Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8141 del 23/04/2020

Cassazione civile sez. III, 23/04/2020, (ud. 23/01/2020, dep. 23/04/2020), n.8141

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14550-2017 proposto da:

H.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE

106, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO FALVO D’URSO,

rappresentata e difesa dall’avvocato FERDINANDO AMATA;

– ricorrente –

contro

D.M.G., quale unico erede di M.A., elettivamente

domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 76, presso lo studio

dell’avvocato ANTONELLA CARNEVALI, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato LUISA CARROZZA;

H.G., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

MAURO BARBERIS;

– controricorrenti –

e contro

A.R., + ALTRI OMESSI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 405/2016 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 13/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/01/2020 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

Fatto

RILEVATO

che:

Con ricorso depositato il 9 marzo 2005 D.M.A., agendo quale legale rappresentante della disciolta Cooperativa Sant’Anna 2 nonchè in proprio e quale procuratrice speciale di A.R., + ALTRI OMESSI, adiva il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, sezione speciale agraria, perchè nei confronti degli eredi di H.C. – la vedova L.S. (seconda moglie) e i figli H.A., H.C., H.G. (da primo matrimonio) e H.I. (da secondo matrimonio) – fosse dichiarato risolto il contratto d’affitto di vari terreni stipulato tra la cooperativa e controparte, che sarebbe stata inadempiente, con conseguente condanna al rilascio e al pagamento dei canoni non corrisposti. Tutti i convenuti, tranne la vedova, si costituivano resistendo, tra l’altro H.C. e H.I. proponendo pure domanda nei confronti del custode giudiziario dell’Azienda Agricola Eredi di C.H., C.F.. Con sentenza non definitiva del 20 ottobre 2005 il

Tribunale dichiara risolto il contratto per grave inadempimento della parte conduttrice, ordinando il rilascio. Rimessa la causa in istruttoria e svolte appunto attività istruttorie, il Tribunale, con sentenza definitiva del 26 maggio 2008, condannava esclusivamente H.I. a corrispondere all’attrice la somma di Euro 62.239,79 oltre interessi.

H.I. proponeva appello principale e D.M.A. appello incidentale; si costituivano H.C. (facendo proprio l’appello principale), H.A. e H.G. (che chiedevano il rigetto dell’appello) e il custode giudiziario C. (che pure resisteva). Nelle more del giudizio decedeva D.M.A.; il giudizio veniva riassunto da H.I. (quale unico erede di D.M.A. si costituiva D.M.G.. La Corte d’appello di Messina, sezione specializzata agraria, rigettava l’appello principale e accoglieva l’appello incidentale elevando l’importo, al cui pagamento l’appellante principale era condannata, a Euro 98.465,11 oltre interessi legali – con sentenza del 13 luglio 2016.

H.I. ha proposto ricorso, che veicola due gruppi di motivi – il primo riguardante la decisione della corte territoriale sull’appello principale, consistente in quattro motivi, e il secondo relativo alla decisione della corte territoriale sull’appello incidentale, consistente in tre motivi -, proponendo in totale sette motivi.

In primo luogo deve esaminarsi il gruppo relativo alla decisione sull’appello principale.

Il primo motivo, rubricato come vertente sull’erronea dichiarazione di inammissibilità delle censure d’appello A, B, C, D ed E, denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2 e art. 345 c.p.c.

La corte territoriale avrebbe ritenuto argomentazioni nuove le censure dell’appello principale A, B, C, D ed E, e perciò le avrebbe giudicato inammissibili per violazione dell’art. 345 c.p.c.

Premesso che, trattandosi di diritto agrario, si sarebbe semmai dovuto affermare la violazione dell’art. 437 c.p.c., la ricorrente invoca S.U. 12310/2015 per sostenere che tali censure non avrebbero costituito dei nova, perchè non avrebbero riguardato una diversa vicenda sostanziale. Si tratterebbe comunque di mere deduzioni o eccezioni in senso lato e quindi rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado.

In particolare, la censura sub A avrebbe lamentato l’erroneo fondamento della sentenza impugnata sulla sentenza parziale n. 44/2002 resa dal Tribunale di Pozzo di Gotto in un altro giudizio di oggetto successorio (relativo appunto all’eredità del padre della attuale ricorrente) n. 943/1996 R.G., ancora pendente in primo grado. Tale sentenza aveva riconosciuto valido il testamento olografo del de cuius H.C.; su di essa era stata fatta riserva d’appello e comunque essa non sarebbe idonea a esplicare effetti, non essendo esecutiva bensì mera sentenza d’accertamento, che avrebbe assunto efficacia solo al passaggio in giudicato e non avrebbe invece rivestito efficacia anticipata ai sensi dell’art. 282 c.p.c. Quindi la censura non avrebbe addotto una domanda nuova, bensì la violazione dell’art. 282 c.p.c.

