Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8191 del 27/04/2020

Cassazione civile sez. II, 27/04/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 27/04/2020), n.8191

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29596-2015 proposto da:

B.E., in proprio e quale titolare della ditta individuale

Agenzia Commercio Internazionale Servizi Professionali

Agroalimentari (ACISPA), rappresentato e difeso dall’Avvocato

MAURIZIO RIPEPI, ed elettivamente domiciliato presso lo studio

dell’Avv. Bernardo Serrao, in ROMA, VIA LORENZO il MAGNIFICO 110;

– ricorrente –

contro

CONF.ORT s.r.l., in Concordato preventivo, in persona del Commissario

Giudiziale Dott. D.D.S., rappresentata e difesa dagli

Avvocati FEDERICO F. MONTI e MARCO NICOLOSI ed elettivamente

domiciliata presso lo studio del secondo, in ROMA, VIA LIMA 28;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2283/2015 della CORTE d’APPELLO di MILANO,

depositata il 26/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

01/10/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con decreto ingiuntivo n. 20138/2013, emesso in data 23.5.2013 su istanza della CONF.ORT s.r.l., il Tribunale di Milano condannava B.E., in proprio e in qualità di titolare della DITTA AGENZIA COMMERCIO INTERNAZIONALE SERVIZI PROFESSIONALI AGROALIMENTARI (ACISPA) al pagamento della somma di Euro 27.532,71, oltre interessi e spese legali, per il mancato pagamento di prodotti di natura ortofrutticola.

Avverso il decreto ingiuntivo proponeva opposizione il B., in proprio e quale titolare della ACISPA, contestando in parte la pretesa monitoria (in quanto non dovuta) ed eccependo l’avvenuta estinzione della restante parte per compensazione con crediti vantati nei confronti dell’istante per un importo pari ad Euro 23.461,53 (per pretese prestazioni consulenziali).

Si costituiva la CONF. ORT s.r.l. contestando di aver mai conferito alcun incarico professionale al B..

Con sentenza n. 11519/2014 in data 1.10.2014, il Tribunale di Milano rigettava l’opposizione confermando il decreto ingiuntivo opposto e condannando l’opponente alle spese di lite.

Avverso detta sentenza proponeva appello il soccombente chiedendone la riforma nella parte in cui: il Giudice di primo grado riteneva non fornita la dimostrazione del preteso conferimento dell’incarico e dell’accordo in ordine alla determinazione del compenso; il Giudice affermava che il B. non avesse prodotto concrete e specifiche prove documentali (della lettera di incarico era stata prodotta solo un’autorizzazione al trattamento dati personali, ma non la lettera vera e propria, mentre le mails non erano riconosciute dalla convenuta) e che avesse articolato prove orali, la genericità della cui formulazione rendeva i capitoli inammissibili; il Tribunale riteneva di non utilizzare le mails prodotte dall’opponente in quanto disconosciute dalla convenuta; il Tribunale riteneva irrilevante la limitata ammissione di una pretesa economica del B. in sede di concordato preventivo della CONF.ORT, atteso che detta ammissione opera ai soli fini del riconoscimento del diritto di voto in sede concordataria, ma non costituisce accertamento definitivo del debito; il Tribunale affermava che nel doc. 3 della convenuta era previsto il riconoscimento del 10% del valore delle vendite effettuate dal B. nella sua veste di “appoggiato”.

L’appellante concludeva chiedendo la revoca della sentenza per essere viziata e carente nella motivazione, oltre che ingiusta nel dispositivo, in quanto frutto di erronea applicazione di legge e delle risultanze probatorie.

