Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8078 del 08/04/2011

Cassazione civile sez. lav., 08/04/2011, (ud. 10/03/2011, dep. 08/04/2011), n.8078

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentato e difeso

dall’avvocato MASCHERONI EMILIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

L.V.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA

195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 281/2006 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 06/04/2006 r.g.n. 1979/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/03/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO LAMORGESE;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI per delega MASCHERONI EMILIO;

udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 6 aprile 2006, la Corte di appello di Palermo, in riforma della decisione del Tribunale della stessa sede, dichiarava la nullità del termine applicato da Poste Italiane s.p.a.

all’assunzione di L.V.F. per il periodo dal 9 novembre 1999 al 29 febbraio 2000, e la conversione del rapporto in quello di lavoro a tempo indeterminato, con la condanna della società a riammettere in servizio il lavoratore e corrispondergli le retribuzioni maturate dalla notificazione del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

La Corte dì merito, esclusa l’eccepita risoluzione del contratto per mutuo consenso in quanto dalla mera inerzia dell’appellante, protrattasi per due anni e tre mesi, prima di agire in giudizio, non si poteva desumere una rinuncia dello stesso alla prosecuzione del rapporto di lavoro, accertava che l’apposizione del termine al contratto di lavoro era stata giustificata dalla datrice di lavoro con il richiamo alla disciplina legale e all’art. 8 ccnl 26 novembre 1994, nonchè al successivo accordo integrativo del 25 settembre 1997, in particolare per far fronte alle esigenze di carattere straordinario conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed, in attesa dei progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane. Per tali ipotesi, aveva proseguito la Corte territoriale, le assunzioni erano legittimate dalla contrattazione collettiva fino al 30 aprile 1998, data di scadenza della proroga per l’esercizio della facoltà per l’azienda di procedere ad assunzioni a termine per sopperire alle dette esigenze, ma poichè nella specie il contratto di lavoro era stato stipulato successivamente a quella data, il termine era stato illegittimamente apposto.

L’intimato ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il ricorso, articolato in nove motivi, la società deduce, innanzitutto, che il rapporto si era risolto per mutuo consenso, dato il comportamento del lavoratore, consistito nell’inerzia manifestata prima di agire in giudizio, sicuro indice, secondo la ricorrente, del suo disinteresse alla prosecuzione del rapporto; sostiene poi che la sentenza impugnata ha affermato l’esistenza di un limite temporale all’esercizio della facoltà di procedere ad assunzioni di lavoratori a tempo, non previsto dalla disciplina contrattuale, nè dagli accordi attuativi, i quali avevano efficacia ricognitiva della permanenza della situazione in cui si versava l’azienda, e che legittimava il ricorso ai contratti di lavoro a termine delle esigenze anche dopo il 30 aprile 1998; addebita al giudice del merito di avere esposto in modo inidoneo le ragioni circa il rapporto sussistente tra contratto collettivo, accordo sindacale del 25 settembre 1997 e i successivi ed. accordi attuativi, in relazione al limite temporale per il ricorso alle assunzioni a termine dei lavoratori; critica la sentenza impugnata per avere affermato che dalla nullità del termine del contratto di lavoro conseguiva, da un lato, la prosecuzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e, dall’altro lato, l’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro, senza verificare se vi fosse stata un’effettiva costituzione in mora della società da parte del lavoratore, e senza considerare l’aliunde perceptum, che non poteva che essere genericamente dedotto dalla società, non in grado di produrre o provare alcunchè in ordine al possibile svolgimento da parte dell’odierno intimato di attività lavorativa presso altri datori di lavoro nel periodo successivo alla scadenza del rapporto in questione.

Il ricorso è infondato.

Quanto alla prima questione proposta dalla società, come questa Corte ha più volte affermato in analoghe controversie instaurate da altri lavoratori nei confronti della medesima azienda, per il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, è necessario, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, che sia accertata una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, non solo sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, ma anche del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (v.

Cass. 10 novembre 2008 n. 26935, Cass. 28 settembre 2007 n. 20390).

Nella specie, la Corte di merito ha fornito una motivazione, in fatto, congrua, adeguata e priva di vizi logici, evidenziando in primo luogo che il ritardo con il quale il lavoratore aveva agito in giudizio per far valere l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato era contenuto in due anni e tre mesi, ed in mancanza di altri elementi, non costituiva una inequivoca manifestazione alla rinuncia del predetto lavoratore alla prosecuzione del rapporto, soprattutto in considerazione della aspettativa da parte dello stesso di stipulare altri contratti di lavoro a termine; possibilità che per il lavoratore sarebbe venuta meno in base ad una circolare della società, contenente l’esplicito divieto di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato con i soggetti che avevano un contenzioso giudiziale o extragiudiziale nei confronti di Poste Italiane, con riferimento a pregressi rapporti di lavoro con la medesima azienda.

