Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8087 del 23/03/2021

Cassazione civile sez. I, 23/03/2021, (ud. 03/02/2021, dep. 23/03/2021), n.8087

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 20754/2015 proposto da:

Comune di Pianella, in persona del sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in Roma, Corso d’Italia n. 19, presso gli Studi Legali

Riuniti, rappresentato e difeso dall’Avvocato Sergio Della Roccà,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Ce.r.in. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Piazza di Villa Carpegna n. 58,

presso lo studio dell’Avvocato Marco Petrini, che la rappresenta e

difende giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 99/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

pubblicata il 26/1/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

3/2/2021 dal Cons. Dott. Alberto Pazzi.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. A seguito del deferimento in sede di arbitrato rituale da parte del Comune di Pianella della controversia insorta con Ce.r.in. s.r.l., concessionaria del servizio comunale di gestione delle entrate tributarie per il biennio 2005 – 2006, il collegio arbitrale dichiarava risolto il contratto intercorso fra le parti per grave inadempimento della concessionaria e condannava quest’ultima al risarcimento del danno, che liquidava, previa compensazione con il credito della controparte per mancato guadagno e diritto agli aggi per il periodo precedente al verificarsi degli inadempimenti, in Euro 21.883,31.

2. La Corte di appello dell’Aquila, con sentenza del 26 gennaio 2015, rigettava l’impugnazione del lodo per nullità presentata da ambedue le parti.

La Corte distrettuale riteneva – fra l’altro e per quanto qui di interesse – che la denuncia di nullità del lodo arbitrale per inosservanza di regole di diritto nella liquidazione delle voci di danno diverse da quella relativa ai tributi non riversati nelle casse comunali fosse inammissibile, giacchè non era sindacabile il potere discrezionale degli arbitri di determinare l’ammontare del pregiudizio in via equitativa nè era stato dedotto l’omesso o inadeguato esame di circostanze di carattere decisivo.

La Corte distrettuale, inoltre, reputava che le doglianze concernenti la liquidazione equitativa del danno per mancato versamento delle somme relative alla TARSU per gli anni 2005 e 2006 si risolvessero in un’inammissibile denuncia di questioni attinenti al merito, non potendosi contestare l’individuazione, quale fatto notorio, del fenomeno dell’evasione fiscale nè potendosi muovere critiche a una motivazione priva di alcuna inconciliabilità logica.

Infine, risultava logica e coerente – a parere dei giudici distrettuali la motivazione del lodo arbitrale laddove negava l’esistenza di un danno per l’inesatto versamento delle somme relative all’ICI, in mancanza di elementi probatori che dimostrassero che la somma complessivamente riscossa a questo titolo fosse difforme da quella che si sarebbe dovuta incassare.

3. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso il Comune di Pianella prospettando cinque motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso Ce.r.in. s.r.l..

Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 5 e art. 1226 c.c..

Il collegio arbitrale, pur avendo riconosciuto che Ce.r.in. s.r.l. aveva omesso di fornire il rendiconto delle proprie attività, inviare documentazione amministrativa e contabile idonea a consentire un controllo sul suo operato e predisporre la banca dati dei contribuenti, aveva quantificato il danno in soli Euro 18.000, senza esporre alcuna ragione a giustificazione della decisione.

La Corte distrettuale aveva reputato legittima una simile statuizione nonostante il giudicante sia tenuto a indicare i criteri equitativi che ritiene di applicare e debba arrivare a una determinazione dell’ammontare del danno in maniera non palesemente sproporzionata per difetto o eccesso.

4. Il motivo è fondato.

La Corte d’appello ha ritenuto che l’ammissibilità della denuncia di nullità del lodo arbitrale per inosservanza di regole di diritto (nella liquidazione delle voci di danno diverse da quella relativa ai tributi non riversati nelle casse comunali) postulasse l’allegazione esplicita dell’erroneità del canone applicato e non fosse invece proponibile tramite la deduzione di lacune di indagine e motivazione, le quali avrebbero potuto comportare un’inosservanza di legge solo in caso di omesso o inadeguato esame di circostanze di carattere decisivo, nella specie non dedotte dalle parti.

