Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8219 del 24/03/2021

Cassazione civile sez. VI, 24/03/2021, (ud. 18/02/2021, dep. 24/03/2021), n.8219

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14896/2019 R.G. proposto da:

M.V.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Pietro Menniti,

con domicilio eletto in Roma, Via Antonio Bertoloni, n. 44, presso

lo studio dell’Avv. Teresa Ermocida;

– ricorrente –

contro

P.M., rappresentata e difesa dall’Avv. Peppino Mariano, con

domicilio eletto in Roma, via Philippe De Grenet, n. 145, presso lo

studio dell’Avv. Michele De Cillis;

– controricorrente –

e nei confronti di:

R.V.;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro, n. 2050/2018,

depositata il 21 novembre 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 febbraio

2021 dal Consigliere Emilio Iannello.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. P.M. convenne in giudizio avanti il Tribunale di Catanzaro M.V.A. esponendo che, a causa dei lavori di sbancamento da questo effettuati, nell’anno 2000, al fine di edificare un corpo di fabbrica, il proprio confinante immobile aveva subito ingenti danni strutturali, per i quali chiese la condanna del convenuto al risarcimento dei danni, commisurati anche al costo dei necessari lavori di ripristino dello stato dei luoghi, della cui esecuzione chiedeva in subordine condannarsi lo stesso convenuto, secondo le modalità e termini da stabilirsi in corso di causa.

Il M. resistette alla domanda, deducendo che i danni erano da ascriversi alle eccezionali precipitazioni meteoriche e di avere comunque già provveduto a ripristinare lo status quo ante.

In corso di causa l’attrice, in considerazione del peggioramento della condizione dei luoghi, chiese e ottenne che fosse ordinato al convenuto, in via cautelare, sulla scorta delle risultanze della c.t.u., di eseguire le opere necessarie per la messa in sicurezza.

Il contraddittorio venne esteso, iussu iudicis, nei confronti di R.V. in considerazione del fatto che la realizzazione delle opere richieste coinvolgeva anche la di lui proprietà.

Costituendosi in giudizio quest’ultimo chiese a sua volta la condanna del M. al ripristino dello stato dei luoghi e al risarcimento dei danni.

All’esito dell’istruttoria compiuta il Tribunale, con sentenza del 22/1/2015, in accoglimento della domanda di parte attrice, condannò il M. ad eseguire a propria cura e spese le opere ivi meglio specificate; rigettò nel resto la domanda della P.; dichiarò inammissibile la domanda del R..

2. Pronunciando sul gravame interposto dal M., nella contumacia del R., la Corte d’appello di Catanzaro ha integralmente confermato detta decisione.

3. Di ciò si duole M.V.A. proponendo ricorso per cassazione con due mezzi, cui resiste P.M., depositando controricorso.

R.V. non svolge difese nella presente sede.

4. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Il ricorrente deposita memoria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., e dell’art. 2058 c.c., per vizio di ultrapetizione”.

Ciò in relazione al rigetto del motivo di gravame con il quale egli aveva tale vizio ascritto alla sentenza di primo grado per avere emesso condanna ad un facere specifico, consistente nella realizzazione di un muro di contenimento e nella collocazione di gabbioni a valle, anzichè pronunciarsi sulla originaria domanda di ripristino dello stato dei luoghi.

2. Con il secondo motivo il M. denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione agli artt. 2697 e 1227 c.c.”, contestando – come è detto esplicitamente in apertura della relativa illustrazione – “la ricostruzione dei fatti eseguita dalla Corte di appello”, in particolare là dove essa ha individuato, come causa determinante ed esclusiva dei danni, l’esecuzione dei lavori di sbancamento da parte di esso ricorrente.

Lamenta la mancata considerazione di tre fattori, acclarati dai cc.tt.uu., quali: la natura argillosa, franosa ed a rischio idrogeologico del terreno; l’eccezionalità dell’evento atmosferico verificatosi nella zona nel corso del mese di settembre 2000; la mancata regimentazione, da parte della P., delle acque piovane nella propria Corte.

Afferma che la relazione peritale, resa nel giudizio di appello e richiamata in sentenza, ripete pedissequamente quella effettuata nel corso del giudizio di primo grado, e difetta di accertamenti tecnici relativi allo stato dei luoghi ed alle opere ivi eseguite.