Con sentenza n. 2283/2105, depositata in data 26.5.2015, la Corte d’Appello di Milano rigettava l’appello condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite del grado.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione B.E., in proprio e quale titolare della ACISPA, sulla base di tre motivi; resiste la Conf. Ort, in concordato preventivo, con controricorso. Quest’ultima ha anche depositato memoria illustrativa, peraltro fuori termine.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce l'”Omessa pronuncia su domande proposte dal ricorrente, conseguente omessa motivazione su fatti decisivi della controversia”. Secondo il ricorrente la sentenza impugnata sarebbe stata emessa in violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, essendo stata omessa la pronuncia sulle istanze istruttorie dirette a dimostrare elementi decisivi della controversia e non era fornita alcuna motivazione. L’omessa pronuncia si estenderebbe a tutte le prove documentali fornite che non sono state valutate senza motivazione.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – Costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 26 maggio 2015) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente – con riguardo e nei limiti della richiamata peculiare ampiezza dell’ambito decisionale del giudizio di rinvio – avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Viceversa, nel motivo in esame (riferito genericamente all’intero contesto decisionale della impugnata sentenza, e non ad evidenziati passaggi motivazionali, asseritamente omessi, in ordine alla ammissione delle specifiche istanze istruttorie del ricorrente), della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è idonea e specifica indicazione. Laddove, poi, è inammissibile l’invocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per sostenere il mancato esame di deduzioni istruttorie, di documenti, di eccezioni di nullità della sentenza non definitiva e degli atti conseguenti, di critiche rivolte agli elaborati peritali (ovvero di semplici allegazioni difensive a contenuto tecnico), o per lamentarsi di una “motivazione non corretta” (Cass. n. 27415 del 2018, cit.); giacchè nel paradigma di cui al citato art. 360 c.p.c., n. 5, non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce “Il fatto decisivo della controversia”, in quanto un’adeguata istruttoria e una puntuale valutazione della documentazione prodotta avrebbero portato in luce la realtà dei fatti e, quindi, a una decisione contraria a quella fornita dal Tribunale e poi confermata in sede di gravame. In particolare, per il ricorrente, l’elemento decisivo della controversia risiedeva nella sussistenza di un conferimento di incarico consulenziale in capo al ricorrente, rispetto al quale i Giudici di merito, nonostante la sussistenza di tutta una serie di indizi, hanno ritenuto irrilevanti tutte le prove costituite.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – E’ agevole rilevare che (a dispetto della oscura titolazione del motivo) il ricorrente si duole, in realtà, del fatto che le istanze istruttorie sottoposte al Tribunale non siano state giudicate meritevoli di accoglimento e che le prove documentali siano state ritenute insufficienti o irrilevanti. Viceversa risultando chiaramente dalla lettura della sentenza impugnata che le istanze istruttorie del B. siano state rigettate in quanto valutate inammissibili e/o irrilevanti ai sensi dell’art. 183 c.p.c. e che le prove documentali siano state disattese con motivazioni ampie e congrue.

Vale pertanto il consolidato principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, ed il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013).

Così come articolate, le censure portate dal motivo si risolvono, viceversa, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte, così mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Ma compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è ampiamente dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la “Omessa pronuncia in merito alla domanda formulata sulle spese e sull’errato rigetto delle domande riconvenzionali”, sottolineando che erroneamente il Tribunale ha rigettato delle domande riconvenzionali mai svolte dal medesimo; e, nonostante si sia chiesta la riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’Appello ha taciuto sul punto. E anche la domanda di riforma della sentenza di primo grado circa le spese liquidate non è stata esaminata dalla Corte di merito.

3.1. – Il motivo non è fondato.

3.2. – Per costante orientamento, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese. Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di Cassazione è, pertanto, limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa (fenomeno che non si è verificato nel caso in esame), con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti (Cass. n. 22872 del 2018; Cass. n. 19613 del 2017).

Nel caso di specie – a prescindere dalla non rilevante qualificazione della pretesa azionata dall’odierno ricorrente, quale domanda riconvenzionale ovvero eccezione di compensazione – il ricorrente non ha neppure prospettato che i limiti massimi di quantificazione delle spese siano stati superati; nè ha dato conto dei motivi che avrebbero dovuto condurre a una diversa decisione.

4. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2020

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