Ciò pur avendo dato atto in precedenza che l’amministrazione comunale aveva lamentato la nullità del lodo ex art. 829 c.c., comma 1, n. 5, “per omessa indicazione dei criteri utilizzati per la liquidazione equitativa”.

Ora, una cosa è il potere discrezionale degli arbitri di determinare l’ammontare del danno in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., non censurabile in sede di legittimità se non per vizi della motivazione (Cass. 21802/2006), un’altra è la necessità che il giudicante, ove proceda a una valutazione equitativa del danno, indichi i criteri a cui si attiene, in quanto in questo caso si tratta di un’omissione che integra vuoi un error in iudicando (denunciabile ex art. 829 c.p.c., comma 3, rispetto a una convenzione di arbitrato risalente ad epoca antecedente all’entrata in vigore della nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006; cfr. Cass., Sez. U., 9284/2016), vuoi un vizio di motivazione a mente del comma 1, n. 5, della medesima norma.

La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che il giudicante deve indicare, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al quantum, al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta a ogni controllo (Cass. 2327/2018).

Infatti, solo l’enunciazione dei criteri seguiti consente di verificare che il giudicante, nel procedere a una valutazione equitativa del danno, abbia rispettato i principi di adeguatezza, proporzione, parità di trattamento e non arbitrarietà (Cass. 15883/2014) e si sia attenuto a regole che non fossero manifestamente incongrue rispetto al caso concreto, radicalmente contraddittorie o macroscopicamente contrarie a dati di comune esperienza e la cui applicazione abbia condotto a un esito particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto (Cass. 13153/2017, Cass. 23304/2007).

La Corte di merito doveva quindi verificare se il collegio arbitrale avesse indicato i criteri utilizzati per la liquidazione equitativa e ad essi si fosse attenuto.

5.1 Il secondo mezzo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., comma 3, per violazione della regola di diritto di cui all’art. 115 c.p.c., comma 2, nonchè dell’art. 829 c.p.c., comma 1, nn. 5 e 11: il collegio arbitrale, nel quantificare le somme dovute dalla concessionaria per mancato riversamento delle somme riscosse a titolo di TARSU 2005, aveva diminuito la differenza fra la previsione di incasso e l’entità delle somme versate in una percentuale del 20%, tenuto conto di un mancato introito ritenuto fisiologico.

La Corte di merito aveva erroneamente ritenuto – in tesi di parte ricorrente – che le doglianze presentate in proposito si risolvessero in un’inammissibile denuncia dell’erronea liquidazione equitativa del danno, reputando inoltre che un’evasione nella misura indicata rientrasse nella nozione di fatto notorio, malgrado il fenomeno dell’evasione di tributi locali riferiti al possesso di immobili in quella percentuale non costituisse affatto una nozione di comune esperienza.

5.2 Il terzo motivo assume la violazione e falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., comma 3, per violazione della regola di diritto di cui all’art. 115 c.p.c., comma 2, nonchè dell’art. 829 c.p.c., comma 1, nn. 5 e 11: il collegio arbitrale, nel quantificare le somme dovute dalla concessionaria per mancato riversamento delle somme riscosse a titolo di TARSU 2006, non solo aveva diminuito la differenza fra la previsione di incasso e l’entità delle somme versate in una percentuale del 20%, in ragione di un mancato introito ritenuto fisiologico, ma aveva proceduto anche a un’ulteriore decurtazione perchè la confusione dei rapporti intercorsi fra le parti impediva di stabilire con certezza se l’ammanco fosse interamente addebitabile a Ce.r.in. s.r.l..

La Corte di merito, oltre a ritenere legittima la prima decurtazione per le stesse ragioni indicate rispetto al medesimo tributo dell’anno precedente, aveva escluso, rispetto alla seconda decurtazione, l’esistenza di una inconciliabilità logica tra maggiore inadempimento del concessionario e liquidazione equitativa del danno.

In questo modo i giudici distrettuali non avevano colto che gli argomenti offerti dal collegio arbitrale erano manifestamente contraddittori, non risultando conciliabile una prevalenza dell’inadempimento della concessionaria con l’attribuzione delle conseguenze degli omessi versamenti su entrambe le parti del rapporto in egual misura, e difettosi, fondandosi su una confusione dei rapporti contabili che in nessuna misura era addebitabile al Comune.

