Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8101 del 02/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 02/04/2010, (ud. 11/03/2010, dep. 02/04/2010), n.8101

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15297/2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO Luigi, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TOSI PAOLO, giusta delega a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

M.P.;

– intimata –

sul ricorso 19553/2006 proposto da:

M.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MERULANA

234, presso lo studio dell’avvocato BOLOGNA GIULIANO, che lo

rappresenta e difende, giusta mandato a margine del controricorso e

ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TOSI PAOLO, giusta delega a margine del

ricorso;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 914/2005 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 13/05/2005 r.g.n. 2064/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/03/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ABBRITTI Pietro, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

 

Fatto

IN FATTO E DIRITTO

La Corte rilevato che:

il giudice di appello di Torino, confermando la sentenza di prime cure, ha dichiarato la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato fra il lavoratore in epigrafe da una parte, e Poste Italiane s.p.a. dall’altra; per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società Poste Italiane affidato a due motivi, illustrati da memoria; il lavoratore ha resistito con controricorso ed ha impugnato in via incidentale detta sentenza sulla base di un’unica articolata censura;la società ha resistito con controricorso;

il ricorso principale e quello incidentale vanno preliminarmente riuniti riguardando l’impugnazione della stessa sentenza;

La Corte territoriale con riferimento al contratto a termine stipulato, con decorrenza 2 luglio 2001, a norma dell’art. 25 del c.c.n.l. 11 gennaio 2001, premesso che ancorchè nel contratto individuale si trovasse richiamata la doppia causale di cui all’art. 25 del CCNL 2001, doveva considerarsi valida la previsione della sostituzione di personale in ferie dovendosi escludere la ricorrenza della causale legata alle esigenze tecnico-organizzative che, comunque in via astratta non era incompatibile; ha concluso che ricorrendo la prova della esigenza di servizio determinate dalla assenze per ferie e della corrispondenza, almeno sotto il profilo quantitativo tra il personale assente e quello assunto,la clausola relativa al termine doveva ritenersi valida; la Corte del merito, poi, con riferimento al contratto stipulato, in data 26 febbraio 2002 per il periodo dal 26 febbraio 2002 al 30 aprile 2002, “ai sensi della vigente normativa” per “esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002”, ha, sulla premessa dell’applicabilità del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, confermato, ritenendo generica l’indicazione in contratto delle esigenze, la sentenza di primo grado in punto di declaratoria della nullità del termine apposto a detto contratto e di condanna della società a pagare le retribuzioni omesse a far tempo dalla messa in mora, dedotti, però, riformando in parte qua la sentenza di prime cure, gli importi percepiti per l’impiego ottenuto, medio tempore;

la suddetta impostazione è stata censurata dalla società e dal lavoratore che, rispettivamente, assumono la violazione del citato D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 e l’interpretazione del predetto art. 25 del c.c.n.l. 11 gennaio 2001;

la censura, di cui al ricorso incidentale, relativa all’erronea interpretazione dell’art. 25 ccnl 2001 è infondata;

deve premettersi, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modifiche nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, convertito con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, quella di cui al citato art. 25, secondo comma, del c.c.n.l. 11 gennaio 2001;

questa Corte (cfr., ad esempio, Cass. 20 aprile 2004 n. 9245) decidendo su una fattispecie analoga a quella in esame (contratto a termine stipulato ai sensi dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997) ha affermato che, quale conseguenza della suddetta delega in bianco conferita dal citato art. 23, i sindacati, senza essere vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge, possono legittimare il ricorso al contratto di lavoro a termine per causali di carattere oggettivo ed anche – alla stregua di esigenze riscontrabili a livello nazionale o locale – per ragioni di tipo meramente “soggettivo”, costituendo l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato idonea garanzia per i lavoratori e per un’efficace salvaguardia dei loro diritti;

la sentenza impugnata ha dato un’interpretazione della disposizione in parola in base alla quale tale clausola conterrebbe l’autorizzazione ad avvalersi liberamente del tipo contrattuale del lavoro a termine senza l’onere del datore di lavoro di provare la riconducibilità causale delle singole assunzioni a termine all’ipotesi contrattualmente prevista;

