Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 812 del 19/01/2021

Cassazione civile sez. lav., 19/01/2021, (ud. 17/09/2020, dep. 19/01/2021), n.812

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BLASUTTO Daniela – Presidente –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21525/2017 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA

GIULIANA, 44, presso lo studio dell’avvocato ARNALDO MIGLINO,

rappresentata e difesa dall’avvocato CARMINE FRANCIA;

– ricorrente –

contro

ISTITUTO SACRA FAMIGLIA I.P.A.B., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PO 24, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO TRILLO’, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1602/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 03/05/2017 R.G.N. 3528/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/09/2020 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. La Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato la domanda proposta da C.S. tesa ad ottenere l’accertamento della natura subordinata del rapporto intercorso con l’IPAB Sacra Famiglia, protrattosi dal 1 giugno 2000 al 31 dicembre 2010, con mansioni di educatrice ed in virtù di otto contratti di collaborazione coordinata e continuativa.

2. Il giudice di appello ha in primo luogo confermato la natura pubblica dell’Istituto osservando che era onere dell’appellante dimostrare che l’Istituto aveva natura privata. Ha ritenuto tardiva e perciò inammissibile la documentazione prodotta solo in appello dalla C., in violazione del divieto di novum ai sensi dell’art. 437 c.p.c.. Ha sottolineato che, invece, il D.P.R. Lazio 7 agosto 2014, con il quale erano stati designati tre dei componenti del rinnovato consiglio di amministrazione, composto inoltre, ai sensi dell’art. 9 dello Statuto, anche da due componenti indicati dal Comune di Roma, documento ammissibile perchè sopravvenuto, confermava ulteriormente la natura pubblica dell’Istituto.

3. Ha ritenuto condivisibile la ricostruzione operata dal giudice di primo grado circa la natura autonoma del rapporto intercorso tra la C. e la Sacra Famiglia ed ha evidenziato in particolare che non solo i turni erano elaborati dagli stessi educatori ma potevano anche essere derogati mediante accordi di sostituzione reciproca e senza necessità di una preventiva autorizzazione dell’Istituto.

4. Infine ha ritenuto inammissibile perchè generica la censura con la quale l’appellante si doleva dell’errata condanna al rimborso delle spese di primo grado.

5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso C.S. affidato ad un unico motivo. Ha resistito con controricorso l’Istituto Sacra Famiglia. La ricorrente ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

6. Con l’unico motivo di ricorso è denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c..

6.1. Sostiene in particolare la ricorrente che la Corte avrebbe trascurato di considerare che in caso di mancata partecipazione alle riunioni vi erano richiami verbali e che altrettanto accadeva nel caso di omessa copertura dei turni per il fine settimana. Evidenzia che il richiamo verbale è pur sempre una sanzione disciplinare, seppure la più blanda. Pone in rilievo che, dalle dichiarazioni rese dai testi escussi, era emerso un controllo sui turni, i quali erano anche imposti e non erano perciò rimessi alla libera iniziativa degli educatori. Inoltre i turni erano necessariamente autorizzati dalla Direzione e rispondevano a specifiche indicazioni della struttura che li approvava. Aggiunge che le sostituzioni non erano libere e che l’educatore doveva trattenersi anche oltre l’orario per attendere il cambio. Osserva che l’attività degli operatori era assoggettata al controllo datoriale e che questi erano tenuti al rispetto del Regolamento Educatori e del documento denominato “ruolo e competenze dell’Educatore”. Inoltre gli educatori erano tenuti a redigere due relazioni ed a partecipare a due riunioni mensili oltre che a predisporre un “diario di bordo” giornaliero soggetto a verifica e controllo da parte di un supervisore tecnico. Inoltre all’educatore era richiesto di affiancare e formare il nuovo personale, effettuare gli acquisti di generi alimentari e diversi per i minori ospitati nelle case famiglia, preparare i pasti e tenere sotto controllo il budget (tutte circostanze confermate dai testi ascoltati in primo grado). Sottolinea quindi che dalla documentazione depositata in giudizio, mai contestata e del tutto trascurata dalla Corte di merito, era emerso un penetrante esercizio del potere di controllo organizzativo e disciplinare che avrebbe dovuto convincere, insieme agli altri elementi (retribuzione fissa, inserimento stabile nell’organizzazione aziendale, assenza di rischio imprenditoriale) della natura subordinata del rapporto intercorso con la C..

7. Il ricorso è in parte inammissibile ed in parte infondato.

7.1. Con riguardo al denunciato vizio di motivazione rileva il Collegio che al procedimento in esame trova applicazione, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, l’art. 348 ter c.p.c.. Nel caso in esame, infatti, il giudizio di appello è stato introdotto con ricorso depositato successivamente all’11 settembre 2012 (la controversia in appello era iscritta nel ruolo generale dell’anno 2014).

7.2. Con tale disposizione, al comma 5, è previsto che nell’ipotesi di c.d. “doppia conforme” non può essere proposto ricorso per cassazione invocando un vizio di motivazione salvo che il ricorrente indichi le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (cfr. Cass. 10/03/2014 n. 5528, 22/12/2016 n. 26774 e 06/08/2019n. 20994).

7.3. Tanto premesso, rileva il Collegio che la ricorrente non ha adempiuto a tale onere di allegazione e dimostrazione poichè nel proporre una lettura dei fatti emersi in giudizio diversa da quella seguita dal giudice di appello – il che renderebbe di per sè inammissibile la censura – non pone in rilievo se e quali fossero le ragioni diverse rispetto alla valutazione dei fatti operata dal giudice di primo grado che avevano determinato il giudice di appello a confermare la sentenza impugnata.

7.4. In mancanza di tale dimostrazione è preclusa davanti al giudice di legittimità un’ ulteriore verifica della motivazione, seppur nei limiti prescritti dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

7.5. Quanto alla prospettata violazione dell’art. 115 c.p.c., a rilevato che non è ravvisabile nel caso in esame. Come più volte affermato da questa Corte “un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115,116 c.p.c., può porsi, rispettivamente, solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione” (cfr. tra le tante Cass. 27/12/2016 n. 27000, 17/01/2019n. 1229).

7.6. Nel caso in esame non è neppure prospettata una violazione di tal fatta. La ricorrente si duole piuttosto della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di appello che, anzi, ha posto a fondamento della sua decisione le prove ritualmente acquisite ricostruendole secondo il suo prudente apprezzamento e scegliendo, secondo il suo apprezzamento discrezionale, quelle che ha ritenuto più convincenti.

8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R., se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 5.250,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R., se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 17 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2021

 

 

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