6. I motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione della loro parziale sovrapponibilità, sono in parte infondati, in parte inammissibili.

6.1 L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dall’art. 1226 c.c., dà luogo a un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa ed è subordinato alla condizione che per la parte interessata risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo ammontare (Cass. 16344/2020, Cass. 4310/2018).

La quantificazione di un danno operata con una diminuzione in percentuale di un dato numerico in precedenza accertato, in ragione di un fatto ritenuto notorio incidente sul danno, costituisce un’operazione matematica che, fondandosi su una forfettizzazione e non su elementi certi di prova utilizzati per il computo, dimostra come il giudicante abbia ritenuto impossibile o particolarmente difficile la puntuale dimostrazione dell’entità del pregiudizio, decidendo così di fare ricorso a un’equità giudiziale correttiva.

Non si presta a censure la qualificazione di una simile modalità di quantificazione del danno come valutazione equitativa ex art. 1226 c.c..

6.2 La Corte distrettuale ha apprezzato “la sussistenza, quale fatto notorio, del fenomeno dell’evasione fiscale e tributaria di un’apprezzabile percentuale di consociati, posto dal collegio a fondamento della valutazione equitativa del danno” (pag. 9).

Dunque, il fatto notorio individuato è l’evasione fiscale in una percentuale apprezzabile, fissata poi al 20% con valutazione equitativa, e non l’evasione nella percentuale del 20%.

Le censure mosse a questo proposito sono inammissibili, perchè non risultano coerenti con la decisione impugnata e ne stravolgono il contenuto.

6.3 Il collegio arbitrale, nel quantificare il danno provocato dal mancato versamento da parte del concessionario di quanto riscosso a titolo di TARSU per l’anno 2006, ha ritenuto che la differenza fra il dovuto e il versato andasse diminuita, oltre che nella medesima percentuale già applicata per l’anno prima in ragione del fatto notorio dell’evasione fiscale, nell’ulteriore misura del 50% in quanto, “data la confusione dei rapporti intercorsi tra le parti, la carenza di documentazione e di prova ed in ragione del reciproco inadempimento delle parti come evidenziato e motivato sub quesito 10, non è possibile stabilire con certezza se detta somma sia interamente addebitabile alla Cerin”.

La Corte distrettuale ha escluso che rispetto a una simile statuizione sussista un vizio di mancanza o contraddittorietà della motivazione, non essendo possibile ravvisare una vera e propria inconciliabilità tra le parti della motivazione di consistenza tale da rendere impossibile la ricostruzione della ratio decidendi e integrare un’assenza di motivazione.

La doglianza sollevata a questo proposito non contesta il principio di diritto affermato dalla Corte distrettuale (del tutto coerente, del resto, con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la contraddittorietà interna tra le diverse parti della motivazione, non espressamente prevista tra i vizi che comportano la nullità del lodo, può assumere rilevanza, quale vizio del lodo, soltanto in quanto determini l’impossibilità assoluta di ricostruire l’iter logico e giuridico sottostante alla decisione per totale assenza di una motivazione riconducibile al suo modello funzionale; cfr. Cass. 11895/2014, Cass. 1258/2016), ma la valutazione che gli arbitri hanno compiuto nel procedere alla quantificazione del danno.

Una critica di questo tenore, lungi dal denunciare l’esistenza di una motivazione incomprensibile, investe invece il merito della lite e risulta di conseguenza inammissibile, non potendo essere ricondotta all’ipotesi di impugnazione per nullità del lodo prevista dall’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 11.

7. Il quarto motivo di ricorso si duole della violazione dell’art. 829 c.p.c., comma 1, nn. 5 e 11.

Il collegio arbitrale aveva valutato congruo l’incasso effettivo di quanto dovuto per l’ICI per gli anni 2005 e 2006, stante la mancanza di una previsione di incasso di comparazione.