Contesta – siccome, in tesi, immotivato e smentito dalle norme tecniche – l’assunto del c.t.u. secondo il quale egli avrebbe prima realizzato il taglio verticale del terreno (mediante sbancamento) per un’altezza di metri 7,00 e, successivamente, i pali con il muro in cemento armato soprastante.

Deduce che erroneamente i giudici a quibus hanno ritenuto “non utilizzabile” la consulenza di parte allegata alla comparsa conclusionale, poichè mirata a “prospettare una diversa ricostruzione dei fatti fondata su documenti che non sono stati depositati in corso di causa e sui quali non vi è stato alcun dibattito processuale”; osserva che ciò “non trova riscontro nell’istruttoria di appello in quanto il difensore di parte appellante, nel depositare le proprie osservazioni, (aveva allegato) anche il progetto approvato dal Genio Civile e la relazione geologica, documenti che (avrebbero dovuto) essere acquisiti, esaminati e utilizzati dal consulente tecnico per una verifica ed analisi completa”.

Critica l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui la natura del terreno, le piogge eccezionali del settembre 2000 e la non corretta regimentazione delle acque della proprietà di P.M., non hanno in alcuna misura interrotto il nesso causale tra la condotta imputabile al M. (sbancamento) e l’evento dannoso (frana), in quanto i predetti fattori non sarebbero stati sufficienti a provocare lo smottamento del terreno. Rileva che a diversa conclusione avrebbero dovuto condurre le conclusioni del c.t.u. nominato nel giudizio di appello.

3. Occorre preliminarmente rilevare che il ricorso per cassazione non risulta notificato a R.V., benchè questi risulti indicato tra le parti nei cui confronti esso è diretto.

3.1. Deve tuttavia escludersi che ciò determini la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dello stesso, quale litisconsorte processuale, atteso che il surriferito svolgimento del processo (e in particolare l’esito a lui sfavorevole del giudizio di primo grado e la sua contumacia in quello d’appello) evidenzia il suo totale disinteresse verso le sorti del giudizio e comporta che in sede di legittimità non sia necessario alcun ordine di integrazione del contraddittorio nei suoi confronti (v. in tal senso Cass. n. 2527 del 06/03/1998; Cass. n. 5315 del 04/04/2003).

3.2. Peraltro, quand’anche devesse ravvisarsi una situazione di inscindibilità di cause, l’inammissibilità del ricorso, che si va appresso a evidenziare, renderebbe comunque ultroneo ed inutilmente dispendioso l’ordine di integrazione del contraddittorio.

Il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone infatti al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (v. Cass. Sez. U. 22/03/2010, n. 6826; Cass. 21/05/2018, n. 12515; Cass. 10/05/2018, n. 11287; Cass. 17/06/2013, n. 15106).

4. Venendo quindi all’esame dei motivi – con il quale il ricorrente in sostanza ripropone le medesime doglianze già svolte in appello -se ne deve di entrambi rilevare la inammissibilità.

Del primo in quanto manifestamente aspecifico.

4.1. Lo stesso infatti non si confronta con la motivazione spesa sul punto in sentenza – sintetizzabile nel rilievo che il facere specifico ad oggetto di condanna non decampava dalla domanda di ripristino dello stato dei luoghi (poichè interpretabile come volta non già a riportare il terreno nella situazione originaria, anteriore allo sbancamento, ma a ripristinare la stabilità del terreno compromessa dai lavori eseguiti dal M.) – ma piuttosto svolge generiche e inconferenti argomentazioni circa la differenza tra risarcimento per equivalente e risarcimento in forma specifica: tema eccentrico rispetto a quello affrontato in sentenza che, sulla premessa, del resto esplicitamente ammessa anche in ricorso, che la domanda introduttiva era anche diretta al ripristino dei luoghi e, dunque, ad un risarcimento in forma specifica, si risolveva nel quesito, risolto affermativamente, se i lavori indicati dal tribunale ad oggetto di condanna (realizzazione di un muro di contenimento e collocazione di gabbioni a valle) potessero o meno ricondursi a detto petitum.

4.2. In ogni caso varrà rammentare che, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione operata dal giudice di appello, riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale, è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tal riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (Cass. n. 28989 del 11/11/2019; Cass. n. 17947 del 08/08/2006; Cass. n. 2467 del 06/02/2006).

Peraltro, il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto a uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Cass. n. 21087 del 19/10/2015).

