Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8061 del 08/04/2011

Cassazione civile sez. lav., 08/04/2011, (ud. 11/01/2011, dep. 08/04/2011), n.8061

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

ARCHIMEDE 116, presso lo studio dell’avvocato NERI FULVIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANNUNZIATA CRISTIANO,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CASSA DI RISPARMIO DI BIELLA E VERCELLI S.P.A. BIVERBANCA, in persona

del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, VIA LEONE

IV n. 99, presso lo studio dell’avvocato FERZI CARLO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CHIELLO ANGELO

GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1941/2006 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 05/02/2007 R.G.N. 1125/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/01/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato NERI FULVIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 7/12/06 – 5/2/07 la Corte d’Appello di Torino rigetto’ l’appello proposto da B.M. avverso la sentenza del 5/7/05 del Tribunale di Biella, con la quale era stato ritenuto legittimo il licenziamento del 17/9/04 intimatogli con effetto dall’1/10/04 dalla Cassa di Risparmio di Biella e Vercelli S.p.A nell’ambito della procedura di mobilita’ avviata ex L. n. 221 del 1991 dalla Capogruppo Banca Intesa, e compenso’ tra le parti le spese di lite in ragione della complessita’ della vicenda.

La Corte torinese addivenne a tale decisione dopo aver rilevato che non solo le specifiche deduzioni svolte in prime cure dalla Biverbanca sulla situazione di criticita’ e sulla necessita’ di avviare un processo di riorganizzazione non avevano trovato alcuna smentita in giudizio, ma anche che il licenziamento del B. era stato il punto d’arrivo di una complessa procedura, contraddistinta dalla individuazione, in base al criterio della maggiore anzianita’, di 104 esuberi nella Regione Piemonte, in cui serrato e costante era stato il confronto fra l’impresa bancaria e le organizzazioni sindacali, all’esito del quale il lavoratore era risultato essere in possesso dei requisiti di legge per aver diritto alla pensione di anzianita’ e di versare, percio’, nelle condizioni previste per il suddetto esodo. Per la cassazione della sentenza propone ricorso il B., affidando l’impugnazione a tredici motivi di censura. Resiste con controricorso la Cassa di Risparmio di Biella e Vercelli spa – Biverbanca. Il ricorrente deposita, altresi’, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia l’omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione alla L. n. 223 del 1991, art. 24 laddove prevede come presupposto della procedura il requisito numerico minimo di “almeno cinque licenziamenti” (art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare, il B. si duole della totale mancanza di qualsiasi disamina dell’eccezione di illegittimita’ del licenziamento, che fu da lui sollevata in base alla dedotta insussistenza del predetto requisito numerico, in mancanza del quale la societa’ avrebbe potuto licenziarlo solo per giusta causa o giustificato motivo ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 1. Il motivo e’ inammissibile.

Invero, la censura in esame integra una violazione dell’art. 112 c.p.c. e, quindi, una violazione della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4 (nullita’ della sentenza e del procedimento) e non, come nella fattispecie, come vizio motivazionale a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, attenendo quest’ultimo esclusivamente all’accertamento e valutazione di fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (ex plurimis Cass. 9.4.1990, n. 2940; Cass. 27.3.1993,n. 3665).

Infatti, il vizio di omessa pronunzia, quale vizio che si assume incidere sulla sentenza pronunziata dal giudice del gravame, e’ passibile di denunzia esclusivamente con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 (Cass. SU. 14.1.1992, n. 369; Cass. 25.9.1996, n. 8468).

Da ultimo (Cass. Sez. 3, n. 1196 del 19/01/2007) e’ stato ribadito che “la pronuncia d’ufficio da parte del giudice del merito su una domanda o un’eccezione che puo’ essere fatta valere esclusivamente dalla parte interessata integra violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4). Conseguentemente, e’ inammissibile il motivo di ricorso con il quale siffatta censura sia proposta sotto il profilo della violazione di norme di diritto (riconducibile al citato art. 360, n. 3) ovvero come vizio della motivazione, incasellarle nello stesso art. 360 c.p.c., n. 5”.