La Corte d’appello aveva creduto che la motivazione offerta sul punto fosse logica e coerente, malgrado l’accertamento dell’omissione di qualsiasi rendicontazione e documentazione utile a ricostruire gli incassi ICI facesse sì – in tesi di parte ricorrente – che il diniego del risarcimento fosse fondato su un inadempimento dello stesso danneggiante; di conseguenza si doveva ritenere che la complessiva motivazione del lodo fosse manifestamente contraddittoria.

8. Il motivo è inammissibile.

La Corte di merito ha ritenuto che la motivazione offerta dal collegio arbitrale non presentasse vizi logici laddove aveva reputato che non vi fosse prova dell’esistenza di alcun danno per mancato incasso dell’ICI, “in assenza di elementi probatori da cui potere desumere l’esatta entità degli importi dovuti a titolo di ICI”.

La doglianza in esame predica l’esistenza di un vizio di manifesta contraddittorietà ritenendo che tale accertamento si ponga in insanabile contrasto con l’accertamento dell’omissione di qualsiasi rendicontazione e/o documentazione “utile a ricostruire gli incassi ICI”.

Si tratta però, ancora una volta, non della denuncia di un vizio di motivazione in termini di incomprensibilità assoluta (tenuto conto, peraltro, che i due accertamenti riguardano elementi di fatto non coincidenti, costituiti l’uno dagli importi dovuti a titolo di ICI, l’altro dagli introiti incassati a tale titolo), ma di una critica attinente al merito della controversia, come tale inammissibile.

9. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 829 c.p.c., comma 1, nn. 5 e 11, comma 3 e art. 112 c.p.c..

Il collegio arbitrale aveva accordato a Ce.r.in. s.r.l. un danno per aggi non conseguiti a seguito dell’incasso diretto dell’ICI su conti del Comune dal 2005 e sino al giugno 2006.

A tal proposito il Comune, nell’impugnare il lodo, aveva denunciato la violazione dell’art. 112 c.p.c., per ultrapetizione, dal momento che Ce.r.in. s.r.l. aveva domandato l’accertamento delle somme incassate direttamente dal Comune a titolo di ICI e TARSU soltanto “a far data dal secondo semestre 2006”, mentre il collegio arbitrale aveva accertato e liquidato un danno, relativo all’anno 2005 e sino al giugno 2006, non richiesto.

Su tale motivo di impugnazione la Corte distrettuale aveva del tutto omesso di pronunciarsi.

10. Il motivo è inammissibile.

L’amministrazione ricorrente infatti, pur deducendo di aver denunciato con apposito motivo di impugnazione il vizio di ultrapetizione del lodo senza ottenere risposta dalla Corte distrettuale, non ha riportato sufficienti indicazioni di elementi e riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale denunciato (vale a dire la domanda proposta in sede arbitrale da Ce.r.in. s.r.l., per intero, e la statuizione adottata dal collegio arbitrale rispetto a tale domanda, nella sua integralità), onde consentire a questa Corte di apprezzare il fondamento e la decisività della questione posta in sede di impugnazione ed effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale.

Ora la Corte di Cassazione, allorquando sia denunciato un error in procedendo, è sì anche giudice del fatto processuale e ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa al fine di valutare la fondatezza del vizio denunciato, purchè però lo stesso sia stato ritualmente indicato e allegato nel rispetto delle disposizioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4; è perciò necessario, non essendo tale vizio rilevabile ex officio, che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il fatto processuale di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (si vedano in questo senso, fra molte, Cass. 2771/2017, Cass. 19410/2015).

L’odierno ricorrente doveva perciò accompagnare la denunzia del vizio con la riproduzione, diretta o indiretta, del contenuto degli atti che sorreggevano la censura, dato che questa Corte non è legittimata a procedere a un’autonoma ricerca degli atti a tal fine rilevanti ma solo a una verifica del contenuto degli stessi.

In mancanza di una simile indicazione la doglianza in esame risulta giocoforza inammissibile per violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

11. La sentenza impugnata andrà dunque cassata, con rinvio della causa alla corte distrettuale, la quale, nel procedere al suo nuovo esame, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo e il terzo motivo, dichiara inammissibili gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di Appello dell’Aquila in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2021

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