Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8176 del 24/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 24/03/2021, (ud. 24/09/2020, dep. 24/03/2021), n.8176

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8952/2013 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello

Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei

Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

G.C., S.C., S.L. e S.A.,

rappresentati e difesi, giusta procura in calce al controricorso,

dall’Avv. Claudio Lucisano, dall’Avv. Maria Sonia Vulcano,

dall’Avv. Stefano Carmini e dall’Avv. Daniela Zarboni, elettivamente

domiciliati presso lo studio dei primi due, in Roma, via Crescenzio

n. 91;

-controricorrenti – ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, n. 11/30/2012, depositata il95 febbraio 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 settembre

2020 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva parzialmente l’appello proposto dalla S.G. s.a.s. e dai soci S.G., G.C., S.A. e S.L., avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bergamo, che aveva rigettato i ricorsi dei contribuenti contro gli avvisi di accertamento emessi, con il metodo analitico-induttivo, nei loro confronti, in quanto risultava che nei primi tre mesi del 2003 la società S.G. s.a.s., esercente attività di vendita di prodotti ortofrutticoli all’ingrosso, aveva acquistato dalla S. s.r.l., composta dagli stessi soci, prodotti ad un prezzo superiore a quello di mercato, con successiva rivendita ad un costo inferiore a quello di acquisto, senza alcun ricarico, ma con una perdita secca; l’Agenzia applicava una percentuale di ricarico media tenendo conto della media dei ricarichi praticati negli anni 2002-2004 dalla stessa società contribuente e dalla altra società del medesimo gruppo imprenditoriale, accertando ricavi non contabilizzati per Euro 1.245.917,00. Il giudice di appello rilevava che lo sbilancio tra costi e ricavi non integrava da solo una grave incongruenza di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, tale da legittimare l’utilizzo del metodo induttivo, in presenza di contabilità formalmente regolare. Lo sbilancio era, poi, di lieve entità (6,48 %) e si era verificato per un periodo limitato di tempo, dall’1-1-2003 al 31-3-2003.

Trattavasi, poi, di transfer price interno, in quanto la contribuente aveva acquistato la merce dalla S. s.r.l. ad un prezzo superiore a quello di mercato, “trasferendo in tal modo reddito…alla s. s.r.l., società alla quale intendeva trasferire ogni sua attività”. Alcuni costi, poi, per Euro 175.264,00, non erano inerenti, in quanto attenevano alla attività svolta dalla S. s.r.l. e non alla S. s.a.s., ormai solo parzialmente attiva dopo la cessione di azienda avvenuta nell’aprile 2003, con dismissione di tutto il personale dipendente e di parte dei luoghi di esercizio dell’attività. Altri costi per Euro 6.751,00 (premi a clienti e legali e consulenze) non erano di competenza dell’anno 2003, in assenza di documentazione idonea.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate. 3.Resistono con controricorso i contribuenti, proponendo anche ricorso incidentale e depositando, successivamente, memoria scritta.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Anzitutto, si rileva che non è fondata l’eccezione articolata dai controricorrenti di inammissibilità del ricorso per cassazione della Agenzia delle entrate in quanto notificato alla società S.G. s.a.s., che però era stata cancellata il 4-3-2012.

1.1. Invero, il ricorso per cassazione risultai notificato alla ” S.G. s.a.s. di S.G., attualmente cancellata senza liquidazione e per essa ai relativi soci S.G., G.C., S.A., S.C. e S.L.”.

Pertanto, nella notificazione si dà atto espressamente della intervenuta cancellazione della società e della notifica effettuata, dunque, ai soci.

Infatti, per questa Corte, a Sezioni Unite, in tema di società, una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2495 c.c., comma 2, come modificato dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4, nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l’estinzione immediata delle società di capitali, impone un ripensamento della disciplina relativa alle “società commerciali di persone”, in virtù del quale la cancellazione, pur avendo natura dichiarativa, consente di presumere il venir meno della loro capacità e soggettività limitata, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali, rendendo opponibile ai terzi tale evento, contestualmente alla pubblicità nell’ipotesi in cui essa sia stata effettuata successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 6 del 2003, e con decorrenza dal 1 gennaio 2004 nel caso in cui abbia avuto luogo in data anteriore (Cass., sez. un., 22 ottobre 2010, n. 4060).