2. L’inammissibilita’ del primo motivo preclude l’esame del secondo che e’ incentrato sulla dedotta violazione della L. n. 223 del 1991, art. 24 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per l’asserita insussistenza del predetto requisito numerico minimo dei cinque licenziamenti: invero, come si e’ appurato in precedenza, tale requisito e’ stato gia’ oggetto della eccezione di omesso esame di cui alla precedente doglianza che si e’, pero’, rivelata inammissibile.

3. Col terzo motivo il B. si duole della omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione alla L. n. 223 del 1991, art. 24 laddove prevede come presupposto della procedura di licenziamento collettivo “la riduzione o trasformazione dell’attivita’ o del lavoro”, nonche’ in relazione alla comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo del 27 marzo 2003 ed ai successivi accordi sindacali del 10 aprile 2003, del 29 Aprile 2003 e del 23 marzo 2004 (art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare il B. lamenta che nel ricorso in appello aveva ribadito l’eccezione di illegittimita’ del licenziamento per carenza dell’ulteriore indefettibile presupposto previsto dalla L. n. 223 del 1991, art. 24 essendo insussistente, a suo giudizio, l’ipotesi della “riduzione o trasformazione di attivita’ o di lavoro”, ma che, cio’ nonostante, nella sentenza impugnata non era stata adottata al riguardo alcuna motivazione. Il ricorrente ribadisce la decisivita’ dell’eccezione non esaminata, posto che in assenza di un presupposto della procedura collettiva di licenziamento, quale quello appena denunziato, la risoluzione del suo rapporto di lavoro avrebbe potuto essere adottata solo per “giusta causa” o per “giustificato motivo” ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 1.

Osserva la Corte che il motivo e’ inammissibile per le stesse ragioni esposte nella trattazione della prima censura, vale a dire per il rilievo che il vizio di omessa pronunzia, quale vizio che si assume incidere sulla sentenza pronunziata dal giudice del gravame, e’ passibile di denunzia esclusivamente con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e non come vizio motivazionale di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, cosi’ come prospettato nella fattispecie.

4. Col quarto motivo il ricorrente deduce la violazione della L. n. 223 del 1991, art. 24 in relazione alla comunicazione di avvio della procedura per licenziamento collettivo del 27 marzo 2003 ed ai successivi accordi sindacali del 10 aprile 2003, del 29 aprile 2003 e del 23 marzo 2004 (art. 360 c.p.c., n. 3), per l’inesistenza di una “riduzione o trasformazione di attivita’ o di lavoro”. Al riguardo viene posto il quesito di diritto che puo’ riassumersi nei seguenti termini: dato per presupposto, secondo la tesi del ricorrente, che non e’ consentito attribuire all’attivita’ della societa’ capogruppo (nella fattispecie la INTESABCI S.p.A) una valenza giuridicamente idonea a farla percepire come entita’ unificata nella procedura di licenziamento collettivo, il giudice avrebbe dovuto accertare la sussistenza del nesso causale tra il progettato ridimensionamento (rientrante nell’ipotesi di accordo di programma stipulato il 5/12/02 dalla Capogruppo) ed i singoli provvedimenti di recesso, anche per la ragione che la carenza dei presupposti legittimanti il licenziamento collettivo e’ insuscettibile di essere sanata per il tramite di accordi sindacali; pertanto, a suo dire, deve considerarsi illegittima la sentenza nella parte in cui si esclude che l’omessa comunicazione preventiva delle ragioni atte a far ritenere esuberante ognuna delle 104 posizioni lavorative individuate costituisca un vizio della procedura di riduzione del personale; altrettanto illegittima e’ la sentenza nella parte in cui si afferma che una simile individuazione finirebbe per contraddire il presupposto della necessita’ di procedere genericamente all’esubero di personale e di far fronte alla stessa riduzione attraverso l’accesso al Fondo di solidarieta’ per i dipendenti delle aziende di credito.