Riguardo alla altre censure di cui ai motivi dal terzo al settimo, va evidenziato che la sentenza impugnata ha accertato che la società aveva assunto il L.V. per il periodo innanzi indicato, in base all’accordo integrativo del 25 settembre 1997, giustificando l’apposizione del termine al contratto per la necessità di far fronte alle esigenze di carattere straordinario conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in. ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed, in attesa del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane.

La sentenza ha quindi affermato l’illegittimità del termine, per la stipula del contratto oltre la data del 30 aprile 1998, così facendo applicazione di consolidati principi elaborati con riferimento ad analoghe controversie.

In proposito, infatti, la giurisprudenza di questa Corte Suprema (cfr., fra le tante, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378, Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 16 novembre 2010 n. 23120), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha confermato le pronunce dei giudici di merito che avevano dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra citato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione . .), dopo il 30 aprile 1998.

4 E’ questa un’interpretazione da confermare anche dopo l’entrata in vigore della riforma del processo di cassazione introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che consentendo il ricorso per cassazione “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro” (art. 360 c.p.c., n. 3), affida a questa Corte l’interpretazione diretta delle norme dei contratti collettivi che regolano il rapporto di lavoro dei dipendenti di Poste Italiane.

Richiamato quanto già affermato circa la configurabilità, in relazione alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 di una vera e propria delega, in bianco a favore dei sindacali nell’individuazione di nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, e premesso altresì che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito del distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e di altro successivo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, nel senso che con tali accordi le parti avevano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi, con il secondo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.

Si è in particolare osservato che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

Inoltre è stato rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ. a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Infine, questa Corte ha ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti avessero espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la conclusione affermata dal giudice del merito è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141, Cass. 11 febbraio 2010 n. 3116).

In base al detto orientamento, ormai consolidato, va confermata la nullità del termine apposto al contratto stipulato dalla società Poste Italiane con il L.F. per il periodo 9 novembre 1999/29 febbraio 2000.

Riguardo alle censure formulate con gli ultimi due motivi, concernenti l’omessa verifica e della costituzione in mora della società da parte del lavoratore, e della percezione da parte dello stesso di altri redditi derivanti dall’espletamento dell’attività lavorativa alla dipendenze di terzi (il c.d. aliunde perceptum), esse sono inammissibili.

La società non spiega perchè la richiesta di riammissione in servizio esplicitamente domandata dal lavoratore estromesso dall’azienda alla prevista (illegittima) scadenza del rapporto di lavoro contenuta nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, non valga anche come offerta delle prestazioni lavorative, e nel sostenere che la percezione da parte del lavoratore non poteva che essere dedotta se non genericamente, si limita ad una deduzione approssimativa, peraltro in violazione dell’onere probatorio a suo carico, in base al principio posto dall’art. 2697 cod. civ. La medesima genericità si riscontra, del resto, nel quesito di diritto enunciato al termine dell’ottavo mezzo di annullamento, difetto questo che rappresenta un ulteriore profilo di inammissibilità delle censure là svolte, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. Infatti, trattandosi di impugnazione proposta contro una sentenza pubblicata il 6 aprile 2006, si devono applicare le modifiche al processo di cassazione introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e in particolare la disposizione dettata dal citato art. 366 bis cod. proc. civ., senza che a nulla rilevi la sua abrogazione disposta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, che ha effetto soltanto per i ricorsi per cassazione contro provvedimenti pronunciati dopo l’entrata in vigore della legge stessa (Cass. 24 marzo 2010 n. 7119).

Ciò comporta la mancanza di qualsiasi incidenza delle deduzioni svolte dalla società ricorrente nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ., laddove prospetta, quanto alle conseguenze economiche della declaratoria di nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010.

Si deve infatti rilevare che, a prescindere dall’esame delle obiezioni del resistente in ordine all’esame dei temi posti dalla legge sopravvenuta ora richiamata – in proposito il L.V., nella sua memoria illustrativa, ha fatto specifico riferimento alle argomentazioni riportate nella pronuncia di questa Corte n. 65 del 3 gennaio 2011 – va premesso, in via di principio, che costituiscono condizioni necessarie per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, non solo il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070), ma anche che il motivo, il quale investa, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile, secondo le regole sue proprie.

E’ necessario quindi che i motivi di ricorso attengano in modo specifico alle conseguenze patrimoniali derivanti dall’affermata nullità del termine del contratto di lavoro, e che il loro esame non sia precluso per una qualunque ragione di inammissibilità delle censure, come appunto si verifica nella specie, preclusione comportante il passaggio delle statuizioni che qui si sostiene confutate.

Assorbito ogni altro rilievo, il ricorso deve essere rigettato.

Per il criterio della soccombenza, le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, sono poste a carico di Poste Italiane s.p.a.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento in favore del resistente, delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 25,00 per esborsi e in Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) per onorari, oltre spese generali, i.v.a. c c.p.a..

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2011

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