Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8112 del 02/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 02/04/2010, (ud. 24/03/2010, dep. 02/04/2010), n.8112

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19731/2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI Roberto, che la rappresenta e difende,

giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

D.S., F.M., elettivamente domiciliate in

ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA

Sergio, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI

CLAUDIO, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1014/2005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 22/06/2005 R.G.N. 1954/04 + 1;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

24/03/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega ROBERTO PESSI;

udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Arezzo, quale giudice del lavoro, D.S. e F.M. avevano chiesto l’accertamento della nullità del termine apposto ai contratti di lavoro intercorsi con Poste Italiane s.p.a., rispettivamente dal 1 febbraio al 30 aprile 2002 per la D., dal 25 febbraio al 26 marzo 2002 e dal 27 maggio al 6 luglio 2002 per la F., tutti per la seguente causale:

“per esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio, 13 febbraio e 17 aprile 2002”;

con la conseguente conversione dei relativi rapporti a tempo indeterminato e quindi con la condanna della società a riammettere in servizio i lavoratori ricorrenti, pagando loro le retribuzioni perdute.

La Corte d’appello di Firenze, riformando la sentenza di primo grado con sentenza depositata il 22 giugno 2005, ha accolto le domande di declaratoria di nullità del termine e di accertamento dell’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dall’inizio nonchè di condanna della società a pagare alle appellanti, a titolo di risarcimento danni, la retribuzione contrattuale dalla data della richiesta del tentativo di conciliazione.

La s.p.a. Poste Italiane ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza, con un unico articolato motivo.

Alle domande della società hanno resistito con un unico controricorso le lavoratrici intimate.

Ambedue le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col ricorso, la sentenza della Corte d’appello viene censurata per violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, per vizio di motivazione nonchè per violazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., e per omessa motivazione su di un punto decisivo.

Il motivo investe il tema del requisito della specificazione, nel contratto di lavoro, delle ragioni dell’apposizione ad esso di un termine finale, richiesta dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 2, nonchè quello della necessaria temporaneità delle stesse.

In proposito, i giudici di merito avevano infatti valutato come generica l’enunciazione nei contratti con le lavoratrici di tali esigenze, che avrebbe dovuto inoltre essere associata all’indicazione delle ragioni che consentirebbero di definire tali esigenze come oggettivamente temporanee.

La ricorrente ricorda che col D.Lgs. n. 368 del 2001, il legislatore italiano, adeguandosi alle aperture verificatesi in materia a livello comunitario, aveva superato il precedente sistema di individuazione tassativa di causali che eccezionalmente consentono l’apposizione di un termine finale al contratto di lavoro, consentendo viceversa la stipulazione di siffatta clausola sulla base di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, con l’unico onere per il datore di lavoro di provare l’effettiva sussistenza della esigenza indicata in contratto, riconducibile alla generale fattispecie di cui alla clausola generale suddetta.

A ciò ha aggiunto che tali ragioni non devono neppure rivestire carattere eccezionale, in quanto le esigenze aventi la natura indicata dalla legge sono sempre individuabili nel normale andamento dell’attività aziendale.

Riproducendo il contenuto della clausola dei contratti a termine tra le parti, la società sostiene che da essa, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, risulterebbe palese la corretta enunciazione per iscritto delle specifiche esigenze poste alla base dell’assunzione delle lavoratrici, ulteriormente esplicitata dal richiamo agli accordi sindacali sulla mobilità intraaziendale ivi richiamati (indicati come erroneamente ritenuti dai giudici come contenenti la previsione di nuove ipotesi di possibile stipulazione di contratti a termine: si ma evidentemente dipende proprio dalla genericità).

La società aggiunge che erroneamente e senza motivazione i giudici avevano respinto la richiesta di ammissione della prova testimoniale dedotta La società lamenta altresì la violazione degli artt. 210 e 421 c.p.c., in quanto la Corte avrebbe omesso ogni decisione in ordine alla richiesta di ottenere l’esibizione da parte della lavoratrici della documentazione (libretto di lavoro e buste paga) utili per rilevare l’aliunde perceptum.

Il ricorso è infondato.

I contratti in esame sono stati stipulati nella vigenza del D.Lgs. n. 368 del 2001, che ha abrogato, nella materia, la L. n. 230 del 1962 e successive modificazioni e integrazioni.

Il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, relativo alla “Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dell’UNICE, dal CEEP e dal CES”, stabilisce ai primi due commi:

“7 – E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

2 – L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1”.

Come già rilevato da questa Corte nella sentenza 1 febbraio 2010 n. 2279, con l’espressione sopra riprodotta, di chiaro significato giù alla stregua delle parole usate, il legislatore ha inteso stabilire un vero e proprio onere di specificazione delle ragioni oggettive del termine finale, perseguendo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto (così Corte Costituzionale sent. 14 luglio 2009 n. 214).

Il decreto legislativo n. 368 del 2001, abbandonando il precedente sistema di rigida tipicizzazione delle causali che consentono l’apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro (in parte già oggetto di ripensamento da parte del legislatore precedente), in favore di un sistema ancorato alla indicazione di clausole generali (ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), cui ricondurre le singole situazioni legittimanti come individuate nel contratto, si è infatti posto il problema, nel quadro disciplinare tuttora caratterizzato dal principio di origine comunitaria del contratto di lavoro a tempo determinato (cfr., in proposito, Cass. 21 maggio 2008 n. 12985) del possibile abuso insito nell’adozione di una tale tecnica.

Per evitare siffatto rischio di un uso indiscriminato dell’istituto, il legislatore ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell’onere di specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contento che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale.