5. Col quinto motivo, che e’ strettamente correlato al precedente, il ricorrente si duole della violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. in relazione alla eccezione di violazione della L. n. 223 del 1991, art. 24 (art. 360 c.p.c., n. 3), nonche’ dell’omessa motivazione su un fatto decisivo (360 c.p.c., n. 5), evidenziando l’omessa pronunzia sia sulla decisiva eccezione di illegittimita’ del licenziamento per inesistenza dei presupposti di legge di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 24 che sulle prove documentali offerte. Al riguardo il ricorrente segnala che egli era stato l’unico dipendente licenziato per effetto dell’avvio di procedura di cui alla lettera del 27 marzo 2003, cosi’ come comprovato dalle comunicazioni in atti del 29 settembre e del 1 ottobre 2004; inoltre, egli aveva eccepito che la procedura di licenziamento non era neppure scaturita dall’effettiva riduzione o trasformazione di attivita’ o di lavoro e, quindi, da alcuna effettiva esigenza tecnica, produttiva ed organizzativa, non potendo ritenersi, a tal fine, sufficiente il mero richiamo contenuto nella comunicazione di avvio della procedura all’ipotesi di accordo di programma del 5 dicembre 2002 sottoscritto dall’impresa Capogruppo INTESABCI e dalle organizzazioni sindacali.

Entrambi i motivi, che possono essere trattati congiuntamente in considerazione dell’identita’ del tema ad essi sotteso, sono infondati.

Anzitutto, non e’ affatto vero che il giudice d’appello abbia omesso di pronunziarsi sulla questione della presunta inesistenza dei presupposti di legge di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 24 e sulle prove documentali che sarebbero state offerte a tal riguardo.

Invero, a pagina 12 della sentenza il giudice d’appello spiega che non solo le specifiche deduzioni svolte dalla Biverbanca in prime cure sulla situazione di criticita’ e sulla necessita’ di avviare un processo di riorganizzazione (pagg. 8-10 e 33-34 della memoria costitutiva) non trovarono alcuna smentita in giudizio, applicando, pertanto, correttamene il principio della non contestazione, ma anche che il licenziamento del B. non era stato altro che il punto d’arrivo di una complessa procedura in cui si era rivelato serrato e costante il confronto fra l’impresa e le organizzazioni sindacali. A questo riguardo il giudice d’appello richiama, anzitutto, la lettera del 2/10/2002, con la quale la Capogruppo Banca Intesa avvio’ la procedura prevista dagli artt. 17 e 18 del ccnl 11/7/99, cioe’ di quelle norme collettive che stabilivano che ancor prima dell’avvio della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, le aziende, ovvero la Capogruppo in caso di pluralita’ di aziende facenti capo al medesimo gruppo, dovevano comunicare alle organizzazioni sindacali le motivazioni e gli obiettivi che intendevano adottare (documento 2 di parte appellata). Tale constatazione consente, tra l’altro, di per se’ stessa, di fugare qualsiasi ombra di dubbio sulla asserita inidoneita’ giuridica dell’iniziativa della Capogruppo nell’avvio della procedura di licenziamento collettivo, cosi come infondatamente prospettata dall’odierno ricorrente nel vano tentativo di svilire la legittimazione dell’ente promotore della procedura di cui trattasi, mentre, al contrario, la legittimazione derivava alla Capogruppo delle aziende bancarie direttamente dalle summenzionate norme contrattuali; inoltre, nell’ambito di tale procedura preliminare vennero effettuati, su richiesta delle organizzazioni sindacali, molteplici incontri (a tal proposito in sentenza e’ richiamato il documento n. 7 di parte appellata). Il giudice d’appello menziona, altresi’, l’intervenuta sottoscrizione da parte della Federdirigenti, della quale il B. era Vicepresidente, dell’Accordo di programma concernente anche la Biverbanca, col quale vennero individuati gli obiettivi specifici di riduzione strutturale del costo del personale e si previde che ciascuna azienda del gruppo avrebbe avviato la procedura ex L. n. 223 del 1991 anche ai fini dell’intervento del “Fondo di solidarieta’” ex D.M. n. 158 del 2000;

infine, lo stesso accordo previde che l’individuazione dei lavoratori in esubero sarebbe dovuta avvenire secondo i criteri stabiliti dall’art. 8 del citato D.M.; conseguentemente, si da atto nella sentenza che la Biverbanca avvio’ la procedura con lettera del 27/3/2003, alla quale segui’ l’esame congiunto che si concluse con l’Accordo del 10/4/2003, poi modificato parzialmente a seguito dei successivi Accordi del 29/4/03 e del 23/3/04. Quanto alla prospettata necessita’ di accertamento giudiziale della verifica della sussistenza del nesso causale tra il progettato ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di recesso e’ agevole osservare che la L. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilita’, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, per cui i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano piu’ gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo), ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilita’ al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorita’ giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attivita’ produttiva, (v.

in tal senso Cass. sez. lav. n. 21541 del 6/10/2006).

