Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8118 del 02/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 02/04/2010, (ud. 24/03/2010, dep. 02/04/2010), n.8118

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende,

giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CARSO

23, presso lo studio dell’avvocato SALERNI MARIO, rappresentato e

difeso dall’avvocato PUCCI CESARE, giusta mandato in calce al

controricorso;

B.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195,

presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta mandato a

margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1132/2005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 19/07/2005 r.g.n. 1903/03;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del

24/03/2010 dal Consigliere Dott. BANDINI Gianfranco;

udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega ROBERTO PESSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio che ha concluso per: inammissibile per

conciliazione per B. rigetto, per I. in subordine

accoglimento per quanto di ragione.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza del 15 – 19.7.2005, ha rigettato l’impugnazione proposta dalla Poste Italiane spa avverso la sentenza di prime cure che aveva dichiarato la nullità del termine apposto ai contratti di lavoro conclusi da B.F. e I. P. (rispettivamente il 9.10.1998 e il 3.1.2000), dichiarando la sussistenza di rapporti a tempo indeterminato e condannando la parte datoriale al risarcimento del danno.

Per la cassazione di tale sentenza la Poste italiane spa ha proposto ricorso fondato su tre motivi e illustrato con memoria.

Gli intimati B.F. e I.P. hanno resistito con distinti controricorsi.

Nel corso del giudizio è stato depositato il verbale di conciliazione in sede sindacale concluso fra la ricorrente e l’intimato B.F..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Dal ricordato verbale di conciliazione, debitamente sottoscritto dal lavoratore interessato B.F. e dal rappresentante della Poste Italiane spa, risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarando che, in caso di fasi giudiziali ancora aperte, le stesse sarebbero state definite in coerenza con il verbale stesso.

Ad avviso del Collegio il suddetto verbale di conciliazione si appalesa idoneo a dimostrare l’intervenuta cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo. Alla cessazione della materia del contendere consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso, in quanto l’interesse ad agire (e, quindi, anche ad impugnare), deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutata la sussistenza di tale interesse (cfr, Cass., SU, n. 25278/2006).

Tenuto conto del contenuto dell’accordo transattivo intervenuto tra le parti, si ritiene conforme a giustizia compensare integralmente tra le stesse le spese del giudizio di cassazione.

2. Per quanto riguarda la posizione dell’intimato I. P., deve rilevarsi che quest’ultimo è stato assunto con contratto a termine stipulato a norma dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 ed in particolare in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, che prevede quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine la presenza di esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane.

La Corte territoriale, premesso che l’accordo de quo era disciplinato dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 ha attribuito rilievo decisivo al fatto che, avendo le parti raggiunto un’intesa originariamente priva di termine, le stesse avevano stipulato accordi attuativi che avevano fissato un limite temporale alla possibilità di procedere con assunzioni a termine, limite fissato inizialmente al 31 gennaio 1998 e successivamente al 30 aprile 1998; il contratto a termine in esame, stipulato in epoca successiva all’ultimo dei termini sopra indicati, era illegittimo in quanto privo del supporto derogatorio.

3. Con i primi due motivi, tra loro connessi e da esaminare congiuntamente, la ricorrente ha ampiamente censurato la suddetta impostazione, contestando, in particolare, l’interpretazione data dalla Corte di merito al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997 ed agli accordi dalla stessa definiti come attuativi; deduce, in particolare, che questi ultimi accordi avevano natura meramente ricognitiva.

Le censure della società ricorrente sono infondate.

Con numerose sentenze questa Corte Suprema (cfr, ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha univocamente confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione…), dopo il 30 aprile 1998.

Premesso, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che, in forza della sopra citata delega in bianco, le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha reputato che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.

In particolare è stato osservato che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti, nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr, ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

E’ stato altresì rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale de 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Infine è stata ritenuta corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e, cioè, quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che e parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina del D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, ex plurimis, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

Il sopra citato orientamento di questa Corte deve essere pienamente confermato, atteso che le tesi difensive che si sono confrontate nelle fasi di merito, quelle oggi proposte all’attenzione della Corte e, infine, le ragioni esposte nella sentenza impugnata, non sono sorrette da argomenti che non siano già stati scrutinati nelle ricordate decisioni o che propongano aspetti di tale gravità da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti.

4. Con il terzo motivo la ricorrente si duole del mancato accoglimento dell’eccezione di aliunde perceptum, avendo la Corte territoriale ritenuto che l’esatta determinazione al riguardo avrebbe dovuto essere rimandata alla fase esecutiva.

Anche tale doglianza non può essere accolta, siccome fondata sull’erroneo assunto che l’aliunde perceptum potrebbe essere dedotto soltanto genericamente e ricadrebbe sul lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione. Infatti, al riguardo, la giurisprudenza formatasi in materia di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo ritiene che l’eccezione con la quale il datore di lavoro deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione, ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte.

Pertanto, allorquando vi sia stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trame d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione dei danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (cfr, Cass., SU, n. 1099/1998).

E’ stato, tuttavia, precisato che, ai fini della sottrazione dell’aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute al lavoratore ingiustamente licenziato, è necessario che risulti la prova, da qualsiasi parte provenga, non solo del fatto che il lavoratore stesso abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione, ma anche di quanto percepito, essendo questo il fatto che riduce l’entità del danno presunto (cfr, Cass., n. 6668/2004).

In ogni caso, spetta al datore di lavoro il relativo onere probatorio e, prima ancora, di specifica allegazione, che, nel caso di specie, per quanto indicato nello stesso ricorso, non è stato adempiuto, ritenendo erroneamente la ricorrente la sufficienza di una generica deduzione al riguardo e sostenendo che, avendo dedotto in sede di merito la possibilità che la propria controparte avesse espletato attività lavorativa retribuita da terzi, su quest’ultima incombeva l’onere di dimostrare di non essere stata occupata.

Pertanto, non risultando essere stata comunque acquisita la prova al riguardo ed essendosi la datrice di lavoro sottratta agli oneri e probatori e di allegazione a lei facenti carico, deve ritenersi l’infondatezza della censura all’esame, in tal senso dovendo correggersi la motivazione della sentenza impugnata, stante, comunque, la conformità a diritto del decisum (art. 384 c.p.c.).

5. Il ricorso, per quanto proposto nei confronti di I. P., va quindi rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti di B. F., compensando le spese; rigetta il ricorso proposto nei confronti di I.P. e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 26,00, oltre ad Euro 2.000,00 (duemila/00) per onorari ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 24 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2010

 

 

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