Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8100 del 22/03/2019

Cassazione civile sez. trib., 22/03/2019, (ud. 03/10/2018, dep. 22/03/2019), n.8100

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA E. Luigi – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giusep – rel. Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 28163/2011 R.G. proposto da:

Agenzia delle dogane, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei

Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

ATIESSE Spa in liquidazione

– intimata avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale

della Toscana n. 78/5/10, depositata il 4 ottobre 2010.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 ottobre 2018

dal Cons. Giuseppe Fuochi Tinarelli.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Sorrentino Federico, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso per quanto di ragione.

Udito l’Avvocato dello Stato Anna Collabolletta per l’Agenzia delle

dogane che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle dogane emetteva nei confronti della Atiesse Spa (già Atiesse Group Spa), quale responsabile solidale, atto di contestazione e irrogazione di sanzioni, per dazi e per Iva all’importazione per l’anno 2003 per merci importate dalla Cina, poichè, in esito alle risultanze dell’attività di mutua assistenza amministrativa con la Repubblica Popolare Cinese, era emerso che le fatture allegate al certificato Form A erano diverse da quelle originali e il valore delle merci (nella specie, calzature e indumenti) superiore a quanto dichiarato.

L’Ufficio evidenziava, in particolare, che l’immissione in libera pratica era avvenuta a cura del sig. S.M., spedizioniere doganale professionista, il quale aveva dichiarato – senza tuttavia fornire la relativa procura – di agire in rappresentanza diretta dell’importatore, CCM di H.W., su incarico ricevuto dalla First General Trading Sas, di cui era dipendente, la quale, a sua volta, aveva ricevuto l’incarico dalla Atiesse Spa, in rapporti con il suddetto importatore.

La contribuente impugnava l’atto di contestazione deducendo la propria estraneità alla vicenda e la mancata conoscenza delle irregolarità.

La Commissione provinciale tributaria di Pisa accoglieva il ricorso; la sentenza era confermata dal giudice d’appello.

L’Agenzia delle dogane ricorre per cassazione con due motivi. La contribuente è rimasta intimata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1717 c.c., degli artt. 201 e 202 c.d.c., del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 38.

Il secondo motivo denuncia insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio.

1.1. L’Agenzia delle dogane lamenta, in sostanza, che la CTR, con erronea applicazione delle norme richiamate, abbia ritenuto la contribuente non coinvolta nell’importazione e, comunque, – con motivazione apodittica e del tutto insufficiente – che non fosse provata la consapevolezza dell’irregolarità della dichiarazione, essendosi la stessa limitata a fornire della documentazione al doganalista.

2. Le doglianze, da esaminare unitariamente in quanto strettamente e logicamente connesse, sono fondate.

3. Occorre premettere, in primo luogo, che la vicenda in esame resta disciplinata nell’ambito dell’art. 201 c.d.c., per essere avvenuta l’importazione in base ad una dichiarazione doganale.

L’art. 4 c.d.c., punto 9, definisce l’obbligazione doganale come l’obbligo di una persona di corrispondere l’importo dei dazi all’importazione applicabili a una determinata merce.

L’immissione in libera pratica, ossia l’atto di introdurre, nel territorio comunitario, merce di provenienza extracomunitaria, rappresenta, dunque, il presupposto dell’obbligazione doganale.

Tale atto, nelle operazioni doganali regolari, è preceduto dalla dichiarazione doganale, che – come anche osservato in dottrina costituisce la manifestazione di volontà dell’importatore (o, comunque, dell’operatore che la presenta) di rendere liberamente commerciabili i beni esteri in un mercato diverso da quello di origine.

La fattispecie è espressamente regolata dall’art. 201 c.d.c. che dispone “1. L’obbligazione doganale all’importazione sorge in seguito: a) all’immissione in libera pratica di una merce soggetta a dazi all’importazione, oppure b) al vincolo di tale merce al regime dell’ammissione temporanea con parziale esonero dai dazi all’importazione.

2. L’obbligazione doganale sorge al momento dell’accettazione della dichiarazione in dogana.

3. Il debitore è il dichiarante. In caso di rappresentanza indiretta è parimenti debitrice la persona per conto della quale è presentata la dichiarazione in dogana.

Quando una dichiarazione in dogana per uno dei regimi di cui al paragrafo 1 è redatta in base a dati che determinano la mancata riscossione, totale o parziale, dei dati dovuti per legge, le persone che hanno fornito detti dati necessari alla stesura della dichiarazione, e che erano o avrebbero dovuto ragionevolmente essere a conoscenza della loro erroneità, possono parimenti essere considerate debitori conformemente alle vigenti disposizioni nazionali”.

