Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8068 del 23/04/2020

Cassazione civile sez. trib., 23/04/2020, (ud. 05/11/2019, dep. 23/04/2020), n.8068

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. DI PAOLA Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14840-2012 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

TAVECCHI SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

eletti7amente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 91, presso lo

studio dell’avvocato CLAUDIO LUCISANO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato RAFFAELLO LUPI giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza 68/2011 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 09/05/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/11/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

STANISLAO DE MATTEIS che ha concluso per rigetto dei motivi da 1 a 7

e accoglimento dell’motivo di ricorso;

uditi per il controricorrente gli Avvocati LUCISANO e VIGNOLI per

delega dell’Avvocato LUPI che hanno chiesto il rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 68/45/2011, depositata dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia il 9.05.2011, con la quale, confermando la pronuncia del giudice di primo grado, era accolto il ricorso introduttivo della Tavecchi s.r.l. avverso due avvisi di accertamento, relativi agli anni d’imposta 2002 e 2003, con cui erano state rideterminate l’Irpeg e l’Irap e contestate violazioni inerenti gli obblighi di fatturazione ai fini Iva.

Ha riferito che le rettifiche, per quello che qui interessa, riguardavano la ripresa a tassazione di spese per mostre e fiere, contabilizzate fuori dell’esercizio di competenza, e delle spese sostenute per l’importazione di merci da Hong Kong (che il D.M. 23 gennaio 2002 includeva tra gli Stati a fiscalità privilegiata), in violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 110, commi 10 e 11, non indicati separatamente nelle dichiarazioni dei redditi, come invece prescritto dalla normativa.

Era seguito il contenzioso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Bergamo, che con sentenza n. 133/03/2007 aveva accolto le ragioni della società. L’appello proposto dalla Agenzia era stato rigettato dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia con la sentenza ora al vaglio della Corte. Il giudice regionale aveva affermato, quanto ai costi per acquisti da Paesi inseriti nella cd. “black list”, che le suddette operazioni, pur non inserite nella dichiarazione dei redditi originaria, erano state riportate nella dichiarazione integrativa, di cui asseriva la tempestiva presentazione. Quanto alle spese per fiere e mostre, aveva affermato che, pur contabilizzate in anni non di competenza, esse potessero compensarsi, per corrispondere i mancati versamenti nell’anno 2002 ai versamenti in eccesso dell’anno 2003, a tal fine ricorrendo alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 8, comma 1.

L’Agenzia censura la pronuncia con otto motivi:

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1986, n. 917, art. 76, (ratione temporis vigente), del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, commi 301, 302, 303, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente ritenuto che i costi per acquisti da paesi a fiscalità privilegiata, sostenuti negli anni accertati, fossero deducibili dopo l’entrata in vigore della L. n. 296 del 2006, art. 1, ancorchè non indicati separatamente nella dichiarazione dei redditi;

con il secondo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 9, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, del D.P.R. 26 ottobre 1986, n. 917, art. 76, del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente affermato la deducibilità di costi sostenuti dalla contribuente per acquisti da paesi a fiscalità privilegiata, pur non essendo stati indicati separatamente nella originaria dichiarazione dei redditi;

con il terzo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 9, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, del D.P.R. 26 ottobre 1986, n. 917, art. 76, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 13, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente ritenuto che la dichiarazione originaria dei redditi potesse essere emendabile pur dopo l’inizio dei controlli fiscali da parte della Amministrazione;

con il quarto per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente riconosciuto l’integrabilità delle dichiarazioni fiscali entro il termine quadriennale;

con il quinto per omessa o insufficiente motivazione su un fatto decisivo per la controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, circa l’esame dell’effettivo interesse economico della società all’acquisto di merce da Hong Kong;

con il sesto per omessa o insufficiente motivazione su un fatto decisivo per la controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, circa la vantaggiosa comparazione del costo della merce acquistata da Hong Kong rispetto alla stessa tipologia acquistata in Italia;

con il settimo per omessa o insufficiente motivazione su un fatto decisivo per la controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, circa la prova, necessaria, della impossibilità di approvvigionarsi della merce alle stesse condizioni economiche, in paesi non inseriti nella black list;

con l’ottavo per violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 8, del D.P.R. 29 settembre 1983, n. 602, art. 38, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente affermato che le spese, pur contabilizzate fuori dall’esercizio di competenza, potessero essere compensate con i crediti dell’anno successivo.

Ha dunque chiesto la cassazione della sentenza, con ogni consequenziale statuizione.