Successivamente questa Corte, sempre a lezioni Unite, ha chiarito che, dopo la riforma del diritto societario, attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, la cancellazione dal registro delle imprese estingue anche “la società di persone”, sebbene non tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo siano stati definiti. Pertanto, la prova contraria, idonea a superare l’effetto di pubblicità dichiarativa che l’iscrizione della cancellazione spiega per la società di persone, non può vertere sul fatto statico della pendenza di rapporti sociali non definiti, occorrendo, viceversa, la prova del fatto dinamico della continuazione dell’operatività sociale dopo l’avvenuta cancellazione, la quale soltanto giustifica, ai sensi dell’art. 2191 c.c., la cancellazione della cancellazione, cui consegue la presunzione che la società non abbia mai cessato di esistere (Cass., sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070).

1.2. E’ infondata anche la successiva eccezione formulata dai controricorrenti in ordine alla asserita inesistenza del ricorso per cassazione, in quanto notificato al precedente difensore domiciliatario presso lo studio D.B. e/o A.O., invece che al nuovo difensore domiciliatario, Dott.ssa L.P., come risultava dalla sentenza di appello “corretta” con atto di costituzione di nuovo difensore, con procedimento ex art. 287 c.p.c. comunicato anche alla Agenzia delle entrate.

Invero, la notifica dell’impugnazione effettuata nei confronti dell’originario difensore revocato, anzichè in favore di quello nominato in sua sostituzione, non è inesistente, ma nulla, anche ove la controparte abbia avuto conoscenza legale di detta sostituzione, sicchè la stessa è rinnovabile ai sensi dell’art. 291 c.p.c. (Cass., sez. 5, 24 gennaio 2018, n. 1798; Cass., sez. un., 14916/2016). Tale principio può essere esteso anche all’ipotesi di notifica del ricorso per cassazione al precedente difensore domiciliatario (Cass., sez. L, 2 novembre 2017, n. 26091).

Trattandosi di una ipotesi di nullità della notificazione, la stessa è stata sanata, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, con la costituzione dei controricorrenti, che hanno provveduto alla notifica del controricorso alla Agenzia delle entrate in data 14-5-2013.

1.3. Va respinta anche l’ulteriore eccezione dei controricorrenti relativa alla mancata notifica del ricorso per cassazione nei confronti di S.G., nè personalmente, nè nei confronti dei suoi eredi.

Invero, non essendo noto il decesso di S.G., avvenuto il 23-112012, al tempo della notifica del ricorso per cassazione, in data 27-3-2013, egli è stato destinatario del ricorso sia in proprio, come socio, sia come “successore” della società cancellata.

Inoltre, stante il decesso di S.G. il ricorso è stato, comunque, notificato a G.C., sua erede (cfr. pagina 15 del controricorso “anche la Signora G….quale erede di S.G.”), quale moglie di S.G., mentre i figli S.C., S.L. ed S.A., che pure hanno ricevuto la notificazione del ricorso, hanno dichiarato di aver rinunciato all’eredità.

Non si conoscono i nominativi di ulteriori eredi di S.G..

Pertanto, per questa Corte la non integrità del contraddittorio è rilevabile, anche d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del procedimento e, quindi, anche in sede di giudizio di legittimità, nel quale la relativa eccezione può essere proposta, anche per la prima volta, nel solo caso in cui il presupposto e gli elementi di fatto posti a fondamento della stessa emergano “ex sè” dagli atti del processo di merito, senza la necessità di nuove prove e dello svolgimento di ulteriori attività; in tal caso, tuttavia, la parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l’onere non soltanto di indicare le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari e di provarne l’esistenza, ma anche quello di indicare gli atti del processo di merito dai quali dovrebbe trarsi la prova dei presupposti di fatto che giustificano la sua eccezione (Cass., 2, 16 ottobre 2008, n. 25305, in tema di successioni ereditarie; Cass., sez. 2, 29 maggio 2007, n. 12504; Cass., sez. 3, 5 settembre 2011, n. 18110 in materia di opposizione all’esecuzione).