La censura sub B avrebbe lamentato anch’essa violazione di legge, affermando che il rapporto di affitto sarebbe esteso a tutti gli asseriti proprietari pro quota (nella premessa del ricorso si rilevava altresì che in tale censura si sarebbe fatto valere che parte dei terreni dell’azienda sarebbe rientrata nell’eredità della prima moglie di H.C. sr., per sostenere che H.A. e H.G. non avrebbero potuto restare estranei alla controversia).

La censura sub C, ancora riferendosi ad errata interpretazione della sentenza n. 44/2002, avrebbe argomentato per la legittimazione passiva di H.A. e H.G. in quanto obbligati a conferire nella massa ereditaria alcuni beni o il loro valore, richiamando per la rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado della legittimazione processuale S.U. 2951/2016.

La censura sub D avrebbe addotto l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario effettuata dall’attuale ricorrente il 24 febbraio 1996; tale tipo di accettazione non sarebbe fondamento di un’eccezione in senso lato (S.U. 10531/2013) per cui non sarebbe un novum.

La censura sub E avrebbe riguardato il difetto di legittimazione di D.M.A., e pure questo non avrebbe integrato un novum. Nella premessa del ricorso si specificava che ella sarebbe decaduta dal diritto a chiedere al de cuius o agli eredi alcunchè per non avere fatto dichiarazione di credito, entro i termini fissati dal delegato notaio, nella procedura di graduazione dei crediti dell’eredità H. e successiva liquidazione dell’attività.

In conclusione non vi sarebbe stata violazione degli artt. 437 e 345 c.p.c., e l’esatto esame dei suddetti motivi d’appello avrebbe portato a una diversa decisione nel merito.

Il secondo motivo, rubricato come attinente all’accettazione con beneficio d’inventario dell’eredità paterna da parte dell’attuale ricorrente, denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 490 e 491 c.p.c.

L’attuale ricorrente aveva accettato l’eredità con beneficio d’inventario per cui la corte territoriale avrebbe violato l’art. 490 c.c., comma 1. Erronea sarebbe stata ogni sua condanna personale per debiti riferibili al padre o alla gestione del patrimonio relitto ai sensi dell’art. 491 c.c. L’accettazione con beneficio d’inventario non priva l’erede della responsabilità dei debiti, ma limita quest’ultima al valore dell’eredità, per cui egli non potrà rispondere ultra vires hereditatis; invece i giudici di merito avrebbero condannato personalmente H.I.. S.U. 10531/2013 insegna che il beneficio d’inventario è invocabile anche in appello dalla parte e può essere rilevato anche d’ufficio del giudice. L’attuale ricorrente ai sensi dell’art. 491 c.p.c. avrebbe potuto avere responsabilità personale solo nel caso di colpa grave nell’amministrazione dei beni, ma ciò non sarebbe stato affrontato nè dal Tribunale nè dalla Corte d’appello.

Il terzo motivo, rubricato come attinente al mancato rispetto di norme imperative sulla successione necessaria, denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 536,542 e 752 c.c.

I figli e la vedova del de cuius erano tutti legittimari, e tutti avrebbero accettato con beneficio di inventario l’eredità. Ai sensi dell’art. 542 c.c. un quarto dell’eredità spettava alla vedova quale quota di riserva, e una meta spettava quale quota di riserva in totale ai quattro figli, e quindi un ottavo a ciascuno di loro. In forza dell’art. 752 c.c. i coeredi rispondono dei debiti ereditari in proporzione alle quote ereditarie, salvi gli effetti dell’accettazione con beneficio d’inventario. Cass. 24449/2015 insegna che per i debiti ereditari vale la ripartizione automatica di cui all’art. 752 c.c.

La Corte d’appello e prima il Tribunale avevano invece condannato soltanto l’attuale ricorrente sul presupposto che, essendo stata riconosciuta erede universale dalla sentenza n. 44/2002 di cui sopra si è detto, sarebbe stata l’unica a meritare condanna. Non avrebbero però tenuto conto del fatto che la sentenza non era ancora passata in giudicato e che H.I. aveva accettato l’eredità con beneficio d’inventario. Con un argomento contraddittorio il giudice d’appello avrebbe ipotizzato poi “un’eventuale ripetizione” delle somme che sarebbero state pagate da H.I.. La corte territoriale avrebbe dovuto invece applicare le norme sulla successione necessaria e quindi effettuare una ripartizione dei debiti ereditari pro quota.