Si è costituita la società, che ha contestato nel merito le avverse ragioni, chiedendo il rigetto del ricorso. Ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I primi due motivi, che possono essere trattati congiuntamente perchè connessi, sono infondati. Con essi l’Agenzia si duole che con riguardo agli anni d’imposta accertati la disciplina dettata dall’art. 110 del TUIR, pur dopo le modifiche portate dalla L. n. 296 del 2006, non consentisse la deducibilità dei costi sostenuti per l’acquisto di merce da Paesi considerati a fiscalità privilegiata, nell’ipotesi di omessa indicazione separata delle suddette spese nella dichiarazione dei redditi (rigo RF).

Gli approdi interpretativi della giurisprudenza di legittimità in tema di regolamentazione fiscale dei rapporti commerciali con paesi inseriti nella cd. “black list” -fermi i riflessi sostanziali in ordine alla indeducibilità dei costi quando non provata l’effettiva attività commerciale del contraente estero, o la corrispondenza delle operazioni ad un effettivo interesse economico del contribuente, o ancora la mancata concreta esecuzione (art. 110, comma 10 e 11, TUIR), questione che peraltro sarà esaminata con riguardo ai motivi quinto, sesto e settimo -, hanno chiarito che la disciplina introdotta dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 302 e 303, a decorrere dall’1.01.2007, ha degradato l’obbligo di indicazione separata in dichiarazione dei suddetti costi da presupposto sostanziale per la loro deducibilità ad adempimento di carattere formale, la cui violazione è sanzionata con un importo pari al 10% della componente negativa, e comunque entro i limiti minimi di Euro 500,00 e massimi di Euro 50.000,00 (comma 302, che ha modificato il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 8, introducendo il comma 3 bis). La disciplina transitoria ne ha esteso gli effetti anche alle violazioni commesse in epoca anteriore alla entrata in vigore della legge (comma 303), alle quali deve cumularsi, se applicata dalla Amministrazione, la sanzione prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 1, (sanzione amministrativa da Euro 258,00 ad Euro 2.065,00), come desumibile dalla lettera del medesimo comma 303 cit., alla luce del rigoroso regime di indeducibilità anteriore alla novella del 2006 (Cass., sent. n. 11933/2016; cfr. anche Cass., sent. n 21955/2015; 5085/2017; 2251/2018; 19561/2018).

Per completezza, quanto alla previsione delle sanzioni, la lettura della disciplina introdotta con la L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 301, 302 e 303, senz’altro idonea a garantirne la tenuta sul piano della razionalità- non viola il principio di legalità, poichè, sotto il profilo sanzionatorio e degli effetti che ne conseguono, il regime introdotto dalla normativa sopravvenuta è nel suo complesso certamente meno gravoso per il contribuente, rispetto a quello previgente (Cass., sent. nn. 4030 e 6205 del 2015; 6338 e 6651 del 2016).

Ne consegue che la fattispecie della quale si controverte non era più sottoposta al rigoroso precedente regime della indeducibilità dei costi anche per il solo compimento di violazioni formali – e salvi dunque i riflessi sostanziali cui si è accennato -, proprio per la espressa previsione di una disciplina transitoria, introdotta dalla cit. L. n. 296, comma 303.

I motivi vanno pertanto rigettati.

Trova invece fondamento il terzo motivo, con il quale l’Amministrazione finanziaria denuncia l’erroneità della decisione per aver riconosciuto che la dichiarazione dei redditi originaria, nella quale la società aveva omesso di indicare separatamente le spese sostenute per l’acquisto di merce da paesi inclusi nella cd. “black list”, era stata tempestivamente regolarizzata dalla dichiarazione integrativa.

Sul tema, quanto alla possibilità di correzione della omissione mediante la dichiarazione integrativa, di cui al D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, commi 8 e 8 bis, con regolarizzazione della dichiarazione dei redditi e con incidenza, se tempestiva, sulla stessa sanzione prevista dal cit. comma 3 bis, questa Corte ha affermato che essa trova preclusione quando ormai iniziate nei confronti del contribuente omittente operazioni di verifica e controllo. Sul punto infatti costituisce orientamento consolidato quello secondo cui la possibilità di regolarizzare la dichiarazione dei redditi successivamente all’inizio delle operazioni di verifica, ponendo rimedio alla irregolarità, si tradurrebbe in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni stabilite dal legislatore (Cass., nn. 19561/2018; 10989/2016; 20635/2015).

