverso il precetto di pagamento notificatole

dall’Inps il 14/12/2001 per l’importo di €. 132.371.837. La Corte ha
ritenuto che a) correttamente il giudice di primo grado non si era
pronunciato sulle questioni di fatto sollevate dall’appellante nella
memoria della 30/4/2005, trattandosi di questioni nuove; b) i
pagamenti eseguiti dall’ opponente in conto al maggior credito erano
stati correttamente imputati dal creditore secondo le disposizioni di
cui all’art. 1194 cod.civ. in ragione della sussidiarietà dei criteri
previsti dall’art. 1193, comma 2°, cod.civ. e della mancanza di
consenso del creditore; c) le spese legali relative agli atti di precetto
notificati dall’Inps erano state correttamente poste a carico della
debitrice, in quanto ad essi erano seguiti atti di pignoramento non
andati a buon fine per l’irreperibilità della stessa debitrice, sicché
l’inefficacia dei precetti non era dipesa da negligenza dell’ente
creditore; d) era infondato il motivo di doglianza riguardante la
sanzione una tantum, la quale correttamente era stata posta a carico
della debitrice in applicazione della legge n. 662/1996, trattandosi di
crediti sorti prima del 30/9/2000 1 per i quali non poteva applicarsi la
legge 23 dicembre 2000, n.388; e) infine, era corretta la condanna al
pagamento delle spese processuali, ivi comprese quelle del
procedimento d’urgenza, dal momento che l’opposizione era risultata
del tutto infondata e, conseguentemente, infondato doveva ritenersi il
ricorso ex art. 700 cod.proc.civ., sul quale il giudice non si era
pronunciato.

2.

Contro la sentenza, la Mazzoni propone ricorso per tassazione

sulla base di cinque motivi, illustrati da memoria, cui resiste con
controricorso l’Inps.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 115,116 e 414 cod.proc.civ., nonché l’omessa
motivazione su un punto decisivo della controversia, costituito
dall’errata interpretazione del divieto dei nove: assume infatti che le
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Udienza 26 gennaio 2016
R.G. N. 21608/2010

circostanze dedotte con la memoria della 30/4/2005 si erano
verificate solo a seguito della pronuncia intervenuta sul
provvedimento d’urgenza, ossia nel corso del giudizio di primo grado.
Si trattava pertanto non di fatti nuovi, bensì di fatti conseguenti
all’evoluzione del giudizio e comunque diretti a determinare un
diverso importo delle somme dovute. Ciò che costituiva un fatto

nuovo era solo l’istanza di fallimento presentata dall’Inps, seguita
dalla desistenza depositata il 4/10/2004 per effetto della sue
presentazione, da parte sua, di una domanda di pagamento
rateizzato con il versamento di un acconto di C 10.000,00. Inoltre, il
credito per il quale era stata avanzata istanza di fallimento era di
importo inferiore rispetto a quello precettato ed il fatto nuovo si
presentava rilevante ed essenziale ai fini del decidere.
– Il motivo è inammissibile. La parte non trascrive neppure nelle
sue parti salienti il contenuto delle memorie dei 30/4/2005 depositate
nel giudizio di primo grado, non le allega al ricorso unitamente ai
documenti posti a sostegno delle richieste in esse formulate, né infine
offre precise indicazioni circa l’attuale collocazione, nei fascicoli di
parte o d’ufficio nelle pregresse fasi dei giudizio, delle memorie e dei
documenti medesimi. In tal modo non rispetta il duplice onere
imposto, a pena di inammissibilità del motivo, dall’art. 366, primo
comma, n. 6, c.p.c., e, a pena di improcedibilità, dall’art. 369,
secondo comma, n. 4, c.p.c. di indicare esattamente nell’atto
introduttivo in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si
trovi il documento in questione, e di evidenziarne il contenuto,
trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, ai fine di
consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza dei
motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di
parte (v. da ultimo, Cass., 12 dicembre 2014, n. 26174; Cass., 7
febbraio 2011, n. 2966; Cass. S.U. 2 dicembre 2008 n.28547, Cass.
23 settembre 2009 n.20535, Cass. S.U. 25 marzo 2010 n. 7161 e
Cass. S.U. 3 novembre 2011 n. 22726).
Il motivo all’esame dunque non rispetta il principio di autosufficienza
come elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., 19
agosto 2015, n. 16900).
1.2. – Per completezza deve rilevarsi che la circostanza di fatto della
istanza di fallimento presentata dall’INPS, cui era poi seguita la
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desistenza per effetto della domanda di rateizzazione del debito (e
che aveva indotto il giudice della fase cautelare a non emettere alcun
provvedimento d’urgenza), è irrilevante ai fini del giudizio espresso
dalla Corte, dal momento che è incontestato che la Mazzoni non ha
provveduto al pagamento delle successive rate ed è pertanto
decaduta dal beneficio del termine. Né risulta dalla sentenza

