Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8145 del 29/03/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 29/03/2017, (ud. 19/01/2017, dep.29/03/2017),  n. 8145

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21056/2014 proposto da:

SCARDELLATO S.R.L., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

FLAMINIA 213, presso lo studio dell’avvocato ROMOLO REBOA, che la

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.N., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE G. MAZZINI 73, presso lo studio degli avvocati ANDREA FIORE e

FULVIO DE CRESCIENZO, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato SERGIO VACIRCA,giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1761/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/03/2014 r.g.n. 9631/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/01/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

uditi gli Avvocati SERGIO VACIRCA e FULVIO DE CRESCIENZO.

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 12.3.14 la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame della Scardellato S.r.l. contro la sentenza n. 3184/11 del Tribunale capitolino che, accertata la natura subordinata anzichè autonoma del rapporto di lavoro intercorso dal 1.2.02 fra detta società e F.N., ha dichiarato il diritto di quest’ultima ad essere riammessa in servizio ed ha condannato la società a pagarle le retribuzioni maturate dal 23.7.07.

Per la cassazione della sentenza ricorre la Scardellato S.r.l. affidandosi a tre motivi.

F.N. resiste con controricorso, poi ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c..

Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2735 c.c., per avere la Corte territoriale attribuito maggiore rilevanza probatoria, in tema di qualificazione giuridica del rapporto, alle testimonianze anzichè alla confessione resa dall’odierna controricorrente agli ispettori INPS in occasione d’una ispezione avvenuta presso i locali dell’azienda, confessione in cui aveva implicitamente ammesso la natura autonoma del rapporto.

1.2. Il motivo – benchè ammissibile e procedibile (contrariamente a quanto eccepito dalla controricorrente) in quanto il documento su cui si basa è stato interamente trascritto in ricorso e ne è stata anche indicata l’esatta collocazione nell’incarto processuale – è, nondimeno, infondato.

Lo è vuoi perchè il tenore del documento (per come trascritto in ricorso) non afferma affatto quel che pretende la società ricorrente, ma – anzi sostanzialmente conferma le allegazioni su cui si è basata la lavoratrice, vuoi perchè – a monte – trascura che per sua stessa natura la confessione non ha ad oggetto opinioni o giudizi circa la qualificazione giuridica d’un dato rapporto (che spetta al giudice), ma solo fatti obiettivi (cfr. Cass. n. 21509/11; Cass. n. 3453/71).

2.1. Il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c. e art. 409 c.p.c., nella parte in cui la sentenza ha omesso di considerare che l’onere probatorio della natura subordinata del rapporto incombe sulla lavoratrice, sicchè, in mancanza di elementi gravi, precisi e concordanti in tal senso, la Corte territoriale avrebbe dovuto concludere per l’insussistenza del vincolo della subordinazione.

2.2. Il motivo è, ancor prima che infondato, ininfluente ai fini del decidere, atteso che qualunque questione in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio in tanto si pone in quanto in sua applicazione sia stata emessa la sentenza a fronte di prove carenti o contraddittorie, non anche quando – come avvenuto nella vicenda processuale in oggetto – la causa sia stata decisa in base al positivo accertamento dei fatti allegati a sostegno della pretesa azionata.

Per il resto, le ulteriori considerazioni del ricorso circa le risultanze istruttorie e la loro valenza ne sollecitano sostanzialmente un rinnovato apprezzamento nel merito, operazione non consentita in sede di legittimità.

3.1. Con il terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., in ordine alla risoluzione del rapporto per mutuo consenso, visto il decorso del tempo e il generale comportamento tenuto dalla controricorrente dopo la scadenza del termine apposto all’originario contratto stipulato fra le parti.

3.2. Il motivo è infondato.

La giurisprudenza di questa S.C. – cui va data continuità – è ormai da tempo consolidata nello statuire che la mera inerzia del lavoratore fra la scadenza del termine e l’iniziativa giudiziaria (due anni, nel caso in esame) non è di per sè sufficiente a far ritenere una risoluzione del rapporto per mutuo consenso. Affinchè possa configurarsi una tale risoluzione è invece necessario che sia accertata – sulla base di ulteriori e significative circostanze – una chiara e certa volontà comune di porre fine ad ogni rapporto lavorativo (cfr., per tutte e da ultimo, Cass. n. 22489/16).

Afferma (fra le altre) Cass. n. 9583/2011 che grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze da cui ricavare la volontà chiara e certa delle parti di far cessare definitivamente il rapporto di lavoro (v. ancora, ex aliis, Cass. 2.12.2002 n. 17070).

Riepilogando, per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o, comunque, a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra il licenziamento (o la scadenza d’un termine illegittimamente apposto) e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso).

4.1. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2017

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