Ebbene nel caso di specie l’affermazione del giudice regionale, secondo cui la dichiarazione originaria poteva essere emendata nel termine di un quadriennio, senza che alcuna norma precludesse il ricorso alla dichiarazione integrativa quando ormai iniziate le operazioni di accesso, ispezione e verifica, è in palese contrasto con il principio di diritto ripetutamente ribadito dalla Corte di legittimità. Nè ha pregio la difesa della contribuente, che ha sostenuto come la dichiarazione integrativa fosse intervenuta dopo l’invio del primo questionario, che non faceva riferimenti ai costi per l’acquisto di merce da paesi a fiscalità privilegiata, ma prima dell’invio del secondo questionario. E’ infatti pacifico che l’attività di controllo si fosse manifestata già con l’invio del primo questionario, sicchè l’interesse alla tutela dell’effettività della disciplina sanzionatoria impedisce di valorizzare il distinguo, preteso dalla contribuente.

Per mera completezza è appena il caso di rammentare che l’ulteriore abrogazione dell’art. 110 del TUIR, commi 10 e 11, disposto dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 142, lett. a), decorrendo dall’anno d’imposta successivo al 2015 (che pone definitivamente fine all’obbligo della separata indicazione dei costi relativi alle operazioni commerciali con i paesi a fiscalità privilegiata), non trova applicazione nella presente fattispecie.

In conclusione l’omessa indicazione dei costi per l’acquisto di merce da paesi inseriti nella black list perfeziona la violazione degli obblighi formali previsti dalla disciplina ratione temporis vigente.

L’accoglimento del terzo motivo assorbe il quarto.

Venendo ora all’esame dei motivi quinto, sesto e settimo, che possono essere trattati congiuntamente perchè con essi, sotto più aspetti, la ricorrente si duole del vizio motivazionale della sentenza per non aver correttamente valutato la sussistenza dell’effettivo interesse economico alle operazioni di acquisto di merce presso paesi inseriti nella black list, elemento sostanziale che si riflette sulla deducibilità dei costi, essi sono infondati.

L’Agenzia critica la sentenza che a suo dire non avrebbe adeguatamente ponderato gli elementi da cui desumere l’effettivo interesse alle operazioni, trascurando ogni analisi volta a verificare se i costi degli acquisti di merce da Hong Kong fossero competitivi rispetto agli acquisti eseguibili in Italia oppure in Paesi non inseriti tra quelli a fiscalità privilegiata.

Nella sentenza impugnata il giudice d’appello ha dato atto che la società ha fornito “ampia e soddisfacente documentazione” dell’effettivo interesse economico. Ha registrato la decisa maggiore economicità del mercato di Hong Kong, ha valorizzato la circostanza che i prodottì commercializzati e acquistati da Hong Kong fossero di fabbricazione cinese, e che “la Cina è un “distretto pellettiero” conosciuto e del quale si servono grandi marchi della moda”; ha dato atto delle perizie depositate dalla società, in cui era spiegata l’utilità dell’acquisto di prodotti da quel mercato, analizzando “non un solo prodotto ma una ampia gamma di prodotti.”. Ha ritenuto che a fronte delle specifiche ragioni della contribuente l’Amministrazione ha opposto generiche doglianze.

Ebbene in materia di vizio di motivazione la Corte ha affermato che la sua deduzione non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima (in riferimento alla previgente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (cfr. Cass., 19547/2017; 17477/2007).

D’altronde costituisce principio altrettanto consolidato quello secondo cui la scelta degli elementi probatori e la loro valutazione rientrano nella sfera di discrezionalità del giudice di merito, il quale non è tenuto a confutare dettagliatamente le singole argomentazioni svolte dalle parti su ciascuna delle risultanze probatorie, dovendo solo fornire un’esauriente e convincente motivazione sulla base degli elementi ritenuti più attendibili e pertinenti.

Ciò chiarito, erra l’Agenzia quando si duole del vizio di motivazione della sentenza perchè, al contrario di quanto afferma, il giudice d’appello ha sufficientemente argomentato le ragioni per le quali ha ritenuto esistente l’interesse della contribuente alla operazione economica di acquisto delle merci da Hong Kong. Il ragionamento è esente da vizi logici ed errori materiali ed è fondato su dati offerti dalla contribuente, come d’altronde era suo onere. A fronte di essi nulla è stato evidenziato dalla Agenzia, se non una critica generica, insufficiente a confutare le ragioni prospettate dalla società.

In conclusione i tre motivi vanno rigettati.

