Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8121 del 23/04/2020

Cassazione civile sez. III, 23/04/2020, (ud. 18/12/2019, dep. 23/04/2020), n.8121

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. OLIVIERI Stefano – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 14866/2018 R.G. proposto da:

M.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Franco Pepe, con

domicilio eletto in Roma, via Faleria, n. 37, presso lo studio

dell’Avv. Assunta Mazzeo;

– ricorrente –

contro

Agea – Agenzia per le erogazioni in agricoltura;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 2635/2017

depositata il 21 aprile 2017;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 18 dicembre 2019

dal Consigliere Dott. Emilio Iannello;

udito l’Avvocato Franco Pepe;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SOLDI Anna Maria, che ha concluso chiedendo il

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2008 M.G. convenne dinanzi al Tribunale di Roma l’Agea (quale ente successore della disciolta Aima) esponendo che: quale produttore di tabacco, aveva diritto ad un contributo comunitario commisurato al tabacco prodotto; la quantità massima di tabacco ammessa al contributo veniva stabilita anno per anno dal Consiglio della Comunità Europea, secondo le previsioni del Regolamento CE 2075/92; al fine di consentire ai produttori di tabacco di pianificare la propria produzione, il successivo Regolamento CE 3477/92 impose agli Stati membri di comunicare ai produttori, entro un termine stabilito, il quantitativo di tabacco ammesso al contributo per ciascun produttore e per ciascuna varietà; in Italia, tale obbligo incombeva sull’AIMA; per l’anno 1994, tale termine era stato fissato dal Regolamento 3477/92 al 1 marzo 1994, e poi prorogato al 31 marzo 1994 dal Regolamento CE 648/93; l’AIMA, tuttavia, per l’anno 1994, comunicò all’attore la quantità massima di tabacco ammessa al contributo “solo nei mesi di giugno-luglio” di quell’anno, quando egli aveva ormai già avviato la produzione, che al momento del raccolto risultò eccedente rispetto al quantitativo massimo ammesso al contributo; in conseguenza di questo ritardo da parte dell’amministrazione, l’attore aveva subito un pregiudizio consistente nell’aver prodotto del tabacco per il quale non aveva ricevuto alcun contributo. Chiese perciò la condanna di AGEA al risarcimento di tale danno, che ritenne di quantificare in misura pari (non al costo della produzione inutilmente sostenuto, ma) al contributo teoricamente dovuto per il tabacco prodotto in eccedenza.

Instaurato il contraddittorio, il Tribunale, con sentenza del 30/3/2011, ritenuta la natura contrattuale della responsabilità dedotta e per tal motivo respinta la preliminare eccezione di prescrizione opposta dalla convenuta, accolse nel merito la domanda, quantificando il risarcimento in importo corrispondente al premio commisurato al tabacco conferito e non ammesso al beneficio.

2. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Roma ha accolto il gravame interposto dall’amministrazione con riferimento al motivo – esaminato per primo quale ragione più liquida – che, nel merito, contestava la sussistenza di prova del danno, conseguentemente rigettando la domanda, in riforma della decisione di primo grado.

Ha infatti ritenuto che il M.,, non avendo diritto al premio per la quota di produzione eccedentaria, “non può aver subito danno alcuno sotto tale riguardo” e che, piuttosto, posto che risultava che egli avesse venduto la produzione eccedente la quota ammessa a contributo, il danno in ipotesi rappresentato dal sostenimento di spese di coltivazione superiori al prezzo di vendita risultava dedotto del tutto genericamente e comunque sprovvisto di prova, così come generica e carente di prova risultava anche l’ulteriore prospettazione di un pregiudizio rappresentato dal mancato impiego delle risorse in coltivazioni più redditizie.

3. Avverso tale decisione M.G. propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.

L’intimata non svolge difese nella presente sede.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, nullità della sentenza e del procedimento per difetto di contraddittorio in sede di gravame; violazione o falsa applicazione dell’art. 331 c.p.c..

Rileva che in primo grado la domanda risarcitoria era stata diretta anche nei confronti del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali; che il Tribunale aveva condannato però la sola Agea, omettendo qualsiasi provincia sulle domande di condanna in solido proposte anche nei confronti del Ministero; che in sede d’appello l’Agea avrebbe dovuto incardinare il gravame anche nei confronti di quest’ultimo; che il non averlo fatto comporta la denunciata violazione.