siffatta interpretazione non è affetta dai denunciati vizi di violazione dell’art. 1362 cod. civ., e segg., e di motivazione: è decisivo il rilievo che, come si desume agevolmente dal complesso delle considerazioni svolte in motivazione, il presupposto interpretativo, pur non esplicitato, è che soltanto così intesa la clausola collettiva sarebbe conforme a legge (art. 1367 cod. civ.);

la sentenza, quindi, si muove pur sempre nella prospettiva, condivisa da questa Corte, che il legislatore avrebbe conferito una delega in bianco ai soggetti collettivi;

con riferimento alla causale della “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno – settembre” questa Corte, del resto, ha ritenuto che non è necessario che siano allegate e provate circostanze ulteriori (cfr., fra le altre, sulla ipotesi collettiva de qua Cass. 6-3-2008 n. 6052, nonchè, sulla analoga ipotesi precedentemente prevista dall’art. 8 del ccnl 1994, fra le altre, Cass. 6-12-2005 n. 26678, Cass. 2-3-2007 n. 4933);

il ricorso incidentale è, quindi, infondato in quanto nella specie, come si legge nell’impugnata sentenza l’assunzione a termine è avvenuta ai sensi dell’art. 25 c.c.n.l. del 2001, e l’esplicito richiamo ad entrambe le causali ivi previste, come ritenuto da questa Corte, non è contraddittorio (sulla possibilità del concorso di più ragioni legittimanti indicate dalle parti cfr. da ultimo Cass. 17/6/2008 n. 16396);

il ricorso principale è fondato, nei limiti di seguito specificati;

il Collegio rileva, dando continuità giuridica alla sentenza n. 2279 del 1 febbraio 2010 di questa Corte, che il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, relativo alla “Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES”, stabilisce ai primi due commi: “1 – E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. 2 – L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1”;

le considerazioni sul significato da attribuire al termine “specificate” non appaiono condivisibili in quanto, come ritenuto da questa Corte con sentenza n. 2279 del 1 febbraio 2010 cit., con l’espressione sopra riprodotta, di chiaro significato già alla stregua delle parole usate, il legislatore ha inteso stabilire un vero e proprio onere di specificazione delle ragioni oggettive del termine finale, perseguendo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto (così Corte Costituzionale sent. 14 luglio 2009 n. 214);

il decreto legislativo n. 368 del 2001, abbandonando il precedente sistema di rigida tipicizzazione delle causali che consentono l’apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro (in parte già oggetto di ripensamento da parte del legislatore precedente), in favore di un sistema ancorato alla indicazione di clausole generali (ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), cui ricondurre le singole situazioni legittimanti come individuate nel contratto, si è posto il problema, nel quadro disciplinare tuttora caratterizzato dal principio di origine comunitaria del contratto di lavoro a tempo determinato (cfr., in proposito, Cass. 21 maggio 2008 n. 12985) del possibile abuso insito nell’adozione di una tale tecnica;

per evitare siffatto rischio di un uso indiscriminato dell’istituto, il legislatore ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell’onere di specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contento che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale;

in altri termini, per le finalità indicate, tali ragioni giustificatrici, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, devono essere sufficientemente particolareggiate, in maniera da rendere possibile la conoscenza dell’effettiva portata delle stesse e quindi il controllo di effettività delle stesse;

che questo debba ritenersi il significato del termine “specificate” usato dall’art. 1, comma 2 del D.Lgs., risulta del resto confermato dalla interpretazione della relativa disciplina anche alla luce della direttiva comunitaria a cui il decreto medesimo da attuazione;