Ne discende che, con l’entrata in vigore della disciplina introdotta dalla L. n. 296 cit., commi 302 e 303, applicabile anche alle fattispecie anteriori come la presente, al pregresso rigoroso regime della indeducibilità dei costi, riconducibile alla valenza di presupposto sostanziale della indicazione separata dei costi in dichiarazione, è seguito un declassamento della condotta prescritta a semplice adempimento formale, con l’effetto che la fattispecie, quando violato l’obbligo, non incide sulla deducibilità dei costi (salva la contestazione della assenza dei presupposti sostanziali descritti nel comma 11 cit., che nel caso di specie è stata esclusa), e sul piano sanzionatorio esula dalla infedele dichiarazione, non incidendo più sul calcolo dei componenti di reddito, con conseguente esclusione anche delle sanzioni previste dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2.

Ciò tuttavia non esclude del tutto l’illiceità della condotta omissiva del contribuente, che non può pertanto andare esente da qualunque sanzione, dovendo invece essere sottoposta a quella prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3 bis. Trattasi infatti di sanzione introdotta, con effetto retroattivo in sostituzione della ben più rigorosa disciplina antecedente.

Ciò giustifica la cassazione della sentenza impugnata.

Esaminando infine l’ottavo motivo, con il quale l’Agenzia ha lamentato l’errore giuridico in ordine all’applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 8 e del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, per aver affermato che le spese, pur contabilizzate fuori dall’esercizio di competenza, potessero essere compensate coni crediti dell’anno successivo, esso è fondato e trova accoglimento.

Il giudice d’appello, a fronte della constatazione che la società “non ha mai disconosciuto la ripresa a tassazione degli importi, ma ha chiesto di dare attuazione ad una compensazione delle imposte relative all’anno 2002 derivanti dall’accertamento, con le medesime imposte dell’anno 2003 versate in eccesso e che l’ufficio dovrebbe rimborsare”, ha ritenuto di accogliere la richiesta della contribuente, ricorrendo alla L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 11, inquadrandola in una prospettiva di “efficiente agire amministrativo.”.

La prospettata ricostruzione del sistema delle compensazioni perorato dal giudice regionale si infrange sul consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui in materia tributaria, la compensazione è ammessa, in deroga alle comuni disposizioni civilistiche, soltanto nei casi espressamente previsti, non potendo derogarsi al principio in forza del quale ogni operazione di versamento, riscossione e rimborso ed ogni deduzione sono regolate da specifiche e inderogabili norme di legge. Principio che non può considerarsi superato dalla L. n. 212 cit., art. 8, comma 1, il quale, nel prevedere in via generale l’estinzione dell’obbligazione tributaria per compensazione, ha lasciato tuttavia ferme le disposizioni vigenti, demandando ad appositi regolamenti l’estensione di tale istituto ai tributi per i quali non è contemplato, a decorrere dall’anno di imposta 2002 (Cass., 12262/2007; 17001/2013; in materia di Iva cfr. 8716/2013).

Questo Collegio condivide il riportato orientamento, al quale ritiene di dare continuità, tenendo conto che le regole contabili, se così non fosse, di fatto sarebbero prive di ogni valore, così svuotando le stesse regole di competenza applicate ai componenti del reddito d’impresa, a partire dalle prescrizioni dell’art. 109 TUIR.

Il giudice regionale non si è attenuto a tale principio di diritto, errando nella decisione relativamente alle spese contabilizzate fuori delle regole di competenza.

In conclusione la sentenza va cassata anche in relazione all’ottavo motivo.

Tenendo conto dei motivi accolti, il giudizio va rinviato alla Commissione regionale della Lombardia, che in diversa composizione, oltre che sulle spese, provvederà, con riguardo alla omessa separata indicazione in dichiarazione dei costi relativi alle operazioni commerciali eseguite con imprese sedenti in paesi a fiscalità privilegiata relativamente agli anni d’imposta 2002 e 2003-, a quantificare la sanzione proporzionale di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3 bis, pari al 10% dell’ammontare dei costi non separatamente indicati, e comunque entro i limiti minimi e massimi specificati nella norma. Deciderà inoltre sulla determinazione dell’imponibile degli anni oggetto di accertamento, in ragione delle spese indicate in anni non di competenza, come rilevate negli avvisi di accertamento per cui è causa.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo e l’ottavo motivo di ricorso, assorbito il quarto e rigettati gli altri; cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, che in diversa composizione deciderà anche sulle spese.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2020

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