2. Con il secondo motivo il M. deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 345 c.p.c., comma 2, per aver accolto eccezione – quella relativa all’assenza di prova del danno – non sollevata nel giudizio di primo grado ma per la prima volta in appello.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione dell’art. 115 c.p.c., ed “omessa valutazione di una circostanza decisiva ai fini della decisione”, in tesi rappresentata dalla “mancata contestazione, in sede di costituzione nel giudizio di primo grado da parte della convenuta… della sussistenza (cosa diversa dalla quantificazione/entità) del danno a carico della parte attrice/oggi ricorrente”.

Sostiene che, in base al principio di non contestazione, positivizzato nella richiamata norma processuale, la sussistenza del danno doveva ritenersi fatto non contestato.

4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 1223 e 2056 c.c., per avere la Corte d’appello escluso che, in presenza di responsabilità contrattuale dell’ente per i fatti contestati, il danno potesse essere quantificato in misura pari all’importo del premio (Euro 2,18 al kg) non percepito per i quantitativi che, in sede di conferimento del prodotto, erano risultati eccedenti la quota tardivamente assegnata.

Premette al riguardo di non avere mai “inteso chiedere il riconoscimento del diritto al premio comunitario per i quantitativi eccedenti la quota tardivamente attribuita”; sostiene però che la determinazione, seppur legittima, di minori quantitativi ammessi a premio rispetto a quelli degli anni precedenti, in uno al ritardo nella comunicazione, ha comportato il mancato incasso di importi relativi alla produzione di tabacco – risultato eccedentario alla quota, quale determinata negli anni precedenti.

Osserva, quindi, che “la mancata quantificazione e/o la prova sull’ammontare del danno emergente e del danno da lucro cessante, come richiesta dalla Corte territoriale a motivazione del rigetto della domanda – cosa questa altamente difficoltosa se non impossibile… – risulta ampiamente superata dalla prova documentale relativa al mancato incremento patrimoniale, commisurato (parametrato) agli importi non percepiti a titolo di premio comunitario per il prodotto eccedentario”.

5. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, “violazione di norma di diritto ed omessa valutazione di un fatto decisivo in relazione agli artt. 115-116 c.p.c., ed in relazione all’art. 1226 c.c.”, in tesi rappresentato dalla impossibilità e/o eccessiva difficoltà di fornire una prova sull’entità dei danni subiti, per un ammontare diverso da quello richiesto.

Sostiene in sintesi che, una volta ritenuta la sussistenza di un danno (per acquisto di concimi, sementi, attrezzature etc.), la Corte avrebbe potuto e dovuto fare uso del potere di liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c..

Rileva al riguardo che il lungo e articolato ciclo di produzione del tabacco richiede un impegno di spesa oltre che di lavoro materiale che, di fatto, risulta impossibile e/o particolarmente difficile da provare, soprattutto con riferimento ai costi relativi ai soli quantitativi eccedentari le quote tardivamente attribuite e specialmente se si considera che tale attività è svolta dai produttori quali coltivatori diretti e non è soggetta ad alcun obbligo contabile.

6. Il primo motivo è manifestamente infondato.

Il Ministero per le Politiche agricole e forestali era stato convenuto in primo grado quale (preteso) obbligato in solido; non risulta nemmeno dedotto che l’Agea avesse a propria volta proposto domanda di rivalsa o di accertamento di concorrente responsabilità; non ricorre pertanto alcuna ipotesi di litisconsorzio necessario o di inscindibilità di cause, risultando pertanto del tutto infondatamente evocato l’art. 331 c.p.c..

La fattispecie andava piuttosto ricondotta alla previsione di cui all’art. 332 c.p.c., il quale richiede, in caso di cause scindibili, (solo) che la il giudice ordini la notificazione della impugnazione alla parte in situazione di litisconsorzio facoltativo e che, in caso di mancata ottemperanza all’ordine, il processo rimanga sospeso fino a che non siano decorsi i termini di cui all’art. 325 e art. 327, comma 1.

Ne discende che una volta decorso il termine per la impugnazione della sentenza di prime cure da parte del soggetto pretermesso (MIPAF), l’errore della Corte d’appello – che ha omesso di disporre la notifica dell’impugnazione nei confronti del MIPAF – non è più sanzionabile, in quanto l’unico effetto previsto dall’art. 332 c.p.c. (quello appunto della sospensione del giudizio “fino alla scadenza del termine di decadenza per la impugnazione”) si è ormai esaurito (v. Cass. 04/06/2007, n. 12942; 19/02/2013, n. 4035; 15/04/2013, n. 9080).