Invece, per quel che concerne la deduzione della presunta illegittimita’ della sentenza impugnata nella parte in cui e’ stato escluso che l’omessa comunicazione preventiva delle ragioni atte a far ritenere esuberante ognuna delle 104 posizioni lavorative individuate possa costituire un vizio della procedura di riduzione del personale, si osserva quanto segue: questa Corte ha gia’ avuto modo di statuire (Cass. sez. lav. n. 4653 del 26/2/2009) che “in tema di verifica del rispetto delle regole procedurali per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale, cosicche’, ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore puo’ limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con eccedenza, e cio’ tanto piu’ se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione. D’altronde, nella fattispecie in esame, non puo’ non rilevarsi l’assenza di qualsiasi elemento suscettibile di far paventare l’esistenza di un intento discriminatorio da parte della societa’ datrice di lavoro, essendo innegabile l’equita’ di un sistema di riduzione de personale incentrato sull’esigenza di una piu’ efficiente riorganizzazione dell’impresa non disgiunta da quella di addossare la ricaduta degli effetti negativi della riduzione stessa sui soggetti che, per essere prossimi a pensione, hanno la capacita’ economica di ammortizzare meglio detti effetti, ed essendo certo che la societa’ aveva prospettato che l’individuazione dei lavoratori da porre in esodo doveva avvenire in base allo strumento prioritario del ricorso al Fondo di solidarieta’ di cui al D.M. n. 158 del 2000, con specifico richiamo al contenuto dell’art. 8 di tale decreto.

Infatti, del D.M. 28 aprile 2000, n. 158, art. 8, comma 4 (pubblicato su G.U. n. 139 del 16/6/2000 e contenente il Regolamento relativo all’istituzione del Fondo di solidarieta’ per il sostegno del reddito, dell’occupazione e della riconversione e riqualificazione professionale del personale dipendente dalle imprese di credito) stabilisce espressamente che ai sensi di quanto previsto della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 5, comma 1, l’individuazione dei lavoratori in esubero, ai fini del presente regolamento, concerne, in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale, anzitutto il personale che, alla data stabilita per la risoluzione del rapporto di lavoro sia in possesso dei requisiti di legge previsti per aver diritto alla pensione di anzianita’ o vecchiaia, anche se abbia diritto al mantenimento in servizio. Il summenzionato D.M., art. 8, comma 2 prevede, altresi’, che l’individuazione degli altri lavoratori in esubero ai fini dell’accesso alla prestazione straordinaria di cui all’art. 5, comma 1, lett. b), avviene adottando in via prioritaria il criterio della maggiore prossimita’ alla maturazione del diritto a pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria di appartenenza, ovvero della maggiore eta’.

Infine, il citato D.M., art. 8, comma 3 stabilisce che per ciascuno dei casi di cui ai comma 1 e 2, ove il numero dei lavoratori in possesso dei suddetti requisiti risulti superiore al numero degli esuberi, si favorisce, in via preliminare, la volontarieta’, che e’ esercitata dagli interessati nei termini e alle condizioni aziendalmente concordate, e, ove ancora risultasse superiore il numero dei lavoratori in possesso dei requisiti di cui sopra rispetto al numero degli esuberi, si tiene conto dei carichi di famiglia.

E’, pertanto, evidente che il ricorso, in sede di accordi sindacali, al predetto criterio normativo di cui al D.M. n. 158 del 2000, art. 8 rappresentava senz’altro una garanzia di individuazione oggettiva e facilmente verificabile dei lavoratori da porre in esodo, per cui alcuna discriminazione poteva derivarne per chi, come il ricorrente, era in possesso dei requisiti prescritti per il collocamento in pensione.