In particolare, si è affermato che se l’eccezione di non integrità del contraddittorio è sollevata in cassazione, la parte che la solleva deve indicare gli atti del processo di merito da cui dovrebbe trarsi la prova dei presupposti di fatti che giustificano la sua eccezione (Cass., 16315/2011, Cass., 25305/2008; Cass., 14825/2007). Tale indicazione non è ravvisabile nella censura in esame per non avere i controricorrenti dedotto che il presupposto e gli elementi di fatto posti a fondamento della sollevata eccezione di difetto di integrazione del contraddittorio emergevano, con evidenza, dagli atti del processo di merito. Tale deduzione era, invece, necessaria per evitare la necessità di nuove prove e di svolgimento di ulteriori attività, vietate in sede di legittimità.

Ne consegue che l’eccezione di difetto di integrità del contraddittorio risulta inammissibile.

1.4. Nè è fondata l’eccezione dei controricorrenti sulla formazione del giudicato interno in relazione all’Irpef. Invero, secondo i controricorrenti, poichè il giudizio aveva ad oggetto le obbligazioni Irap ed Iva nei confronti della società di persone e le obbligazioni Irpef a carico dei soci, per il regime di trasparenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, il ricorso per cassazione, dopo l’intervenuta cancellazione, doveva essere presentato per entrambe le tipologie di obbligazioni.

Il ricorso per cassazione, invece, sarebbe rivolto solo per le obbligazioni della società, Irap ed Iva, ma non per quelle relative ai soci (Irpef), essendo stato presentato contro la ” S.G. s.a.s. di S.G. attualmente cancellata senza liquidazione e per essa i relativi soci…”, sicchè il ricorso sarebbe rivolto esclusivamente contro la società estinta, essendo chiamati i soci solo “per essa”, a seguito della sua estinzione, quindi non includendo l’Irpef.

In realtà, il ricorso per cassazione è stato indirizzato sia nei confronti della società, cancellata dopo il giudizio di secondo grado, sia nei confronti dei soci, “successori” della stessa a seguito della intervenuta estinzione ai sensi dell’art. 2495 c.c. Pertanto, il ricorso è riferito sia alle obbligazioni sociali di esclusiva pertinenza della società (Iva ed Irap), sia alle obbligazioni sociali Irpef “imputate” ai soci, in quanto l’Irpef della società solo per il meccanismo della trasparenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, si considera direttamente imputabile ai soci. Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, infatti, prevede che “i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice…sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione…”.

L’evocazione in giudizio della S. s.a.s., già cancellata, come dà atto la stessa Agenzia delle entrate, ha un’evidenza essenzialmente descrittiva del rapporto “successorio” dei soci rispetto alla società, ferma restando la loro legittimazione in proprio per trasparenza riguardo all’Irpef secondo le rispettive quote di partecipazione.

Pertanto, il riferimento del ricorso per cassazione “e per essa i soci” ricomprende l’intero oggetto della controversia.

2. Con un unico motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione o falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies; del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lettera d; del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, anche nel relativo combinato disposto, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto l’accertamento analitico-induttivo può fondarsi anche sull’entità del reddito dichiarato, ove in contrasto evidente con il comune buon senso e con le regole basilari della ragionevolezza, specie nel caso in cui la difformità della percentuale di ricarico raggiunga livelli di “abnormità” e “irragionevolezza”. Nella specie, l’abnormità è in re ipsa in quanto il ricarico “è addirittura negativo”. Nè il limite temporale di tre mesi giustifica tale ricarico “negativo”, in quanto nei successivi nove mesi è subentrata la nuova società S. s.r.l., con utilizzo di locali, dipendenti e clientela. La società non ha fornito alcuna giustificazione per tale comportamento antieconomico, ma ha esplicitamente dichiarato che l’unica ragione della anomalia dei conti aziendali si rinviene in una “strategia infragruppo”. Il giudice di appello rileva che la S. s.a.s. ha acquistato la merce ad un prezzo superiore a quello di mercato, trasferendo “reddito” alla S. s.r.l. (transfer price interno), società alla quale intendeva trasferire ogni sua attività. Vi è stato un maggior ricavo medio annuo per la S. s.r.l., proprio per la maggiore fatturazione fatta alla S. s.a.s., che acquistava tutta la merce dalla prima. La S. s.r.l. ha acquistato dai produttori, non avendo ancora la concessione dei posteggi nella (OMISSIS), ed ha venduto alla S. s.a.s., titolare della concessione per il posteggio, la quale ha poi rivenduto la merce ai clienti privati. Solo dall’aprile 2003 la S. s.r.l. ha potuto vendere in proprio, avendo ottenuto la voltura della concessione dei posteggi. La nozione di “gruppo” non può elidere l’autonomia di ciascuna società.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. Anzitutto, si rileva che si verte in una ipotesi di transfer price interno, cui non è applicabile la disciplina della transfer price internazionale di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7.