impugnata che ella abbia specificamente contestato l’entità delle
somme precettate, deducendo il mancato computo di quanto versato
in conseguenza della domanda di condono, sicché, per un verso, tale
questione è inammissibile in questa sede per violazione del criterio
dell’autosufficienza, non avendo la parte compiutamente riportato il
motivo di gravame (asseritamente) non esaminato, sì da consentire
alla Corte di verificare che tale specifica questione non sia “nuova” e
di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame
dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass., 20 agosto 2015, n. 17049;
Cass., 18 ottobre 2013, n. 23675); per altro verso, conferma la
mancanza di decisività della questione dedotta, considerato che,
come si legge nella sentenza impugnata (pag. 4), la Corte ha tenuto
conto delle somme versate a seguito della domanda di condono,
ritenendone corretta l’imputazione fatta dall’Inps ai debiti più antichi,
e che il quantum dovuto è stato determinato a seguito di c.t.u., su cui
nessuna censura risulta mossa dalla ricorrente. Ne consegue, sotto
tale profilo, l’infondatezza della censura.
2.

Con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza per

violazione e falsa applicazione dell’art. 1194 cod.civ., nonché per
omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia, e lamenta
che la Corte ha ritenuto applicabile la norma su citata, la quale si
riferisce agli interessi e non anche alle sanzioni, che costituiscono
quota parte del capitale, ed è inoltre inapplicabile in materia di danni
derivanti dal fatto illecito. Ove il giudice avesse correttamente
interpretato e applicato gli artt. 1193 e 1194 cod.civ. avrebbe dovuto
imputare i pagamenti ai contributi in quanto debito scaduto, e non
invece agli interessi, e ciò per non aggravare la sua posizione dato
che il persistere del ritardo nel pagamento dei contributi comporta
l’aumento delle sanzioni.
2.1. – Preliminarmente, non si ravvisa l’ inammissibilità del motivo
denunciata dall’INPS, dal momento che, pur proposte in modo
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Udienza 26 gennaio 2016
R.G. N. 21608/2010

cumulativo, le censure in esso articolate evidenziano con chiarezza
quali sono le mancanze addebitate alla sentenza impugnata.
2.2. –

Esse sono tuttavia infondate. La Corte territoriale ha

correttamente applicato le norme di cui all’art. 1194 cod.civ., secondo
cui il pagamento va imputato prima agli accessori e poi al capitale, in
difetto di consenso del creditore; ha precisato che dalla consulenza

tecnica contabile d’ufficio disposta nel giudizio di primo grado era
emerso che la somma di E. 3.911.374 versata dalla Mazzoni
riguardava contributi scaduti nel marzo 1995; che la ricorrente dopo
aver presentato domanda di condono era decaduta dal beneficio del
termine, non avendo provveduto al pagamento delle rate, sicché
correttamente I/ Inps aveva imputato le rate versate ai crediti più
antichi (febbraio 1992-dicembre 1994); anche la somma di C
10.060,63 era stata imputata a copertura dei debiti più antichi,
mentre la somma di C 4.232,00 era stata portata in diminuzione dei
crediti indicati nel decreto ingiuntivo del 6/8/1998. A fronte di questo
accertamento, rispettoso del disposto di cui agli artt. 1193 e 1194
cod.civ., nulla ha rilevato la ricorrente, che si è limitata a lamentare
l’omessa imputazione dei pagamenti parziali ai contributi, senza
tuttavia precisare quali avrebbero dovuto essere le diverse
imputazioni ed in base a quale disposto normativo in deroga alle
norme richiamate. Al contrario l’imputazione dapprima agli interessi e
poi al capitale rispetta la ratio dell’art. 1194 (v. Cass., 20 maggio
2005, n. 10692; Cass., 11 dicembre 2002, n. 17661; Cass., 20 luglio
1993, n. 8063), così come risulta rispettato il dettato dell’art. 1193
cod.civ., che detta una gerarchia tra i vari criteri di imputazione
prevedendo che, in caso di più debiti scaduti, l’imputazione vada fatta
al debito meno garantito. Nel caso in esame, il debito meno garantito
è costituito, a norma dell’art. 2754 cod.civ., dagli accessori del
credito contributivo, i quali, a differenza del credito contributivo,
hanno privilegio generale sui mobili del datore di lavoro limitatamente
al 50% del loro ammontare (cfr. Cass., 6 maggio 2014, n. 9648; Cass.,
18 ottobre 2002, n. 14818).
2.3. – Quanto al profilo di censura relativo ai versamenti inerenti alla

domanda di pagamento dilazionato, che, secondo la ricorrente,
avrebbero dovuto essere imputati ai contributi maturati nel periodo
aprile 1997- giugno 1998, esso difetta di autosufficienza, non avendo
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Udienza 26 gennaio 2016
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la parte riportato il testo della domanda di pagamento dilazionato del
15/1/2002, in cui sarebbe stata espressa tale imputazione. Ne
consegue la sua palese inammissibilità.
2.4. – Infine è infondato l’assunto della ricorrente secondo cui l’art.
1194 cod.civ. sarebbe inapplicabile perché si verserebbe in materia di
danni da fatto illecito: al riguardo è sufficiente rilevareilnella