è stato di recente chiarito dalla Corte di giustizia CE (cfr., in particolare sent. 23 aprile 2009 nei procc. riuniti da C – 378/07 a C – 380/07, Kiziaki e altri nonchè sent. 22 novembre 2005, C – 144/04, Mangold) che l’accordo quadro trasfuso nella direttiva 1999/70/CE contiene nel preambolo e del testo, sia norme riguardanti ogni tipo di contratto a termine, sia norme riferibili esclusivamente al fenomeno della reiterazione di tale tipo di contratto e, quindi, ai lavoratori dei contratti a termine ed. successivi; “risulta infatti chiaramente sia dall’obiettivo perseguito dalla direttiva 1999/70, sia dall’accordo quadro e dalla formulazione delle pertinenti disposizioni di esso, che… l’ambito disciplinato da tale accordo non è limitato ai soli lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi, ma che, al contrario, si estende a tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un determinato rapporto di lavoro che li vincola ai rispettivi datori di lavoro, indipendentemente dal numero di contratti a tempo determinato stipulati da tali lavoratori” (punto 116 della sentenza Kiziaki);

in particolare, nella prima categoria rientra a pieno titolo la clausola 8, n. 3 dell’accordo, alla stregua della quale “la applicazione” (della direttiva) “non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo”;

tale clausola, c.d. di non regresso, è stata esplicitamente ritenuta dalla Corte di giustizia come riferita ad ogni aspetto della disciplina nazionale del contratto a termine e quindi anche a quella del primo o unico contratto a tempo determinato;

infatti: “la verifica dell’esistenza di una reformatio in pejus ai sensi della clausola 8 n. 3 dell’accordo quadro deve ritenersi in rapporto all’insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato” (punto 120 della medesima sentenza); come è stato recentemente rilevato in dottrina, in tal modo la clausola di non regresso persegue lo scopo, in generale, di impedire arretramenti ingiustificati della tutela nella materia considerata, nella ricerca di un difficile equilibrio tra esigenze di modernizzazione dei sistemi sociali nazionali, flessibilità del rapporto per i datori e sicurezza per i lavoratori;

a tanto consegue che una interpretazione del termine “specificate” che non consentisse, nella piena trasparenza, quel controllo di effettività, assicurato, seppur in maniera diversa, dalla disciplina previgente, risulterebbe in contrasto con la clausola di non regresso di cui alla clausola 8 n. 3 dell’accordo quadro recepito dalla direttiva, in quanto rappresenterebbe un ingiustificato arretramento in rapporto al precedente livello generale di tutela applicabile nello Stato Italiano e finirebbe altresì per configurare un eccesso di delega da parte del governo rispetto a quanto stabilito dalla L. 29 dicembre 2000, n. 422, che a questo attribuiva unicamente il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE, con la possibilità di apportare nei settori interessati dalla normativa da attuare unicamente modifiche o integrazioni necessarie ad evitare disarmonie tra le norme introdotte e quelle già vigenti;

va, peraltro, affermato che siffatta specificazione delle ragioni giustificatrici del termine può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso per relationem in altri testi scritti accessibili alle parti, in particolare nel caso in cui, data la complessità e la articolazione del fatto organizzativo, tecnico o produttivo che è alla base della esigenza di assunzioni a termine, questo risulti analizzato in documenti specificatamente ad esso dedicati per ragioni di gestione consapevole e/o concordata con i rappresentanti del personale; ciò che la ricorrente deduce essere avvenuto nel caso in esame, in cui il contratto di lavoro, pur enunciando genericamente motivi attinenti ad esigenze aziendali, fa riferimento, per precisarne in concreto la portata, “all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002”;

da tali accordi si desumerebbe, infatti, l’attivazione, nel periodo dagli stessi considerato e nell’ambito del processo di ristrutturazione in atto, di processi di mobilità del personale all’interno dell’azienda al fine di riequilibrane la distribuzione su tutto il territorio nazionale; in tale contesto, secondo la ricorrente, l’accordo 17 ottobre 2001, sul punto implicitamente richiamato anche nelle sede contrattuali successive, prevederebbe che “La società potrà continuare a ricorrere all’attivazione di contratti a tempo determinato per sostenere il livello di servizio recapito durante la fase di realizzazione dei processi di mobilità di cui al presente accordo”; ragione costituente, appunto, la causale assunta a giustificazione del contratto a termine de quo;

infine, con l’ulteriore indicazione nel contratto della sede lavorativa e delle mansioni cui era assegnato il lavoratore, risulterebbero, secondo la ricorrente, sufficientemente specificate le ragioni giustificative della clausola oppositiva del termine alla sua assunzione;