6. Col sesto motivo il B. deduce la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. in relazione alla eccezione di violazione della L. n. 223 del 1991, art. 8 (art. 360 c.p.c., n. 3), nonche’ l’omessa motivazione su fatto decisivo (360 c.p.c., n. 5). In sostanza ci si duole del fatto che non fu comunicata al ricorrente l’esistenza di posizioni vacanti in organico e di conseguenza che non gli fu concessa l’opportunita’, in violazione del predetto L. n. 223 del 1991, art. 8 di esservi ricollocato.

Rileva la Corte che e’ fondata l’eccezione di inammissibilita’ del motivo sollevata dalla difesa dell’intimata, posto che la doglianza riflettente la circostanza dell’assunzione di nuovo personale dopo il licenziamento del B. non fu da questi formulata col ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Tra l’altro, che trattasi di nuovo motivo di doglianza lo si evince non solo dal fatto che di esso non e’ fatta menzione nel corpo della sentenza d’appello, ma soprattutto dalla circostanza che nel presente ricorso il B., nel riepilogare i motivi posti a base dei ricorso di primo grado, non lo cita.

7. Col settimo motivo si denunzia la violazione della L. n. 223 del 1991, art. 5 in relazione alla comunicazione di avvio della procedura di mobilita’ del 27 marzo 2003 e dei successivi accordi sindacali del 10 aprile 2003, del 29 aprile 2003 e del 23 marzo 2004 (art. 360 c.p.c., n. 3).

Il quesito che viene posto al riguardo puo’ riassumersi nei seguenti termini: premesso che la L. n. 223 del 1991, art. 5 fa riferimento al fatto che i lavoratori da collocare in mobilita’ siano individuati in base alle esigenze tecnico – produttive ed organizzative del complesso aziendale sia nella prima parte della norma che nella parte enunciativa dei criteri da seguirsi nell’ipotesi in cui manchino accordi collettivi (in tal caso dopo i criteri dei carichi di famiglia e dell’anzianita’), ne conseguirebbe che le esigenze tecnico- produttive di cui alla prima parte rileverebbero indipendentemente dal criterio di scelta adottato ai sensi della seconda parte della stessa disposizione normativa. Ne deriverebbe, quindi, secondo tale assunto, che l’individuazione del personale da collocare in mobilita’ dovrebbe avvenire tassativamente ed esclusivamente in relazione ad una effettiva riduzione o trasformazione dell’attivita’ o del lavoro (L. n. 223 del 1991, art. 24) ed in relazione alle effettive esigenze tecnico-produttive e organizzative che a cio’ conseguono, per cui quest’ultimo criterio finirebbe per concorrere con quelli dei carichi di famiglia e dell’anzianita’ solo in un momento successivo, vale a dire al momento dell’individuazione, tra il personale in esubero, dei singoli lavoratori da licenziare.

Da cio’ scaturirebbe l’illegittimita’ della decisione dei giudici di merito secondo cui il criterio di scelta da utilizzare come parametro della liceita’ dei recessi intimati e’ soltanto quello prescelto in sede collettiva e non anche quello legale delle esigenze tecnico – produttive. Inoltre, il ricorrente sostiene che va dichiarata l’illegittimita’ del recesso intimato qualora manchi fin dall’inizio, come nel caso in esame, il nesso causale tra il programma di ristrutturazione aziendale ed il profilo professionale di appartenenza del lavoratore licenziato, costituendo un tal nesso il presupposto del potere datoriale di recesso e laddove il personale da collocare in mobilita’ e quello da licenziare (nel caso il solo dott. B.) e’ stato individuato non gia’ in base alle comprovate esigenze tecnico-produttive ed organizzative, bensi’ unicamente sulla base del criterio dell’anzianita’. Il motivo e’ infondato.