Nella specie, l’odierno ricorrente, lungi dallo specificare i modi o le forme dell’eventuale scostamento del giudice a quo dai canoni ermeneutici legali che ne orientano il percorso interpretativo (anche) della domanda giudiziale, si limitata in sostanza ad esprimere -peraltro con argomenti inconferenti – il proprio dissenso dall’interpretazione fornita dal giudice d’appello, così risolvendo le censure proposte ad una questione di fatto non proponibile in sede di legittimità; e tanto, al di là dall’assorbente rilievo concernente il carente assolvimento degli oneri di specificità e autosufficienza del ricorso, di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, e art. 369 c.p.c., n. 4, con particolare riferimento all’omessa integrale allegazione degli atti processuali indispensabili ai fini dell’esatta ricostruzione del contenuto della domanda originariamente proposta dall’attrice.

5. Il secondo motivo è inammissibile sotto diversi profili.

5.1. Non è osservato anzitutto l’onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, quanto alla localizzazione della produzione nel giudizio di merito ed in questa sede delle ripetutamente richiamate consulenze tecniche di ufficio e dei documenti che si dicono (v. pag. 13 del ricorso, prime tre righe) essere stati prodotti nel corso del giudizio di appello (dei quali non viene nemmeno riportato il contenuto).

5.2. Al di là della prospettata (nell’intestazione) violazione di norme di diritto sostanziale (artt. 1227 e 2697 c.c.) e di norme processuali (artt. 115 e 116 c.p.c.) – peraltro impropriamente ricondotte, nell’intestazione medesima, al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – è evidente che il ricorrente, lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, delle fattispecie astratte recate dalle norme di legge richiamate, allega un’erronea ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione o applicazione della legge, inerendo bensì alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione e nei limiti in cui lo consente il relativo paradigma censorio (cfr. ex plurimis Cass. 26/03/2010, n. 7394; Cass. 30/12/2015, n. 26110).

Nè si prospetta l’eventuale falsa applicazione delle norme richiamate sotto il profilo dell’erronea sussunzione giuridica di un fatto in sè incontroverso, insistendo propriamente il ricorrente nella prospettazione di una diversa ricostruzione dell’eziologia dei danni, rispetto a quanto operato dal giudice a quo.

5.3. Riguardate dunque nella loro effettiva essenza di censure di vizio motivazionale, ne appare evidente l’estraneità al paradigma censorio dettato dal novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come interpretato dalla costante giurisprudenza di questa Corte.

Nel nuovo regime, com’è noto, dà luogo infatti a vizio della motivazione sindacabile in cassazione l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (v. Cass. Sez. U. 07/04/2014, n. 8053; Cass. 22/09/2014, n. 19881).

Nel caso di specie le doglianze si muovono, invece, proprio su tale ultimo piano, risultando dirette a sollecitare una mera nuova valutazione di merito del materiale istruttorio che risulta già compiutamente esaminato dai giudici a quibus, sia pure alla stregua di una valutazione che non dà conto – non essendo tenuta a farlo -dei singoli elementi di prova, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (v. ex multis Cass. n. 9320 del 08/05/2015).

5.4. Alla luce di tali considerazioni, palesemente fuori segno si rivela, come detto, anche il riferimento, in rubrica, agli artt. 115 e 116 c.p.c..

Varrà rammentare al riguardo che, come già più volte chiarito da questa Corte, “per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115, è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”” (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).

Allo stesso modo, sotto il profilo della pure dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., è appena il caso di rilevare che, in tema di ricorso per cassazione, la violazione di detta norma (la quale sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non certo secondo la prospettazione evocata in ricorso (la quale si risolve, come detto, nella proposta di una diversa lettura delle risultanze istruttorie), ma solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892).

5.5. La censura di violazione della regola sull’onere della prova, poi, non è dedotta nei termini in cui può esserlo secondo Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598 (principio affermato in motivazione, pag. 33, p. 14, secondo cui “la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni”; v. anche Cass. n. 23594 del 2017, cit.; Cass. 17/06/2013, n. 15107).

La contestazione, peraltro generica e meramente oppositiva, attiene piuttosto, come s’è ripetuto, al merito della valutazione operata circa l’assolvimento di tale onere e come tale impinge nel diverso piano della sufficienza e della intrinseca coerenza della motivazione adottata – con esiti però che, come detto, eccedono ampiamente dai ristretti limiti del sindacato consentito in questa sede -, non certo in quello del rispetto delle regole di riparto dell’onere probatorio.

6. La memoria che, come detto, è stata depositata dal ricorrente, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2, non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi.

7. Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali liquidate come da dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 18 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2021

 

 

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