2.3. Invero, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7 (prima D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5) dispone che “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società, che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva un aumento del reddito; la stessa disposizione di applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito”.

L’art. 110, comma 2, prevede che “per la determinazione del valore normale dei beni e dei servizi…si applicano…le disposizioni dell’art. 9”.

Il medesimo D.P.R, art. 9, quindi, dispone che “per valore normale…si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti…Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso”.

2.4. Per questa Corte inizialmente i due ambiti, interno ed internazionale, erano del tutto impermeabili tra loro. Si è affermato, dunque, che il criterio del “valore normale”, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, comma 3 (nel testo anteriore alla riforma del 2004), non è utilizzabile per determinare i ricavi derivanti da cessioni di beni avvenute tra società del medesimo gruppo tutte aventi sede in Italia: sia perchè quel criterio è dettato dalla legge solo per le cessioni tra una società nazionale ed una estera, sia perchè il suddetto criterio, facendo riferimento ai listini del cedente ed agli “sconti d’uso”, presuppone che la cessione sia avvenuta in regime di libera concorrenza, verso soggetti estranei al gruppo di appartenenza del cedente (Cass., sez. 5, 20 dicembre 2012, n. 23551).

2.5. Successivamente si è, invece, ritenuto che le disposizioni di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, si applicassero anche al transfer price interno; sicchè nella valutazione a fini fiscali delle manovre sul trasferimento dei prezzi tra società facenti parte di uno stesso gruppo ed aventi tutte sede in Italia (“transfer pricing” domestico), va applicato il principio, avente valore generale e dunque non circoscritto ai soli rapporti internazionali di controllo, stabilito dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, che non ha mera portata contabile e che impone il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi presi in considerazione dal contribuente; si tratta, invero, di clausola antielusiva, costituente esplicazione del generale divieto di abuso del diritto in materia tributaria, essendo precluso al contribuente conseguire vantaggi fiscali – come lo spostamento dell’imponibile presso le imprese associate che, nel territorio, godano di esenzioni o minor tassazione – mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di legge, di strumenti giuridici idonei ad ottenere vantaggi in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (Cass., sez. 5, 24 luglio 2013, n. 17955, in una fattispecie di ricarico minimo, al 4 % invece che al 10,09 %, non altrimenti giustificato, nelle cessioni dalla controllante alla controllata, che godeva di agevolazioni per il territorio del Mezzogiorno; Cass., sez. 5, 13 giugno 2014, n. 13475, con indeducibilità di costi superiori a quelli di mercato per prezzi pagati ad una controllata, così trasferendo ad essa reddito imponibile). Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7, è stato, quindi, inteso come “clausola anitelusiva” che trova radici nel diritto unionale e nel principio dell’abuso del diritto. Vale, comunque, il principio per cui, in presenza di un comportamento antieconomico è legittimo l’accertamento del fisco ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, occorrendo anche valutare la sussistenza di “valide ragioni economiche”, funzionali a meccanismi di mercato in regime di libera concorrenza, in relazione al profilo della elusione.

2.6. Il D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 5, comma 2, ha, quindi, dettato una norma di interpretazione autentica, in base alla quale “la disposizione di cui al T.U.I.R., art. 110, comma 7, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato”.