Anche in tal caso giova, infatti, ribadire il concetto gia’ richiamato in precedenza per il quale la L. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilita’, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, per cui i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano piu’ gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (v. in tal senso Cass. sez. lav. n. 21541 del 6/10/2006) Non a caso, nella fattispecie, le parti sociali adottarono concordemente (v. Accordo del 10/4/03 il cui contenuto e’ richiamato dal medesimo ricorrente a pagina 9 del presente ricorso) lo strumento dell’accesso al Fondo di solidarieta’ di cui al D.M. 28 aprile 2000, n. 158 al fine di pervenire alla riduzione degli organici.

Orbene, come si e’ gia’ evidenziato in precedenza, trattasi di un criterio legittimamente adottato in quanto normativamente previsto in tema di ammortizzatori sociali (L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 3 e D.M. n. 158 del 2000, art. 8). In particolare, come si e’ visto, il Fondo di solidarieta’ contemplava espressamente i criteri di individuazione dei lavoratori in esubero, cioe’, anzitutto, quelli che alla data stabilita per la risoluzione del rapporto di lavoro erano in possesso dei requisiti di legge per aver diritto alla pensione di anzianita’ o vecchiaia, anche se avevano diritto al mantenimento in servizio, poi quelli prossimi alla maturazione del diritto a pensione e, infine, in caso di numero dei lavoratori in possesso dei predetti requisiti maggiore a quello preventivato per gli esuberi, coloro che volontariamente intendevano avvalersene.

Tra l’altro, “in materia di collocamento in mobilita’ e di licenziamenti collettivi, il criterio di scelta adottato nell’accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali per l’individuazione dei destinatari del licenziamento puo’ anche essere unico e consistere nella prossimita’ al pensionamento, purche’ esso permetta di formare una graduatoria rigida e possa essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalita’ da parte del datore di lavoro”. (Cass. sez. lav. n. 21541 del 6/10/2006).

Se ne deve, percio’, trarre la conclusione che il ricorso, in sede di accordi sindacali, al predetto criterio normativo di cui al D.M. n. 158 del 2000, art. 8 rappresentava indiscutibilmente una garanzia di individuazione oggettiva e predeterminata dei lavoratori da porre in esodo, per cui alcuna discriminazione poteva conseguirne per chi, come il ricorrente, vantava all’atto della risoluzione del rapporto i necessari requisiti prescritti per il collocamento in pensione.

8. Con l’ottavo motivo si denunzia l’omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5) in relazione alla lettera di avvio della procedura di mobilita’ del 27/3/03 ed al successivo accordo del 10/3/04 ed a quanto previsto dalla L. n. 223 del 1991, art. 5 in quanto la sentenza avrebbe fatto leva sul tenore di tale comunicazione che richiamava astrattamente le esigenze tecnico-produttive ed organizzative, quando di fatto, invece, come rilevato nella stessa decisione impugnata, il personale in esubero era stato individuato esclusivamente sulla base del criterio dell’anzianita’, oltretutto, secondo la tesi dell’odierno ricorrente, nemmeno concordato, bensi’ imposto da Biverbanca, per cui non poteva non evidenziarsi una discrasia tra il criterio apoditticamente affermato nella lettera di avvio della procedura e quello realmente utilizzato. Il motivo e’ inammissibile per due ragioni: anzitutto, la denunziata discrasia tra il criterio indicato nella lettera di avvio della procedura e quello effettivamente seguito per effetto degli accordi sindacali non risulta tra i motivi che furono posti a base del ricorso di primo grado, per cui, come giustamente eccepito dall’intimata, trattasi di motivo nuovo e come tale inammissibile.

Invero, basta leggere la parte del presente ricorso nella quale e’ contenuto il riepilogo dei motivi di doglianza del ricorso di primo grado per convincersi del fatto che il motivo in questione non risulta tra quelli che furono sottoposti all’esame del primo giudice.

Ne consegue che non puo’ essere lamentata l’omessa motivazione, da parte del giudice d’appello, su di un fatto che non fu nemmeno specificatamente dedotto in prime cure.

Si e’, infatti, precisato (Cass. sez. lav. n. 16033 del 17/8/2004) che “non e’ configurabile il vizio di omessa pronuncia in relazione ad una domanda che il giudice di appello non sia tenuto a prendere in esame in quanto proposta in violazione del divieto di nuove domande, sancito dall’art. 345 c.p.c., comma 1, e dell’art. 437 c.p.c., comma 2”.

