Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8150 del 03/04/2018


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Cassazione civile, sez. lav., 03/04/2018, (ud. 31/01/2018, dep.03/04/2018),  n. 8150

Fatto

RILEVATO IN FATTO

CHE:

La Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza di prime cure che aveva dichiarato la nullità del ricorso proposto da T.G. nei confronti della s.p.a. Heinz Italia, accoglieva le domande proposte dal lavoratore volte a conseguire la declaratoria di inefficacia del licenziamento intimato in data 8/4/2010 ai sensi della L. n. 223 del 1991 e la condanna alla reintegra nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento sino alla effettiva reintegra.

Nel pervenire a tali conclusioni la Corte di merito argomentava che il ricorso introduttivo del giudizio si palesava sufficientemente specifico nella indicazione della causa petendi, definita nel senso della contestata violazione dei dettami di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9 e art. 5.

Esso era inoltre fondato, essendo emerso che la parte datoriale aveva omesso di indicare le modalità con le quali erano stati applicati i criteri di scelta sanciti da tale ultima disposizione.

La società non aveva infatti allegato, unitamente alla trasmissione dell’elenco dei lavoratori licenziati e dei criteri di scelta concordati con le organizzazioni sindacali, anche quello dei lavoratori rimasti in servizio e di quelli che avevano manifestato la volontà di non opporsi alla procedura di mobilità, con “le caratteristiche di ogni lavoratore”, onde consentire il debito scrutinio – con riferimento alla intera compagine aziendale – circa il rispetto dei summenzionati criteri.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la società affidato a cinque motivi resistiti con controricorso da T.G..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

1. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Ci si duole che il giudice del gravame abbia omesso di pronunziarsi sulla eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata dalla società con riferimento alla introduzione da parte appellante di nuovi temi di discussione, in violazione del divieto di nova sancito dall’art. 345 c.p.c..

2. Il motivo va disatteso.

Occorre premettere che la doglianza presenta profili di inammissibilità, apparendo incongrua la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto siffatta censura presuppone che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto (vedi Cass. 27/1/2006 n. 8755); così come incongrua si presenta la denuncia del vizio di omesso esame di un fatto decisivo, che presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (vedi Cass. 8/10/2014 n. 21257); ipotesi – questa – non assimilabile alla fattispecie qui scrutinata, avente ad oggetto l’omessa disamina, da parte della Corte di merito, di una eccezione di inammissibilità del gravame.

In ogni caso il motivo è infondato giacchè il denunciato vizio non sussiste quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto dell’eccezioni in rito, ipotesi che si verifica allorquando, proposta un’eccezione di inammissibilità dell’appello, la sentenza impugnata abbia valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame (in questi termini, vedi Cass. 8/3/2007 n. 5351).

Nello specifico deve infatti ritenersi che l’ampia disamina dei motivi di gravame da parte della Corte capitolina sia stata espressione di un rigetto implicito della eccezione di inammissibilità dell’appello proposta dalla società, onde la pronuncia resiste alla censura all’esame.

3. Con la seconda critica si prospetta violazione e falsa applicazione degli artt.101 e 414 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si ribadisce l’erroneità degli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito, che ha delibato in ordine ad argomenti nuovi rispetto a quelli sviluppati con il ricorso introduttivo, del tutto privo di specifiche contestazioni inerenti alla violazione dei dettami di cui alla L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, come tale da ritenersi radicalmente nullo.

4. La censura è infondata.

Anche nel processo del lavoro, l’interpretazione della domanda rientra nella valutazione del giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità ove sia stata motivata, con valutazione del contenuto e della portata dell’atto, alla luce delle richieste formulate e delle giustificazioni giuridiche offerte (vedi Cass. 24/7/2012, n. 12944).