L’art. 202 c.d.c., invece, prevede che l’obbligazione doganale sorge con l’immissione in libera pratica nel territorio comunitario anche nei casi di “introduzione irregolare” e di “sottrazione indebita al controllo doganale”.

In altri termini, nelle ipotesi contemplate dall’art. 201 c.d.c. la nascita dell’obbligazione è collegata – come per la vicenda in esame – alla dichiarazione doganale, mentre negli altri casi, venendo a mancare l’elemento dichiarativo e l’indicazione della destinazione della merce, opera una presunzione legale di immissione in libera pratica.

3.1. Così determinato l’ambito di riferimento normativo, occorre altresì valutare se e come possa venire in rilievo la posizione dell’Atiesse Spa.

Va indubbiamente escluso, innanzitutto, che il suo ruolo sia riconducibile nell’ambito della rappresentanza diretta o indiretta, non fosse altro per il fatto che nessuna dichiarazione doganale è stata presentata dalla contribuente.

Il ruolo ricoperto nella complessa operazione di importazione qualificato dalla CTR come di spedizioniere e vettore – è, in realtà, quello di intermediario: la società, sul piano formale, è stata incaricata dalla CCM di importare merci dalla Cina e, poi, ha dato incarico ad un’altra società, e quindi ad uno spedizioniere doganale, di svolgere le operazioni di immissione in libera pratica.

A tal fine, come affermato dalla CTR, “ha fornito al doganalista i certificati di origine della merce. I documenti di trasporto, le fatture degli esportatori, nonchè una apposita perizia giurata dimostrativa della congruità dei prezzi esposti in fattura con quelli in vigore sul mercato”.

La fattispecie, dunque, resta sussunta nella previsione del capoverso dell’art. 201 c.d.c., comma 3, per cui “Quando una dichiarazione in dogana per uno dei regimi di cui al paragrafo 1 è redatta in base a dati che determinano la mancata riscossione, totale o parziale, dei dati dovuti per legge, le persone che hanno fornito detti dati necessari alla stesura della dichiarazione, e che erano o avrebbero dovuto ragionevolmente essere a conoscenza della loro erroneità, possono parimenti essere considerate debitori conformemente alle vigenti disposizioni nazionali”.

4. Ciò premesso, nel giudizio in questione la CTR ha ritenuto che l’Agenzia delle dogane “non ha provato che Atiesse fosse consapevole di irregolarità nella dichiarazione”, aggiungendo che “anzi, i fatti di causa che peraltro non risultano contestati, escluderebbero oggettivamente tale consapevolezza” e che “la sentenza 23 settembre 2004 della Corte di Giustizia CEE, al fine della estensione della responsabilità, esclude ogni automatismo, individuando quale presupposto di tale estensione, la consapevolezza del soggetto a una introduzione irregolare. In conclusione, tale consapevolezza non risulta in alcun modo provata, così come non risulta provata la irregolarità, dal momento che la perizia prodotta dalla stessa Atiesse non è oggetto di contestazione alcuna”.

5. Così statuendo, la CTR ha, innanzitutto, malamente applicato l’art. 201 c.d.c.: pur partendo dal corretto presupposto che, nella vicenda in esame, veniva in riferimento una introduzione regolare delle merci, mediante dichiarazione doganale, ha poi omesso di considerare che la condotta rilevante – e su cui doveva incentrarsi la valutazione della consapevolezza della contribuente – era costituita dall’esser stata la dichiarazione stessa redatta in base a dati errati.

Nel richiamare la sentenza della Corte di Giustizia (sentenza 23 settembre 2004, in C-414/02), del resto, neppure ha considerato che nella vicenda lì in esame veniva in rilievo una ipotesi di “introduzione irregolare” e che, dunque, l’applicazione del principio andava commisurato alla diversa ipotesi regolata dall’art. 201 c.d.c..

E’ ben vero che gli artt. 201 e 202 c.d.c. forniscono – con riguardo ai comportamenti materiali di coloro che hanno partecipato all’immissione in libera pratica irregolare, indebita o in base a dati errati – una disciplina largamente sovrapponibile, ricollegando la responsabilità alla circostanza che essi sapevano o dovevano sapere “ragionevolmente” o “secondo ragione” dell’irregolarità o dell’erroneità, ma tale valutazione va operata sulla specifica condotta contemplata dalle singole norme.

5.1. Ed invero: la Atiesse Spa ha fornito al dogazionalista l’intera documentazione utilizzata per redigere la dichiarazione doganale e, dunque, rispetto a tale condotta andava, in primo luogo, operata la valutazione sulla consapevolezza o meno dell’erroneità.