2.7. Per questa Corte, dunque, le transazioni tra società infragruppo residenti nel territorio nazionale effettuate ad un prezzo diverso dal “valore normale” indicato dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, non sono indice, di per sè, di una condotta elusiva, rappresentando l’eventuale alterazione rispetto al prezzo di mercato solo un elemento aggiuntivo, di eventuale conferma, della valutazione di elusività dell’operazione, senza che possa applicarsi, in via analogica, la disciplina del “transfer pricing” internazionale recata dal citato D.P.R., art. 110, comma 7 (nel testo vigente “ratione temporis”), ostandovi il disposto – di interpretazione autentica – di cui al D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 5, comma 2, donde l’estraneità all’ordinamento tributario della nozione di “transfer pricing” domestico (Cass., sez. 5, 25 giugno 2019, n. 16948; con prezzo praticato al di sotto di quello applicato ai terzi, con operazione antieconomica, produttiva di una perdita commerciale).

Si è sottolineato in questa decisione (Cass., sez. 5, 16948/2019) che si è ormai esclusa la natura antielusiva del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7 (Cass., sez. 5, 29 gennaio 2019, n. 2387; Cass., sez. 5, 16 gennaio 2019, n. 898), in quanto finalizzata ad evitare lo spostamento di imponibile fiscale da una società ad un’altra del medesimo gruppo, sita in un Paese a fiscalità più favorevole. l’Amministrazione finanziaria ha, dunque, l’onere di provare l’esistenza di transazioni economiche, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, ma non anche quello di dimostrare la maggiore fiscalità nazionale o il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, perchè la normativa di riferimento non è una disciplina antielusiva in senso proprio, mentre spetta al contribuente provare che la transazione è avvenuta in conformità ai valori di mercato normali (Cass., sez. 5, 16 gennaio 2019, n. 898; Cass., sez. 5, 15 aprile 2016, n. 7493; Cass., sez. 5, 30 giugno 2016, n. 13387; Cass., sez. 5, 15 novembre 2017, n. 27018; Cass., sez. 5, 14 novembre 2018, n. 29306; Cass., sez. 5, 24 luglio 2015, n. 15642).

Occorre soffermarsi, quindi, in via esclusiva sul principio di libera concorrenza, sicchè la valutazione del valore normale attiene alla “sostanza economica” dell’operazione che va posta a confronto con analoghe operazioni stipulate in condizioni di libero mercato tra soggetti “indipendenti”.

Si è però valorizzata, in tema di trasfer price interno (Cass., sez. 5, 16948/2019), la valutazione sulla “antieconomicità” della condotta, in presenza della quale l’Amministrazione finanziaria può procedere ad accertamento analitico-induttivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d,; ciò in base al principio per cui chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti. In tal caso, lo scostamento dal “valore normale” può assumere rilievo quale parametro meramente indiziario. Pertanto, l’operazione che si pone al di fuori dei prezzi di mercato costituisce una possibile anomalia, sì da poter giustificare, in assenza di elementi contrari, l’accertamento, con conseguente onere in capo al contribuente di dimostrare che essa non sussiste.

2.8. Va, poi, evidenziato che la nozione di controllo societario non è quella di cui all’art. 2359 c.c., ma consiste nella capacità di una società di influenzare le strategie commerciali di un’altra, specie nel caso in cui le due società, entrambe a ristretta base partecipativa, siano composte dagli stessi soci (in tal senso anche circolare del Ministero delle finanze 22 settembre 1980, n. 32 per cui “il controllo deve essere esteso ad ogni ipotesi di influenza economica potenziale o attuale desumibile dalle singole circostanze, quali, in particolare: a) vendita esclusiva di prodotti fabbricati dall’altra impresa….d) membri comuni del consiglio di amministrazione; e) relazioni di famiglia tra le parti”; cfr. anche circolare 12 dicembre 1981, n. 42 del Ministero delle Finanze che fa riferimento alla “influenza di una impresa delle decisioni imprenditoriali dell’altra che va ben oltre i vincoli contrattuali od azionari sconfinando in considerazioni di fatto di carattere meramente economico…”, quindi al “potenziale o attuale potere di una parte di incidere sull’altrui volontà non in base al meccanismo del mercato ma in dipendenza degli interessi di una sola delle parti contrattuali”).

