Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8214 del 27/04/2020

Cassazione civile sez. I, 27/04/2020, (ud. 05/02/2020, dep. 27/04/2020), n.8214

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 25739/2015 proposto da:

C.A.R., elett.te domic. presso l’avvocato Maggi Patrizio,

dal quale è rappres. e difesa, con procura speciale in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

M.A., elett.te domiciliato presso l’avv. Roberto De

Guidi, dal quale è rappres. e difeso, con procura speciale in calce

al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4524/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

05/02/2020 dal Cons. Dott. CAIAZZO ROSARIO.

Fatto

RILEVATO

che:

Il Tribunale di Frosinone dichiarò la cessazione degli effetti civili del matrimonio tra M.A. e C.A.R., ponendo a carico del M. l’assegno divorzile mensile di Euro 300,00 in favore della C., rigettando la domanda di mantenimento della figlia maggiorenne (dichiarando non luogo a provvedere in ordine alle altre domande).

Il M. propose appello con ricorso del 22.11.13 deducendo l’erroneità della valutazione del Tribunale relativa all’attribuzione dell’assegno divorzile, che a dire dell’appellante era ingiustificata in considerazione delle risorse economico-patrimoniali dei coniugi, chiedendo dunque il rigetto della relativa domanda. L’appellata eccepì la tardività del gravame e l’infondatezza.

Con sentenza del 23.7.15, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza impugnata, rigettò la domanda di attribuzione dell’assegno divorzile formulata dalla C., nonchè l’appello incidentale proposto da quest’ultima, osservando che: in costanza di convivenza coniugale i coniugi avevano entrambi lavorato; in sede di separazione, la sentenza emessa il (OMISSIS) dispose l’assegno di mantenimento per la sola figlia, dichiarando invece inammissibile la domanda di mantenimento della C. (formulata per la prima volta all’udienza di precisazione delle conclusioni) la quale non l’aveva poi riproposta; la ricorrente aveva fatto fronte alle esigenze di sostentamento con propri mezzi per tutto il periodo della separazione sino al giudizio di divorzio, come desumibile anche dalle dichiarazioni dei redditi prodotte; dall’esame comparato delle dichiarazioni reddituali non era dato evincere una situazione di sperequazione tra i coniugi legittimante un riequilibrio dell’importo dell’assegno a favore della ricorrente.

C.A.M. ricorre in cassazione con due motivi.

Resiste M.A. con controricorso, eccependo l’inammissibilità del ricorso, ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, nonchè l’infondatezza del ricorso.

Diritto

RITENUTO

che:

Con il primo motivo si denunzia violazione ed errata applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 – come modificato dalla L. n. 74 del 1987, art. 9 – in ordine ai criteri relativi all’assegno di mantenimento, non avendo la Corte d’appello correttamente valutato l’adeguatezza dei mezzi di sostentamento della ricorrente, sulla base dei redditi dichiarati, comparati con i mezzi economici del M. (rappresentati dal godimento della casa coniugale e dalle utilità che se ne potrebbero trarre), e con riferimento al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Inoltre, la ricorrente si duole che la Corte territoriale non abbia considerato il suo contributo al matrimonio apportato attraverso il suo lavoro da sarta, nè le ragioni che l’avevano indotta a porre fine al matrimonio, in ordine alla condanna penale irrogata al M., con sentenza del Tribunale di Frosinone emessa nel 2006 (per il reato continuato di minaccia), nè la durata del matrimonio, pari a 34 anni di cui 25 di convivenza.

Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 2,3,29 Cost., avendo la Corte d’appello effettuato una differenziazione del tutto arbitraria tra la posizione del M. e quella della ricorrente, non considerando l’attività lavorativa non dichiarata dello stesso ex-marito effettuata dopo la cessazione formale della sua impresa, a differenza invece dell’attività non dichiarata della C. richiamata nella sentenza impugnata.

Il ricorso è inammissibile.

Va premessa l’infondatezza dell’eccezione d’inammissibilità del ricorso per carenza di autosufficienza, in quanto il ricorrente ha esposto chiaramente le varie critiche.

Il primo motivo è inammissibile poichè diretto al riesame dei fatti inerenti all’attribuzione dell’assegno di mantenimento. Invero, la ricorrente si duole che la Corte d’appello avrebbe fatto un’erronea applicazione dei criteri di commisurazione del mantenimento, non tenendo conto di alcuni fatti (quali la sperequazione dei redditi, il godimento esclusivo da parte del controricorrente dell’ex casa coniugale, il contributo al matrimonio, le ragioni della decisione); tali profili sono stati, invece, tutti ben esaminati dal giudice di secondo grado con decisione immune da censure.

Peraltro, il riferimento alla condanna penale del M. appare inammissibile perchè questione nuova, non dedotta nelle fasi di merito, non avendo la ricorrente indicato la fase processuale in cui tale questione sarebbe stata introdotta.

Va altresì osservato che la ricorrente ha dichiarato che percepiva, in costanza di separazione, la somma di Euro 154,00 per il mantenimento della figlia maggiorenne che, però, utilizzava per le proprie esigenze, per cui la doglianza sul diverso tenore di vita non è pertinente, non trattandosi di somma a lei assegnata, a nulla rilevando il riferimento all’erronea difesa del precedente difensore circa la mancata richiesta dell’assegno di mantenimento che, anzi, può essere considerato ulteriore indice dell’infondatezza della doglianza sul punto.

Il secondo motivo è inammissibile, poichè formulato genericamente riguardo all’asserita discriminazione tra la posizione della ricorrente e quella del M. in ordine alla diversa valutazione dell’attività lavorativa di entrambi che la Corte di merito ha effettuato, valorizzando – sulla base della dichiarazione della stessa ricorrente anche i proventi dell’attività di sarta della C. svolta dopo il 2013, nel ritenere verosimile e presumibile che quest’ultima abbia continuato a lavorare dopo la separazione (avendo dichiarato redditi proprio fino al 2013, come emerge dalla sentenza impugnata). Riguardo a tale ultimo profilo la doglianzai non è, peraltro, pertinente alla ratio decidendi, poichè dalla sentenza non si desume che sia stato oggetto dell’appello la questione dell’attività del M. svolta dopo la cessazione della sua impresa nel 2013.

Tenuto conto della particolarità della lite, sussistono i presupposti per la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2020

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