In altri termini, per le finalità indicate, tali ragioni giustificatrici, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, devono essere sufficientemente particolareggiate, in maniera da rendere possibile la conoscenza dell’effettiva portata delle stesse e quindi il controllo di effettività su di esse.

Che questo debba ritenersi il significato del termine “specificate” usato dall’art. 1, comma 2 del D.Lgs., risulta del resto confermato dalla interpretazione della relativa disciplina anche alla luce della direttiva comunitaria a cui il decreto medesimo da attuazione.

In proposito, è stato di recente chiarito dalla Corte di giustizia CE (cfr., in particolare sent. 23 aprile 2009 nei procc. riuniti da C – 378/07 a C – 380/07, Kiziaki e altri nonchè sent. 22 novembre 2005, C – 144/04, Mangold) che l’accordo quadro trasfuso nella direttiva 1999/70/CE contiene nel preambolo e del testo sia norme riguardanti ogni tipo di contratto a termine sia norme riferibili esclusivamente al fenomeno della reiterazione di tale tipo di contratto e quindi ai lavoratori dei contratti a termine c.d.

successivi.

“Risulta infatti chiaramente sia dell’obiettivo perseguito dalla direttiva 1999/70, sia dall’accordo quadro e dalla formulazione delle pertinenti disposizioni di esso, che… l’ambito disciplinato da tale accordo non è limitato ai soli lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi, ma che, al contrario, si estende a tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un determinato rapporto di lavoro che li vincola ai rispettivi datori di lavoro, indipendentemente dal numero di contratti a tempo determinato stipulati da tali lavoratori (punto 116 della sentenza Kiziaki).

In particolare, nella prima categoria rientra a pieno titolo la clausola 8, n. 3 dell’accordo, alla stregua della quale “la applicazione” (della direttiva) “non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dell’accordo”.

Tale clausola, c.d. di non regresso, è stata esplicitamente ritenuta dalla Corte di giustizia come riferita ad ogni aspetto della disciplina nazionale del contratto a termine e quindi anche a quella del primo o unico contratto a tempo determinato.

Ed infatti: “la verifica dell’esistenza di una reformatio inpejus ai sensi della clausola 8 n. 3 dell’accordo quadro deve ritenersi in rapporto all’insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato” (punto 120 della medesima sentenza).

Come è stato recentemente rilevato in dottrina, in tal modo la clausola di non regresso persegue lo scopo, in generale, di impedire arretramenti ingiustificati della tutela nella materia considerata, nella ricerca di un difficile equilibrio tra esigenze di modernizzazione dei sistemi sociali nazionali, flessibilità del rapporto per i datori e sicurezza per i lavoratori.

A ciò consegue che una interpretazione del termine “specificate” che non consentisse, nella piena trasparenza, quel controllo di effettività, assicurato, seppur in maniera diversa, dalla disciplina previgente, risulterebbe in contrasto con la clausola di non regresso di cui alla clausola 8 n. 3 dell’accordo quadro recepito dalla direttiva, in quanto rappresenterebbe un ingiustificato arretramento in rapporto al precedente livello generale di tutela applicabile nello Stato Italiano e finirebbe altresì per configurare un eccesso di delega da parte del governo rispetto a quanto stabilito dalla L. 29 dicembre 2000, n. 422, che a questo attribuiva unicamente il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE, con la possibilità di apportare nei settori interessati dalla normativa da attuare unicamente modifiche o integrazioni necessarie ad evitare disarmonie tra le norme introdotte e quelle già vigenti.

Questa Corte ha peraltro affermato, nell’occasione prima ricordata, che siffatta specificazione delle ragioni giustificatrici del termine può risultare an che indirettamente nel contratto di lavoro e da esso per relationem in altri testi scritti accessibili alle parti, in particolare nel caso in cui, data la complessità e la articolazione del fatto organizzativo, tecnico o produttivo che è alla base della esigenza di assunzioni a termine, questo risulti analizzato in documenti specificatamente ad esso dedicati per ragioni di gestione consapevole e/o concordata con i rappresentanti del personale.

Senonchè nel caso in esame, nella evidente assoluta genericità della clausola appositiva del termine quanto alla prima parte della stessa, la ricorrente, ancorchè abbia affermato che uno articolato sviluppo di tali indicazioni è contenuto negli accordi ivi richiamati, non ne evidenzia poi, almeno attraverso la riproduzione degli snodi essenziali, il contenuto, limitandosi ad una generico richiamo ad esigenze nascenti dall’opposizione sindacale a “processi di mobilità interaziendale, col conseguente trasferimento dei dipendenti che vi hanno aderito”, richiamo che non riesce in alcun modo a spiegare le ragioni per cui da quel processo di mobilità sarebbe derivata l’esigenza di assunzioni a termine.

La genericità, per difetto di autosufficienza (su cui cfr., recentemente, Cass. nn. 5043/09, 4823/09 e 338/09) del ricorso sul punto, ne determinano, alla luce delle considerazioni svolte, l’infondatezza, restando definitivamente accertata, alla stregua della sentenza impugnata, la mancata specificità della causale dedotta nei contratti di lavoro dei resistenti.

Resta assorbito l’esame della censura relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale, mentre va respinta quella relativa alla omessa considerazione dell’istanza di esibizione di documentazione, in quanto evidentemente e correttamente ritenuta con finalità meramente esplorativa e pertanto in violazione delle regole legali relative all’onere di deduzione e prova in giudizio.

Concludendo, il ricorso va pertanto respinto, con la conseguente condanna della ricorrente a rimborsare alle resistenti delle spese di questo giudizio, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alle resistenti le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 10,00 per spese ed Euro 2.500,00, oltre accessori di legge, per onorari.

Così deciso in Roma, il 24 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2010

 

 

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