Nello specifico la Corte distrettuale ha ampiamente argomentato in ordine alla specificità del ricorso introduttivo, corredato dalla indicazione delle ragioni fondanti la dedotta nullità della procedura L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, quindi, delle “singole circostanze di fatto e di diritto su cui è fondata l’azione oltre che l’allegazione specifica dei titoli sui quali si fondano le pretese” che trovano ampio riscontro negli atti, come riprodotti da parte ricorrente. Risulta infatti dedotto in sede di ricorso introduttivo il difetto di comunicazione richiesta dalla disposizione di cui all’art. 4, comma 9 cit. e contestata la non corretta applicazione dei criteri di scelta da parte aziendale, per la mancanza di ogni raffronto fra la posizione del lavoratore licenziato con quella dei dipendenti rimasti in servizio. Si tratta di allegazioni che definiscono la causa petendi, e risultano ritualmente riproposte in atto di appello; la statuizione non resta, pertanto, scalfita, dalla critica formulata.

5. Il terzo motivo denunzia violazione della L. n. 223 del 1991, ex art. 360, comma 1, n. 3, nonchè errata o falsa applicazione di norme di diritto in ordine al rigetto della domanda di conversione del rapporto per giustificato motivo oggettivo. Si deduce che l’inserimento dei “licenziamenti motivati da esigenze strutturali aziendali…nell’ambito di procedura di mobilità, non consente di poter escludere, come asserito dalla Corte territoriale, la conversione del licenziamento comminato in esito ad una procedura di mobilità in licenziamento per giustificato motivo”.

6. Anche detto motivo va disatteso alla stregua dei dicta di questa Corte, secondo cui dopo l’entrata in vigore della L. n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo che si distingue dal licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, essendo specificatamente caratterizzato in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa, al numero dei licenziamenti, all’arco temporale entro cui gli stessi sono effettuati, ed essendo inderogabilmente collegato al controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridimensionamento dell’azienda. Ne deriva che, qualora il datore di lavoro che occupi più di 15 dipendenti intenda effettuare, in conseguenza di una riduzione o trasformazione dell’attività di lavoro, almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni, è tenuto all’osservanza delle procedure previste dalla legge stessa, mentre resta irrilevante che il numero dei licenziamenti attuati a conclusione delle procedure medesime sia eventualmente inferiore, così com’è inammissibile la “conversione” del licenziamento collettivo in licenziamento individuale (vedi Cass. 22/11/2011 n. 24566, Cass. 29/10/2010 n. 22167).

A differenza di quanto avveniva nel precedente contesto legale, non è più, in definitiva, la specifica ragione addotta a sostegno della risoluzione del rapporto di lavoro a caratterizzare la riduzione del personale e a distinguerla dal licenziamento plurimo, ad assumere rilievo decisivo, venendo ad essere piuttosto l’espletamento dell’iter procedurale previsto dall’art. 4 della Legge medesima (cfr. ex multis, Cass. 6/7/2000 n. 9045).

7. Con la quarta e la quinta censura la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè dell’art. 112 c.p.c., ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 1227 c.c.; critica la sentenza impugnata per aver rigettato l’istanza di detrarre dall’ammontare del risarcimento del danno gli importi percepiti a titolo di indennità di mobilità, in quanto erogati per un diverso titolo. Considerato che la procedura di mobilità era stata dichiarata illegittima a seguito del sindacato giudiziale, doveva ritenersi venuto meno il presupposto del diritto del lavoratore a percepire detta indennità. In violazione dell’art. 1223 c.c., la Corte distrettuale avrebbe dunque omesso di detrarre l’aliunde perceptum dall’ammontare del risarcimento del danno riconosciuto in favore del lavoratore.

8. Le doglianze, da trattarsi congiuntamente per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, sono infondate.

La statuizione impugnata è conforme a diritto perchè coerente con l’orientamento espresso da questa Corte, al quale va data continuità, secondo cui in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, le indennità previdenziali non possono essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato a titolo di risarcimento danni in favore del lavoratore, in quanto queste non sono acquisite in via definitiva dal lavoratore e sono ripetibili dagli istituti previdenziali (vedi ex plurimis, Cass. 14/2/2011, n. 3597).

9. Al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso va pertanto respinto.

Consegue, per il principio della soccombenza, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese inerenti al presente giudizio di legittimità nella misura in dispositivo liquidata, con distrazione in favore dell’avv. Pier Luigi Panici, dichiaratosi antistatario.

Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge, spese da distrarsi in favore dell’avv. Pier Luigi Panici, antistatario.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 31 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2018

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