Sarebbe stato poi “affrettato” attribuire il quarto dell’asse ereditario – che ne era la quota disponibile – all’attuale ricorrente, essendo ancora pendente il giudizio n. 943/1996 R.G. davanti al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, nel quale su ciò avrebbero assunto una posizione di resistenza H.A. e H.G., sostenendo pure che parte dei beni menzionati nel testamento sarebbero di loro proprietà perchè provenienti dall’eredità della loro madre, B.F., prima moglie del de cuius e a quest’ultimo premorta. In una tale situazione di complessità sarebbe stato “opportuno” sospendere il giudizio in attesa della definizione della causa successoria.

Il quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 81 e 100 c.p.c. in combinato disposto con l’art. 2545 duodecies c.c., n. 1, art. 2519 c.c., art. 2492 c.c., comma 1, art. 2495 c.c. e art. 167 c.p.c..

Dopo l’interruzione del giudizio d’appello per morte di D.M.A., H.I., nel ricorso d’appello in riassunzione, avrebbe dichiarato di lasciare impregiudicate le eccezioni rilevabili in ogni stato e grado relative alla legittimazione passiva delle controparti, che avrebbero dovuto provare il titolo per cui D.M.A., e per lei i suoi eredi, e tutti i soci sarebbero legittimati a stare in giudizio, poichè all’epoca della sua instaurazione la cooperativa era estinta (si invoca S.U. 6071/2013). La Corte d’appello avrebbe ritenuto che su ciò vi sarebbe stata precedente sentenza parziale passata in giudicato. Il riferimento sarebbe stato alla sentenza n. 605/2005 del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, che avrebbe avuto però oggetto diverso: non si sarebbe quindi formato il giudicato sulla titolarità della situazione sostanziale. Con omessa pronuncia su tale questione la corte territoriale avrebbe violato l’art. 2545 duodecies c.c., n. 1. La Cooperativa avrebbe dovuto ritenersi priva di legittimazione ad agire. Essendo la titolarità del diritto sostanziale elemento costitutivo del diritto che si fa valere, non si sarebbe di fronte a una eccezione in senso stretto, bensì a una eccezione sollevabile d’ufficio, che potrebbe anche essere oggetto di motivo d’appello. Ritenendo inammissibile tale eccezione, la corte territoriale avrebbe violato l’art. 167 c.p.c. che pone termine solo per le eccezioni e non per le mere difese.

A proposito dell’appello incidentale sono proposti altri tre motivi.

Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 303 in combinato disposto con gli artt. 292 e 91 c.p.c.: la corte territoriale avrebbe accolto entrambe le due “domande” proposte in via incidentale, ma lo avrebbe fatto soltanto a favore di D.M.G. e non anche per tutti gli altri soci della disciolta cooperativa che avevano conferito procura ad D.M.A. e che dopo l’interruzione del processo dovuta alla sua morte avrebbero dovuto proseguire, pena dichiarazione di contumacia. E la contumacia si sarebbe verificata, per cui le loro domande avanzate in via incidentale avrebbero dovuto intendersi oggetto di rinuncia. Quindi sarebbe stato interesse dell’attuale ricorrente che dette domande fossero tutt’al più accolte solo a favore di D.M.G., perchè l’importo di Euro 98.465,11 (il credito nei suoi confronti accertato) avrebbe dovuto spettare solo per la quota a D.M.G. (dovendosi effettuare ripartizione proporzionale delle quote societarie). Da tale violazione di legge sarebbe derivata pure l’illegittima condanna dell’attuale ricorrente a rifondere le spese processuali senza tenere conto della contumacia.

Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 2943 c.c., mancata interruzione del termine di prescrizione, prescrizione dei canoni dovuti nel periodo dal 1 marzo 1996 all’8 settembre 1999.

La Cooperativa avrebbe inviato la lettera di interruzione della prescrizione del 7 ottobre 2003 soltanto al custode giudiziario C., onde l’interruzione si sarebbe verificata solo nei confronti di quest’ultimo, non essendo stata manifestata inequivocabile volontà di far valere l’interruzione anche nei confronti degli eredi.

Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 91 c.p.c. per condanna alle spese di lite sia a favore della Cooperativa sia a favore di H.A. e di H.G..

Si è difeso con controricorso D.M.G.; si è altresì difeso con controricorso H.G.. La ricorrente ha depositato memoria.

Con ordinanza interlocutoria del 23 maggio 2019 questa Suprema Corte ordinaria, ex art. 331 c.p.c., la rinnovazione della notifica del ricorso a A.R., + ALTRI OMESSI, rimettendo conseguentemente la causa a nuovo ruolo. La ricorrente ha poi depositato una nota, ma non ritualmente in quanto diretta esclusivamente al relatore. In riguardo alla seguente camerale D.M.G. ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

In primo luogo, deve darsi atto che l’ordinanza interlocutoria è derivata da un disguido di cancelleria nella formazione del fascicolo, risultando il contraddittorio integrato.