attraverso il richiamo agli accordi collettivi citati il contratto di lavoro de quo specificherebbe, infatti, con riferimento alla sede di lavoro e alla posizione lavorativa del lavoratore, che la causale del termine consiste nella necessità di coprire, temporaneamente e fino al progressivo esaurimento del processo di mobilità interaziendale di cui agli accordi medesimi, posizioni di lavoro scoperte, su tutto il territorio nazionale, presso il servizio recapito della società e, quindi, perciò che riguarda mansioni e qualifiche ben individuate;

ciò posto, il Collegio rileva che i giudici di merito hanno omesso di esaminare gli elementi di specificazione emergenti dal contratto alla luce delle deduzioni della società, al fine di valutarne l’effettiva sussistenza nonchè la sufficienza sul piano della ricorrenza o meno del requisito di cui al comma 2 dell’art. 1 del decreto legislativo, contenendo sostanzialmente il loro giudizio di genericità all’interno della sola prima parte della causale enunciata nel contratto di lavoro in esame con conseguente limitata ed inidonea verifica “della sussistenza dei presupposti del contratto a termine”;

per tali motivi e nei limiti di essi, il ricorso va accolto, con la precisazione che, ove i giudici di merito, cui la causa va rinviata, valutino come sufficientemente specificata la causale, l’onere probatorio relativo alla effettiva ricorrenza nel concreto degli elementi così individuati, ivi compresa l’effettiva destinazione del lavoratore nel corso del rapporto, presso la sede di lavoro indicata, con la qualifica e le mansioni conseguenti, graverà sulla società datrice di lavoro e dovrà essere assolto sulla base della documentazione ritualmente acquisita al processo;

va disattesa la tesi alla stregua della quale, nel nuovo sistema introdotto dal D.Lgs. n. 368 del 2001, non graverebbe più sul datore di lavoro l’onere di provare le ragioni obiettive che giustificherebbero la clausola oppositiva del termine, ma dovrebbe essere il lavoratore a dedurre e provare la non ricorrenza nel caso concreto della situazione legittimante il termine;

questa Corte (Cass. 21 maggio 2008 n. 12985, cit. nonchè gli obiter dicta in Cass. 21 maggio 2002 n. 7468 e 26 luglio 2004 n. 14011) ha, infatti ,avuto già modo di osservare che, anche anteriormente alla esplicita introduzione del comma “premesso” dalla L. 24 dicembre 2007, n. 247, art. 39, secondo cui “Il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”, il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo pur sempre l’apposizione del termine una ipotesi derogatoria;

lo testimonia la stessa tecnica legislativa adottata dal decreto legislativo, secondo la quale l’apposizione del termine “è consentita” solo “a fronte” di determinate specifiche ragioni derogatorie, come tali normalmente da provare in giudizio da chi le deduce a sostegno delle proprie difese.

Lo conferma poi il dato relativo alla “vicinanza” al datore di lavoro delle situazioni derogatorie, anch’essa elemento normalmente significativo del conseguente carico probatorio in giudizio;

sostiene un tale risultato ermeneutico, il richiamo della c.d.

clausola di non regresso contenuta nella direttiva a cui il decreto da attuazione, alla luce delle argomentazioni in precedenza svolte nonchè il riferimento al contenuto della delega alla base del decreto legislativo, limitato appunto all’attuazione della direttiva, che non contiene disposizioni che si attaglino ad una diversa distribuzione dell’onere della prova con riguardo al primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato;

sulla base delle considerazioni svolte, il primo motivo del ricorso principale va parzialmente accolto con assorbimento del secondo e quello incidentale va rigettato; la sentenza va conseguentemente cassata in relazione al parziale accoglimento della censura, con rinvio, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d’appello indicata in dispositivo, che provvederà sulla base dei principi indicati.

PQM

La Corte accoglie parzialmente il primo motivo del ricorso principale, dichiara assorbito il secondo, rigetta il ricorso incidentale. Cassa, in relazione al motivo del ricorso principale parzialmente accolto, la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità alla Corte di Appello di Torino in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2010

 

 

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