7. Il secondo motivo è inammissibile o, comunque, manifestamente infondato.

7.1. L’inammissibilità è predicabile in ragione della inosservanza dell’onere di specifica indicazione dell’atto su cui la censura è fondata, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, a tale rilievo non ostando la natura processuale del vizio dedotto (al di là della erronea evocazione in rubrica del vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 3: errore ininfluente alla luce del principio affermato da Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931).

Occorre rammentare al riguardo che, come ripetutamente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, anche la proposizione dei motivi di ricorso con cui si denuncia error in procedendo “resta soggetta alle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo della Corte”.

Nemmeno in tal caso viene meno, infatti, “l’onere per la parte di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito della specificità dei motivi d’impugnazione, ora tradotto nelle più definite e puntuali disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4,… sicchè l’esame diretto degli atti che la Corte è chiamata a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato” (Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077, con riferimento a fattispecie non ancora soggetta all’applicazione delle novellate norme sopra citate; v. anche ex multis Cass. 29/09/2017, n. 22880; 20/07/2012, n. 12664; 20/09/2006, n. 20405).

Nel caso di specie il ricorrente omette invero di trascrivere il contenuto della comparsa di costituzione di controparte in primo grado, o quantomeno di fornirne compiuta ed esaustiva sintesi, attraverso la quale potere con immediatezza verificare la veridicità dell’assunto secondo cui questa non contenesse già una specifica contestazione sul punto (il contrario per vero potendosi desumere da quanto invece dedotto da Agea nel proprio controricorso).

Omette, peraltro, il ricorrente di localizzare l’atto nel fascicolo processuale, essendo invece come noto necessario che si provveda anche alla individuazione dell’atto con la precisazione dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass. 09/04/2013, n. 8569; 06/11/2012, n. 19157; 16/03/2012, n. 4220; 23/03/2010, n. 6937). A tale necessaria localizzazione la parte non provvede nemmeno dichiarando di volere fare riferimento alla presenza o nel fascicolo di controparte o in quello d’ufficio (come ammette possa farsi Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22726, per il caso che non si fosse voluto produrne direttamente copia ai sensi dell’art. 369 c.p.c., n. 4).

7.2. In ogni caso la censura si appalesa, pur, in astratto considerata, manifestamente infondata.

La contestazione circa la sussistenza del danno (ovvero la deduzione della sua mancata prova) costituisce mera difesa, in quanto volta a negare il fatto costitutivo del diritto al risarcimento, e non eccezione (la quale come noto consiste nella allegazione di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo idoneo a paralizzare la domanda), tantomeno eccezione in senso stretto.

Non si applica dunque il divieto posto dall’art. 345 c.p.c., comma 2, che riguarda le sole eccezioni in senso stretto (il divieto essendo dalla norma riferito testualmente alle “nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio”).

8. Il terzo motivo è parimenti inammissibile.

8.1. Anche in tal caso si appalesa anzitutto eccentrica l’evocazione in rubrica di un vizio di omesso esame ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: manca del tutto anche la sola indicazione del “fatto storico” che sarebbe stato obliterato ai fini della ricognizione della fattispecie, tale certamente non potendo considerarsi la asserita “mancata contestazione” da parte della convenuta di quanto dedotto a fondamento della domanda; questa infatti, ove realmente apprezzabile, costituirebbe non certo un fatto storico extraprocessuale (cui poter riferire in ipotesi il vizio di cui dell’art. 360, n. 5), bensì un fatto processuale, se del caso valorizzabile solo ai fini della regola processuale dettata dall’art. 115 c.p.c..

8.2. Quello dedotto integra dunque, in astratto, semmai, error in procedendo, per la violazione di tale regola, come del resto contestualmente dedotto.

Anche in tale ultima prospettiva deve tuttavia pervenirsi ad analoga valutazione di inammissibilità.

La violazione del principio di non contestazione non è dedotta, infatti, nel modo in cui la giurisprudenza di questa Corte dice che deve essere dedotto e cioè attraverso la specifica indicazione del contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori atti difensivi che evidenzi in modo puntuale la genericità o l’eventuale totale assenza di contestazioni sul punto (v. Cass. 22/05/2017, n. 12840).