Inoltre, il ricorrente non specifica, in spregio al principio dell’autosufficienza, in quale parte degli accordi che seguirono alla informativa era contenuta la lamentata discrasia rispetto all’oggetto della comunicazione iniziale, per cui, non essendo consentito effettuare un tale tipo di verifica, nemmeno e’ dato sapere se realmente vi fu una discrepanza tra il contenuto degli accordi collettivi successivi e la lettera di avvio della procedura, dovendosene, percio’, trarre la conclusione che si e’ solo in presenza di una generica doglianza assolutamente apodittica.

9. Col nono motivo si deduce violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione alle comunicazioni di Biverbanca datate 29 settembre e 1 ottobre 2004 L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, (art. 360 c.p.c., n. 3). Attraverso tale motivo si evidenzia, in particolare, che l’onere di provare la correttezza e la completezza della comunicazione della procedura di licenziamento collettivo di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 2, 3 e 9 requisiti, questi, di cui il ricorrente lamenta l’insussistenza, ricadeva sulla parte datoriale e che, invece, nella sentenza impugnata era stata rilevata l’inammissibilita’ delle doglianze attoree riflettenti l’incompletezza della comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, per non essere state le stesse specificamente allegate nel ricorso di primo grado. Il motivo e’ infondato.

Invero, va subito rilevato che il ricorrente prospetta una questione dell’onere della prova in maniera avulsa dal contesto della decisione che si e’ basata, invece, sul presupposto, trascurato dalla difesa del B., della novita’ e della conseguente inammissibilita’ delle deduzioni dei motivi di illegittimita’ del licenziamento che secondo la tesi dell’appellante erano riconducibili alla presunta violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9.

Al riguardo il giudice d’appello ha chiaramente evidenziato che le circostanze per le quali la Biverbanca non avrebbe inviato agli organismi locali delle organizzazioni sindacali territorialmente competenti la comunicazione di cui al comma 9 e che la stessa comunicazione sarebbe stata inviata solo in un secondo momento all’Ufficio del Lavoro, ma non contestualmente al suo licenziamento, non erano state mai dedotte in primo grado, per cui erano inammissibili ai sensi dell’art. 437 c.p.c., comma 2; inoltre, con riferimento alla doglianza per la quale la comunicazione finale non conteneva l’indicazione delle puntuali modalita’ di applicazione dei criteri di scelta, il medesimo giudicante ha spiegato che non solo – in nessuna parte del ricorso di primo grado venivano richiamate le previsioni di cui al citato L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, ma che neppure era stato dedotto come motivo di illegittimita’ del licenziamento il fatto che la comunicazione del 29/9/04 fosse priva delle indicazioni inerenti le modalita’ di applicazione dei criteri di scelta per l’esodo, per cui anche sotto tale aspetto l’appello si rivelava inammissibile.

Quindi, come e’ dato vedere, il problema non e’ quello dell’incidenza dell’onere probatorio in corso di causa, bensi’ quello della esatta delimitazione del tema decisionale ancorato allo schema processuale che il ricorso in materia di lavoro deve seguire ai sensi dell’art. 414 c.p.c., oltre quello della verifica del rispetto del principio del divieto di introduzione di motivi nuovi del contendere nella conseguente fase d’appello.

In ogni caso, per quel che concerne piu’ in generale l’esigenza della puntuale indicazione degli eventuali aspetti invalidanti dell’iter procedimentale dei licenziamenti collettivi, la Corte ha gia’ avuto modo di statuire (Cass. Sez. Lav. n. 13727 del 4/10/2000) che “il lavoratore che voglia ottenere la dichiarazione di inefficacia o l’annullamento del licenziamento intimatogli in base alla L. n. 223 del 1991, sull’assunto del mancato rispetto dell’”iter” procedurale previsto dalla citata legge per la messa in mobilita’ o per la riduzione del personale, e’ tenuto – a fronte dei numerosi adempimenti imposti dalla menzionata legge – ad indicare nell’atto introduttivo del giudizio le specifiche omissioni e irregolarita’ addebitate al datore su cui fonda il “petitum”. Ne consegue che egli non puo’ far valere nel corso del giudizio omissioni o irregolarita’ diverse o ulteriori rispetto a quelle originariamente denunziate perche’ una siffatta condotta processuale si traduce in una “mutatio libelli” non consentita ai sensi dell’art. 420 cod. proc. civ. (in senso conforme v. Cass. sez. lav. n. 8423 del 20/6/2001 e n. 11651 del 29/7/2003).