fattispecie in esame la domanda proposta dall’INPS ed alla quale si è
opposta la Mazzonl non ha ad oggetto il risarcimento dei danni da
illecito aquiliano, bensì l’adempimento di un’obbligazione contributiva
nascente dalla legge.
3. Il terzo motivo riguarda l’omessa pronuncia su un punto decisivo
della controversia, costituito dalla quantificazione, operata dal c.t.u.,
della sanzione una tantum in un importo inferiore a quello indicato in
precetto e di cui il giudice non aveva tenuto conto. Anche questo
motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, dal momento
che la parte non trascrive, neppure nella parte che dovrebbe
sorreggere la censura, la consulenza tecnica, la quale non è allegata
al ricorso per cassazione né la parte ha offerto precise indicazioni per
un suo facile reperimento nei fascicoli di parte o d’ufficio delle
pregresse fasi del giudizio. Deve aggiungersi che di tale specifica
questione non vi è traccia nella sentenza impugnata – la quale si è
occupata della diversa questione riguardante il regime sanzionatorio
applicabile ratione temporis e non anche il quantum della sanzione,
con la conseguenza che la parte avrebbe dovuto impugnare la
sentenza per violazione dell’art. 112 cod.proc.civ., specificando gli
esatti termini in cui la questione sarebbe stata sollevata dinanzi ai
giudici del merito, in quale fase processuale ed in quale atto
difensivo. Si richiamano qui le osservazioni e i riferimenti
giurisprudenziali in tema di autosufficienza del ricorso per cassazione
su riportati.
4.

Con il quarto motivo la ricorrente censura la sentenza per

violazione e falsa applicazione dell’art. 632 cod.proc.civ. e lamenta
l’erroneità della sua condanna al pagamento delle spese relative agli
atti di precetto, nonostante la loro sopravvenuta inefficacia.
Il motivo è infondato, avendo la Corte correttamente posto le spese
relative ai precetti a carico della Mazzoni sul presupposto di fatto che
l’inefficacia delle intimazioni di pagamento era dipesa non già da
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Udienza 26 gennaio 2016
R.G. N. 21608/2010

Inerzia o negligenza del creditore bensì dall’infruttuosità dei successivi
atti di pignoramento. L’assunto della ricorrente, secondo cui la sua
irreperibilità, che avrebbe impedito l’esecuzione, era conseguente
all’errata indicazione del suo indirizzo, e dunque ad un fatto colposo
del creditore, non è stato oggetto di esame da parte del giudice del
merito, sicché era onere della parte, al fine di evitare una declaratoria

di inammissibilità per novità della censura, indicare in quale atto e
fase processuale ed in che termini la detta circostanze di fatto era
stata sottoposta alla conirione del giudice del merito (Cass., 18
ottobre 2013, n. 23675).
5.

Il quinto motivo concerne la violazione dell’art. 91 cod.proc.civ.,

nonché l’omessa ed insufficiente motivazione in ordine alla condanna
alle spese della fase cautelare, nonostante il provvedimento
d’urgenza non fosse stato emesso in quella sede per l’impegno
specifico del creditore di non compiere atti di esecuzione forzata,
senza il quale impegno, invece, il suo ricorso sarebbe stato
probabilmente accolto.
5.1. Anche questo motivo è infondato, oltre a presentare profili di

inammissibilità. L’inammissibilità sta nel fatto che la ricorrente non
trascrive né deposita l’atto o il verbale di causa in cui sarebbe stato
consacrato questo impegno del creditore di non procedere ad atti di
esecuzione, né trascrive o deposita il provvedimento del giudice che,
per tale ragione, non pervenne all’adozione del provvedimento.
L’infondatezza è invece ravvisabile nel fatto che il provvedimento
cautelare chiesto in corso di causa dà vita ad un sub-procedimento
incidentale, come tale privo di autonomia rispetto alla causa di
merito. Ne consegue che la regolamentazione delle spese processuali
di detto sub-procedimento non può che essere disposta, al pari di
quella relativa alle spese che si sostengono nel procedimento
principale, con il provvedimento che chiude quest’ultimo (Cass., 11
febbraio 2011, n. 3436). Correttamente pertanto il tribunale ha
proceduto alla liquidazione delle spese secondo la regola della
soccombenza con riguardo all’esito definitivo del giudizio di merito e
non già alla singola fase del procedimento.
6.

In definitiva, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente va

condannata al pagamento delle spese del presente giudizio, che si
liquidano come da dispositivo.
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Udienza 26 gennaio 2016
R.G. N. 21608/2010

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese del presente giudizio, liquidate in € 100,00 per esborsi e €
3.500,00 per compensi professionali, oltre al rimborso delle spese
generali liquidate nella misura forfettaria del 15%.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 26 gennaio 2016
Il Presidente

Il Consigliere est.

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