8.3. In ogni caso dalla stessa prospettazione del motivo può desumersene la manifesta infondatezza.

Lo stesso ricorrente riferisce che in primo grado la convenuta aveva contestato la quantificazione del danno, dicendo che questo non poteva essere rappresentato – come richiesto dall’attore – dai premi in astratto riferibili alla produzione “eccedentaria”, ma semmai dalle spese sostenute per la coltivazione di prodotto “fuori quota”. Da tale deduzione può solo desumersi la non contestazione della astratta risarcibilità di un danno di tal specie, ma non certo l’ammissione della sua esistenza in concreto, tanto meno in un preciso ammontare.

La Corte non ha decampato da tali limiti del tema controverso.

9. Il quarto motivo è parimenti inammissibile e, comunque, infondato.

Sul punto si appalesa corretta la decisione della Corte d’appello e, per contro, confusa e contraddittoria la censura.

Il danno, infatti, non può certo ritenersi rappresentato dal premio non riscosso, poichè non spettante. Che nessun diritto si potesse vantare in base alle norme comunitarie su contributi di uguale ammontare di quelli riconosciuti l’anno precedente è del resto sostanzialmente ammesso dallo stesso ricorrente (v. ricorso pagg. 11 – 12), il quale nondimeno contraddittoriamente insiste nell’affermare che il danno dovrebbe essere commisurato esattamente nel premio non spettante per la parte “eccedentaria”.

Giova comunque in proposito rammentare che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia (Corte giustizia 17/09/1998, procedimento C-372/96; Corte giustizia 07/06/2005, proc. C-17/03; Corte giustizia 07/09/2006, proc. C – 310/04) e come questa Corte ha già più volte affermato questa Corte (v. Cass. 07/06/2000, n. 7699; 30/04/2008, n. 10913; 10/02/2015, n. 2540), gli operatori economici non possono fare legittimamente affidamento sulla conservazione di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle istituzioni comunitarie, specialmente in un settore come quello delle organizzazioni comuni di mercato, il cui scopo implica un costante adattamento in funzione dei mutamenti della situazione economica.

Detti operatori non possono dunque vantare un diritto quesito alla conservazione dell’intero premio provvisoriamente percepito, nè alcun legittimo affidamento può essere invocato sulla invariabilità della situazione soggettiva acquisita l’anno precedente.

Nè ad una diversa ricostruzione può indurre l’introduzione, con il Regolamento CE 3477/92, dell’obbligo per gli Stati membri di comunicare ai produttori, entro un termine stabilito, il quantitativo di tabacco ammesso al contributo per ciascun produttore e per ciascuna varietà; tale obbligo ha infatti proprio lo scopo di consentire una pianificazione consapevole e trova dunque ragion d’essere proprio nella insussistenza di alcun diritto o legittimo affidamento da parte dei produttori sulla perpetuazione degli stessi livelli di contributi stabiliti per l’anno precedente.

Ciò posto il danno discendente dal ritardo di detta comunicazione può dunque essere commisurato (solo) all'”interesse negativo”, all’interesse, cioè, a calibrare la produzione in funzione della (sola) quota ammessa al premio comunitario, e ad evitare dunque una iperproduzione non avente diritto a premio (nel caso di eccedenza del raccolto rispetto alla quota assentita) ed eventualmente a destinare le risorse ad altra coltivazione.

Il nesso causale tra l’illecito (contrattuale) addebitato alla convenuta e il danno va, in tale contesto, verificato secondo un giudizio controfattuale, occorrendo dunque chiedersi: che vantaggio avrebbe ricavato l’avente diritto e/o che pregiudizi avrebbe potuto egli evitare, ove avesse avuto tempestiva comunicazione delle quote di produzione ammesse al contributo.

E’ evidente che tale vantaggio potrebbe, in ipotesi, essere rappresentato non dai premi sulla produzione eccedentaria (per definizione non spettanti) ma dal contenimento della produzione entro i limiti di quella ammessa al premio comunitario, con risparmio di costi (danno emergente), ovvero dalla possibilità di destinare le risorse impiegate a coltivazioni più redditizie (lucro cessante).

Solo a tali ipotetici pregiudizi avrebbe pertanto potuto essere commisurato il danno risarcibile, ove tuttavia della loro esistenza ed entità fosse stata offerta conferente e adeguata prova da parte dell’attore gravato, ex art. 2697 c.c., del relativo onere.