Per questa Corte, infatti, il controllo di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7, alla luce delle specifiche finalità antielusive della disciplina fiscale del “transfer pricing”, non coincide con quello di cui all’art. 2359 c.c., che, difatti, non è espressamente richiamato, ma si estende ad ogni ipotesi d’influenza economica potenziale o attuale desumibile da singole circostanze, tra cui, ad esempio, la vendita esclusiva, da parte di un’impresa, dei prodotti dell’altra o l’impossibilità di funzionamento di un’impresa senza il capitale, i prodotti e la cooperazione tecnica dell’altra (Cass., sez. 5, 22 aprile 2016, n. 8130).

2.9. Si è anche affermato (Cass., sez. 5, 25 giugno 2019, n. 16948) che, in relazione alle operazioni imprenditoriali di maggiore complessità o inserite in una strategia più generale, è ben possibile che, proprio nella logica del gruppo, siano compiuti da parte delle società dello stesso atti non onerosi, a beneficio delle consorelle o della controllante; sicchè, la contestazione della Agenzia delle entrate non può tradursi in una mera “non condivisibilità della scelta”, perchè apparentemente lontana dai canoni di mercato, che equivarrebbe ad un sindacato sulle scelte imprenditoriali, ma deve consistere nella positiva affermazione che l’operazione, sulla base di elementi oggettivi, era inattendibile.

Pertanto, si è aggiunto che “non è del tutto privo di rilievo il contesto di gruppo in cui l’operazione si inserisce, e ciò anche al di là della possibilità di fruire del consolidato fiscale”. In tal caso, si è confermata la pronuncia del giudice di merito che, con apprezzamento di fatto, ha escluso che una cessione di azienda avesse carattere antieconomico, in quanto l’operazione contestata si collocava “all’interno di una strategia economica diretta a raggiungere un risultato nell’interesse di tutte le società del gruppo”. Nè tale conclusione era scalfita dalla censura della Agenza delle entrate che aveva ravvisato la diseconomia della condotta nella sola divergenza dal valore normale della transazione, in quanto, proprio in linea con la configurazione di un interesse di gruppo, tale contestazione seppure giustificata, non poteva superare la valutazione del giudice di appello.

2.10. Il caso sopra richiamato è speculare a quello oggetto della presente controversia.

Invero, nella specie, il giudice di appello, ha affermato che la S. s.a.s., composta dagli stessi soci della S. s.r.l., ha acquistato dalla prima i prodotti ortofrutticoli in via esclusiva (l’intero quantitativo di prodotti), ad un prezzo superiore a quello di mercato, con rivendita al dettaglio ad un prezzo inferiore a quello di acquisto.

Inoltre, la Commissione regionale, con valutazione di fatto condivisibile, ha ritenuto insussistenti gli elementi indiziari di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d. In particolare, da un lato, lo sbilancio tra costi e ricavi non integrava di per sè una grave incongruenza ai sensi del D.L. 331 del 1993, art. 62 sexies, in quanto lo sbilancio tra i costi ed i ricavi risultava di modesta entità (6,48); dall’altro, tale sbilancio tra costi e ricavi si era verificato per un periodo limitato di tempo, ossia tra i mesi di gennaio e aprile del 2003.

Con altra valutazione, frutto anch’essa di congrui apprezzamenti di fatto, il giudice di appello ha rilevato (“per completezza”) che, trattandosi di un medesimo gruppo (transfer price interno), l’acquisto ad un prezzo superiore a quello di mercato “trasferiva” in tal modo reddito alla S. s.r.l., “alla quale essa intendeva trasferire ogni sua attività”.

3. Le valutazioni di merito compiute dalla Commissione regionale sono state contestate dalla Agenzia delle entrate solo sotto il profilo della violazione di legge, ed in particolare del D.L. n. 331 del 1993, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d, oltre che del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2.

L’Agenzia delle entrate quindi, non ha neppure proposto censure alla motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella stesura vigente prima delle modifiche di cui al D.L. n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze pubblicate a decorrere dall’11 settembre 2012. La sentenza della Commissione regionale è stata depositata il 15 febbraio 2012, sicchè era possibile anche la censura per insufficiente motivazione.