Il ricorso, in via preliminare, deve essere vagliato in riferimento all’art. 366 c.p.c., comma 1, per accertarne l’ammissibilità. Tra i requisiti ivi richiesti figura “l’esposizione sommaria dei fatti di causa” (n. 3 del comma): si tratta del requisito che – al pari di quello, dettato al n. 6, della specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti fondanti il ricorso – integra la c.d. autosufficienza del mezzo di impugnazione.

E’ consolidata la giurisprudenza di questa Suprema Corte nel senso che “per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3. il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa.” (così già Cass. sez. 2, 4 aprile 2006 n. 7825; sulla stessa linea, più recentemente, v. p. es. Cass. sez. 6-3, ord. 3 febbraio 2015 n. 1926, Cass. sez. 1, 3:1 luglio 2017 n. 19018; e cfr. Cass. sez. 5, ord. 4 ottobre 2018 n. 24340); e ciò considerato che, “per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.p., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere la chiara esposizione dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le posizioni processuali delle parti con l’indicazione degli atti con cui sono stati formulati “causa petendi” e “petitum”, nonchè degli argomenti dei giudici dei singoli gradi, non potendo tutto questo ricavarsi da una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo dei singoli motivi, perchè tanto equivarrebbe a devolvere alla S.C. un’attività di estrapolazione della materia del contendere, che è riservata invece al ricorrente.” (così ben si esprime, a proposito della ratio impregnata nella previsione normativa, Cass. sez. 6-3, ord. 28 maggio 2018 n. 13312).

Nell’ottica di tale insegnamento nomofilattico deve allora constatarsi che nel ricorso in esame non è stata adeguatamente ricostruita la vicenda processuale, id est non viene integrato il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

In effetti, nulla è indicato, che raggiunga un livello di sufficiente specificità, sulle ragioni per cui, nel ricorso introduttivo del primo grado, D.M.A. aveva chiesto “dichiararsi la risoluzione del contratto di affitto” e il conseguente rilascio dei terreni, nonchè la condanna al pagamento dei canoni degli eredi H.; ma soprattutto non è dato conoscere quali ragioni questi – tutti costituitisi tranne L.S. – avevano addotto quale fondamento della loro difesa, offrendo al riguardo il ricorso in esame un vero esempio di assoluta genericità, in quanto espone soltanto che “contestavano le domande della ricorrente per vari motivi nel merito e sotto molteplici aspetti, anche di carattere preliminare in ordine alla carenza di legittimazione attiva e passiva”. Con una siffatta conformazione delle posizioni contrapposte, non è dato comprendere per quali ragioni nella sentenza del 17 aprile 2008, ovvero la sentenza definitiva, il giudice di prime cure abbia immesso il riferimento ad altre sentenze (sentenza del 29 giugno 2000 dello stesso Tribunale, resa dalla sezione distaccata di Lipari, sentenza del 4 luglio 2002 della Corte d’appello di Messina, e ancora sentenza 6 dicembre 2001 del Tribunale: ciò risulta dallo stralcio della sua motivazione trascritta nel ricorso).

Nella descrizione dell’atto d’appello di H.I. – oggetto di adesione da parte del fratello H.C. – e delle posizioni assunte in secondo grado da D.M.A. il ricorso attinge l’autosufficienza, ma la carenza nella ricostruzione della vicenda processuale riemerge in ampia misura a proposito della difesa prospettata in secondo grado nelle loro rispettive comparse da A. e H.G. (gli altri due fratelli dell’appellante) e dal custode giudiziario dell’Azienda agricola eredi C.H., la cui presenza nella causa affiora per di più soltanto ora: nella descrizione del giudizio di primo grado vengono indicati come convenuti unicamente “gli eredi del defunto H.C. senior”, e non si segnala d’altronde l’esistenza di alcun intervento.

Da ciò deriva, tutto rimanendo quindi assorbito, ictu oculi l’inammissibilità del ricorso.

Ne consegue la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese processuali, liquidate come da dispositivo, al controricorrente D.M.G.; sussistono invece, considerate le peculiarità della vicenda familiare sottesa almeno in parte alla presente causa, motivi idonei a giustificare la compensazione delle spese con l’ulteriore controricorrente H.G..

Dagli atti il processo risulta esente dall’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere al controricorrente D.M.G. le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 7800, oltre a Euro 200 per gli esborsi, al 15% per spese generali e agli accessori di legge; compensa le spese con il controricorrente H.G..

Dagli atti il processo risulta esente dall’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2020

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