10. Anche il quinto motivo, che investe tale ultimo tema, è inammissibile e comunque infondato.

10.1. Fuori segno, anche in tal caso, è anzitutto l’evocazione di un vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; manca l’indicazione del “fatto storico”, oggetto di discussione tra le parti e decisivo, in ipotesi non considerato dal giudice ai fini della decisione.

10.2. Palesemente generico è poi il riferimento, in rubrica, agli artt. 115 e 116 c.p.c., nè l’illustrazione del motivo offre elementi che consentano di apprezzarne la pertinenza.

Varrà rammentare al riguardo che, come già più volte chiarito da questa Corte, “per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115, è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”” (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).

Allo stesso modo, sotto il profilo della pure dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., è appena il caso di rilevare che, in tema di ricorso per cassazione, la violazione di detta norma (la quale sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non certo secondo la prospettazione evocata in ricorso (la quale si risolve infatti nella proposta di una diversa lettura delle risultanze istruttorie), ma solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892).

10.3 La censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, omette poi di confrontarsi con la effettiva ratio decidendi posta a fondamento della decisione e si appalesa conseguentemente mal posta.

Diversamente da quanto postulato in ricorso, invero, la sentenza impugnata non dà affatto per acquisita nel processo l’esistenza di un pregiudizio rappresentato dalla possibilità di differenti allocazioni delle risorse d’impresa o dall’esistenza di maggiori esporsi per sementi, manodopera e attrezzature, ma si limita ad affermare – in via meramente ipotetica, come evidenziato anche dall’uso del condizionale (v. sentenza, pag. 4) – che a tali eventuali pregiudizi avrebbe potuto essere riferita la pretesa risarcitoria, negando però che in concreto ciò sia avvenuto proprio in ragione del fatto che essi non risultano provati e nemmeno, prima ancora, allegati.

La Corte d’appello ha dunque affermato che l’attore non ha offerto alcun elemento indiziario in base al quale accertare la stessa esistenza del danno, non solo la sua effettiva entità.

Non pertinente si appalesa pertanto l’evocazione delle norme in tema di liquidazione equitativa del danno (artt. 1226 e 2056 c.c.).

Secondo pacifico insegnamento, infatti, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare (v. e pluribus Cass. 30/04/2010, n. 10607; 12/10/2011 n. 20990; 23/09/2015, n. 18804; 22/02/2018, n. 4310).

Tale potere non può pertanto supplire alla mancata prova dell’esistenza stessa del danno.

Inconferenti, rispetto a tale ratio decidendi, si rivelano anche gli altri argomenti svolti a sostegno della censura (quali il rilievo attribuibile alle regole tecniche culturali che connotano il ciclo di produzione del tabacco; lo svolgimento di tale attività in regime di coltivazione diretta e con l’impiego di risorse familiari), in quanto prospettati non già per contrastarla, quanto piuttosto a supporto della tesi della necessaria liquidazione equitativa del danno, tesi sostenuta come detto sul falso postulato che la sua esistenza fosse da ritenersi acquisita in sentenza.

Tali argomenti comunque si muovono sul piano della ricognizione concreta del fatto e ciò fanno in termini estranei al paradigma censorio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; le circostanze con essi evocate non trovano alcun riscontro negli accertamenti operati in sentenza, nè esse possono ascriversi – come pure si assume incidentalmente in ricorso – alla categoria del notorio ex art. 115 c.p.c., comma 2 (nella quale possono farsi rientrare solo nozioni di fatto di comune esperienza e, dunque, fatti acquisiti alla conoscenza della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili, e non anche elementi valutativi che implicano cognizioni particolari ovvero nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice).

Varrà peraltro rammentare al riguardo che il ricorso, da parte del giudice, a tali nozioni di fatto attiene all’esercizio di un potere discrezionale, con la conseguenza che la violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2, può configurarsi solo quando il giudice ne abbia fatto positivamente uso e non anche ove non abbia ritenuto necessario avvalersene, venendo in tal caso la censura ad incidere su una valutazione di merito insindacabile in sede di legittimità (Cass. 20/03/2019, n. 7726).

Aspecifico si appalesa infine, anche al riguardo, il richiamo al principio di non contestazione, in mancanza di alcuna specifica indicazione del contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori atti difensivi, che evidenzi in modo puntuale la genericità o l’eventuale totale assenza di contestazioni sul punto.

11. Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Non avendo l’intimata svolto difese nella presente sede non v’è luogo a provvedere al regolamento delle spese.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2020

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