5.2. Su tale fronte, la motivazione è gravemente omissiva.

Del tutto omessa è, in primo luogo, la considerazione che sul certificato Form A d’origine della merce risultava la stessa Atiesse Spa quale destinatario importatore mentre sulle fatture falsificate era la CCM (v. ai fini del rispetto del principio di autosufficienza in via indiretta, l’indicazione a pagg. 10-11, e poi 32, del ricorso dei contenuti e del luogo e sede di produzione della documentazione).

Si tratta di un primo decisivo elemento perchè sintomatico della partecipazione della stessa società e, dunque, della consapevolezza della erroneità dei dati forniti.

5.3. Ma non solo. Pure omesso è ogni esame sul diretto e rilevante coinvolgimento della società con riguardo alla filiale di (OMISSIS), il cui titolare ( S.F.) è stato altresì sottoposto a processo penale proprio in relazione ai fatti in giudizio, nonchè del rinvenimento presso la sede della filiale stessa di documentazione in bianco e timbri per la falsificazione delle fatture.

5.4. Giova sottolineare, sul punto, che la circostanza che venga in rilievo una persona giuridica e non una persona fisica non ha carattere ostativo poichè, da un lato, “l’art. 202, paragrafo 3, primo trattino, di tale codice” – conclusione pienamente mutuabile per l’art. 201, paragrafo 3 – “menziona la “persona” che ha proceduto all’introduzione irregolare, senza precisare se tale persona sia una persona fisica o una persona giuridica. Può quindi essere considerata debitrice dell’obbligazione doganale qualunque “persona” ai sensi della detta disposizione, ossia quella che può essere considerata, con i suoi atti, all’origine dell’irregolare introduzione della merce” (Corte di Giustizia, 25 gennaio 2017, Ultra-Brag AG, in C-679/15; in precedenza v. Corte di Giustizia 23 settembre 2004, Spedition Ulustrans, in C-414/02) e, dall’altro, le sanzioni, in forza del D.L.. n. 269 del 2003, art. 7, sono esclusivamente a carico delle persone giuridiche.

5.5. Quanto poi alla riferibilità della condotta del dipendente ai fini della responsabilità della società la già citata decisione Ultra-Brag AG, in C-679/15 ha affermato il principio secondo il quale “una persona giuridica, il cui dipendente, che non è il suo rappresentante legale, è all’origine dell’introduzione irregolare di una merce nel territorio doganale dell’Unione, può essere considerata come debitrice dell’obbligazione doganale sorta da tale introduzione, allorchè detto dipendente ha introdotto la merce di cui trattasi rispettando l’ambito dei compiti affidati dal suo datore di lavoro ed eseguendo gli ordini impartiti, a tal fine, da un altro dipendente di quest’ultimo, abilitato a tale riguardo nell’ambito delle proprie funzioni, e ha così agito nel quadro delle proprie attribuzioni, in nome e per conto del suo datore di lavoro”.

Tale principio, in relazione alla fattispecie in esame, va rapportato alle decisioni assunte quanto alla fornitura di dati errati e dunque, a maggior ragione, all’eventuale ruolo e coinvolgimento del contribuente nella preparazione dei dati stessi.

Orbene, le condotte sopra evidenziate appaiono riferibili alla contribuente proprio in relazione all’attività del titolare della filiale di (OMISSIS) pacificamente “retta da un institore”, ossia da soggetto con la qualifica di dirigente, che, ai sensi dell’art. 2203 c.c., è “preposto dal titolare all’esercizio di un’impresa commerciale” o, come nella specie, di una sua filiale, munito di pieni poteri di rappresentanza e in rapporto di diretta dipendenza gerarchica con l’imprenditore, senza figure intermedie.

Anche per tale profilo, dunque, la sentenza è omissiva.

5.6. In tale ambito – e pur sempre ai fini della valutazione della condotta della contribuente – doveva, infine, essere vagliata l’opera prestata dal doganalista S.M., ossia se questi aveva operato in regime di rappresentanza diretta o indiretta.

Occorre premettere, invero, che all’art. 201 c.d.c., nel prevedere esplicitamente la responsabilità del dichiarante indiretto – il quale, anzi, è il primo obbligato – mira ad estendere il novero dei debitori dell’obbligazione doganale, sì da assicurarne, con maggiore efficienza, la riscossione; tale ratio, del resto, assiste anche la previsione della responsabilità delle “altre persone” (v. Corte di Giustizia, sentenza 17 novembre 2017, A, in C-522/16).