Peraltro, va sottolineato che entrambe le argomentazioni del giudice di appello sono condivisibili ed esaurienti: sia, in relazione alla insussistenza della “grave incongruenza” che consentiva l’utilizzo del metodo induttivo, sia, in aggiunta, anche in ordine alla sussistenza di un concreto interesse di gruppo. I soci della due società, in un’ottica complessiva dell’interesse di gruppo, hanno inteso cessare la loro attività come società in accomandita semplice, per entrare nel mercato ortofrutticolo con la nuova s.r.l. Nei primi mesi di attività commerciale sono rimaste in attività entrambe le società, in quanto la S. s.r.l. non aveva ancora ottenuto le necessarie concessioni per utilizzare i posteggi del mercato. E’ evidente la sussistenza dell’interesse di gruppo preminente su quello delle singole consorelle, dovendosi ancora ribadire che il giudice di appello, con motivazione congrua, ha ritenuto non verificata la “grave incongruenza” tra costi e ricavi, sia per il breve lasso temporale della attività commerciale presa in considerazione, sia per la modestia del divario tra costi e ricavi.

4. Il ricorso incidentale è infondato.

4.1. Per i controricorrenti, infatti, in relazione alle tre riprese sui costi non deducibili vi sarebbe “difetto di motivazione della sentenza impugnata”, oltre alla “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 5 (vigente ratione temporis”). In particolare il giudice di appello avrebbe omesso ogni esame delle argomentazioni di parte. Infatti, la S. s.a.s. è stata pienamente operativa sino all’1-4-2013 ed è stata, comunque, operativa, seppure con attività ridotta, fino a tutto il 31-12-2003. Inoltre, la S. s.a.s. Utilizzava le unità locali ed i mezzi di trasporto “spesati”. Peraltro, sussiste l’inerenza di tali spese, trattandosi di costi “infragruppo”. Vi sarebbe, altrimenti, una doppia imposizione economica, in quanto se tali costi sono inerenti all’attività della S. s.r.l., ma da questa non sono stati dedotti, essi avrebbero già subito imposizione in capo a detta società.

4.2. Invero, il giudice di appello ha ritenuto tali costi relativi alla attività di impresa svolta dalla S. s.r.l., nel periodo in cui la S. s.a.s., ossia dall’1-4-2003 al 31-12-2003, ha praticamente cessato di operare, avendo trasferito alla S. s.r.l. sia locali ed i mezzi, sia il personale. Già nel processo verbale di constatazione la indeducibilità è stata limitata al periodo successivo al 31-12-2003, “quando la S. s.a.s. aveva già dismesso tutto il personale dipendente e parte dei luoghi nei quali esercitava l’attività”. Non v’è stata, dunque, alcuna doppia imposizione economica.

5. Con il secondo motivo di ricorso incidentale i controricorrenti deducono “circa le spese non di competenza: violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 2 (vigente ratione temporis) e difetto di motivazione della sentenza impugnata”, in quanto il giudice di appello ha ritenuto erroneamente i costi di competenza dell’anno 2002 e non del 2003. Anche in questo caso la Commissione regionale avrebbe omesso ogni esame delle argomentazioni di parte.

5.1. Tale motivo è infondato.

Il giudice di appello ha, infatti, affermato che per i “premi a clienti” essi erano maturati nel 2003 ma per il fatturato svolto nel 2002, come “indicato dai documenti contabili”. Mentre, quanto ai costi per spese “legali e consulenze” i contribuenti non avevano fornito “sicura prova che la prestazione si fosse effettivamente verificata nel corso del 2003”.

Nel motivo non si confuta in alcun modo la circostanza della carenza di prova nè si indicano le prove che avrebbero dimostrato la competenza dei costi nel 2003.

6. Le spese del giudizio di legittimità vanno compensate per intero tra le parti per la reciproca soccombenza.

7. Non opera a carico dell’Agenzia ricorrente il raddoppio del contributo unificato (Cass., 890/2017; Cass., 5955/2014).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale.

Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti in via incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2021

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