Inoltre, quanto alla ripartizione dell’onere della prova sul carattere della rappresentanza, l’art. 5 c.d.c., comma 5, nel prevedere che “L’autorità doganale può chiedere a chiunque dichiari di agire in nome o per conto di un’altra persona di fornirle le prove del suo potere di rappresentanza”, postula che essa incomba sul dichiarante che spenda una tale qualità e ciò sull’evidente assunto che la rappresentanza diretta comporta l’esclusione di responsabilità, per cui incombe su colui che la invoca dimostrarla.

Tale conclusione trova poi esplicita conferma nel disposto di cui all’art. 5 c.d.c., comma 4, secondo periodo, che, in caso di falsus procurator, stabilisce che “la persona che non dichiari di agire a nome o per conto di un terzo o che dichiari di agire a nome o per conto di un terzo senza disporre del potere di rappresentanza è considerata agire a suo nome e per proprio conto”.

Ne deriva, quindi, che, in caso di contestazione da parte dell’Ufficio, incombe sul dichiarante provare il conferimento della procura, nella cui mancanza deve ritenersi che abbia agito quale rappresentante indiretto.

5.7. Orbene, con riguardo alla vicenda in esame va rilevato che il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 40, comma 2, nel testo ratione temporis applicabile, prevedeva che “la rappresentanza diretta, limitatamente alle dichiarazioni in dogana, è riservata agli spedizionieri doganali iscritti nell’albo professionale istituito con la L. 22 dicembre 1960, n. 1612, salvo quanto previsto nell’art. 43”, sicchè solo il S. poteva operare in rappresentanza diretta e ciò in base ad apposita procura rilasciata direttamente dall’importatore, CCM, mentre nella vicenda in esame è pacifico che quest’ultimo aveva intrattenuto rapporti solo con la Atiesse Spa, che, a sua volta, aveva attribuito l’incarico alla First General Trading Sas, che ne aveva officiato il S. quale proprio dipendente.

E’ quindi corretto, sul punto, che alla Atiesse Spa non poteva essere attribuita una efficace rappresentanza diretta.

Va rilevato, del resto, che la procura è un atto conferito intuitu personae, sicchè il rappresentante non può sostituire altri a sè nell’esecuzione dell’incarico ricevuto, a meno che tale facoltà non gli sia stata espressamente conferita (Cass. n. 15412 del 28/06/2010): ne deriva che l’eventuale conferimento in tali termini (semprechè tale facoltà fosse stata sin dall’inizio prevista ai sensi dell’art. 1717 c.c.) non avrebbe impedito il conferimento di un sub mandato ad uno spedizioniere doganale.

Il conferimento della rappresentanza ad un’altra società (ossia la First General Trading Sas), invece, non era, per le medesime ragioni, comunque idoneo ad assicurare la rappresentanza diretta.

L’utilizzo da parte di questa società di un proprio dipendente con la richiesta qualifica, poi, imponeva o l’esistenza di un ulteriore mandato con espressa autorizzazione alla sostituzione ovvero che fosse lo stesso S. ad ottenere dall’importatore una specifica procura, nella specie peraltro assente.

E’ dunque evidente che, in assenza di una tale specifica procura al doganalista, il complessivo rapporto presentava – in ogni caso caratteri anomali atteso che, attraverso una serie plurima di atti unilaterali, all’ultimo soggetto della catena procedimentale sarebbero state attribuite, nella migliore delle ipotesi, facoltà invece precluse ai titolari delle posizioni pregresse.

La peculiarità della situazione, dei resto, aveva portato l’ufficio doganale – come ampiamente dedotto dall’agenzia delle dogane (v. atto di gravame riprodotto per autosufficienza) – a chiedere, ai sensi dell’art. 5 c.d.c., comma 5, al S. la prova della relativa procura, richiesta rimasta insoddisfatta, questione su cui il giudice regionale omette, anche qui, ogni considerazione limitandosi a osservare – secondo le deduzioni della stessa società – che la CCM era la contribuente, l’Atiesse era il “primo incaricato” e la First General Trading era lo “spedizioniere doganalista”, ossia il “rappresentante” “tramite il dipendente Massimo S.”.

La CTR, dunque, anche su tale profilo, non solo evita di considerare i rilievi dell’Ufficio ma neppure coglie l’evidente anomalia della vicenda, tanto più significativa attesa la competenza professionale della società, nel cui oggetto sociale vi era anche “l’effettuazione di operazioni doganali”.

6. La CTR, dunque, ha errato nell’applicare l’art. 201 c.d.c., travisandone la fattispecie e omettendo di considerare i presupposti di fatto su cui esaminare la prova della consapevolezza, statuendo, in termini non lineari, per la sua assenza.

7. In accoglimento del ricorso, dunque, la sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese, alla CTR competente in diversa composizione per un nuovo esame in conformità ai principi esposti.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla CTR della Toscana in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2019

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