10. Col decimo motivo si denunzia la violazione L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, in relazione alle comunicazioni di Biverbanca del 29 settembre e del 1 ottobre 2004 (art. 360 c.p.c., n. 3).

In pratica il ricorrente evidenzia che la mera indicazione, nella prevista comunicazione agli uffici del lavoro ed alle organizzazioni sindacali, dei nominativi dei lavoratori licenziati, dei loro dati anagrafici, dell’anzianita’ aziendale e della precisazione del criterio di scelta applicato (nella fattispecie l’anzianita’ di servizio) non puo’ considerarsi sufficiente a soddisfare l’onere della puntuale indicazione delle modalita’ con cui sono stati applicati i criteri di scelta, poiche’ la omessa valutazione comparativa dei dipendenti, fra i quali la scelta e’ stata operata, rende la comunicazione inidonea a consentire la verifica della effettiva applicazione di criteri stessi ed integra, percio’, violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9. Inoltre, la comunicazione stessa deve essere contestuale all’esecuzione degli adempimenti datoriali, mentre nella fattispecie essa era stata inoltrata a distanza di oltre quindici giorni dalla comunicazione del licenziamento. Anche

PQM

per tale motivo

hanno condotto al rigetto del precedente motivo, vale a dire la rilevata inammissibilita’, da parte del giudice d’appello, dei motivi di doglianza tra i quali era compreso anche quello oggetto della presente censura.

Si e’, infatti, gia’ evidenziato che il giudice d’appello aveva espressamente rilevato che le circostanze per le quali la Biverbanca non avrebbe inviato agli organismi locali delle organizzazioni sindacali territorialmente competenti la comunicazione di cui al comma 9 e che la stessa comunicazione sarebbe stata inviata solo in un secondo momento all’Ufficio del Lavoro, ma non contestualmente al suo licenziamento, non erano state mai dedotte in primo grado;

egualmente, con riferimento alla doglianza per la quale la comunicazione finale non conteneva l’indicazione delle puntuali modalita’ di applicazione dei criteri di scelta, il medesimo giudice d’appello aveva spiegato che non solo in nessuna parte del ricorso di primo grado erano state richiamate le previsioni di cui al citato L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, ma che neppure era stato dedotto come motivo di illegittimita’ del licenziamento il fatto che la comunicazione del 29/9/04 fosse priva delle indicazioni inerenti le modalita’ di applicazione dei criteri di scelta per l’esodo, per cui anche sotto tale aspetto l’appello era stato dichiarato inammissibile.

11. Con l’undicesimo motivo si deduce la violazione e la falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 2 e 3, in relazione alla comunicazione di Biverbanca del 27 marzo 2003 (art. 360 c.p.c., n. 3), nonche’ l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 3).

Secondo il ricorrente la sentenza sarebbe da considerare illegittima nella parte in cui ritiene che non sia richiesta la necessita’ di specificazione, in occasione della comunicazione prevista per l’avvio della procedura di licenziamento collettivo, delle ragioni che rendono esuberante ogni singola posizione lavorativa. Il motivo e’ infondato.

Invero, e’ condivisibile il ragionamento del giudice d’appello per il quale la norma in esame non contempla la necessita’ di specificazione delle ragioni atte a rendere esuberante ogni singola posizione lavorativa, tanto piu’ che la finalita’ della procedura oggetto di causa era rappresentata nella fattispecie proprio dalla necessita’ di carattere generale di un ridimensionamento dell’organico dell’intero complesso aziendale e che lo stesso ridimensionamento finiva per interessare dipendenti con mansioni obiettivamente fungibili tra di loro, senza trascurarsi la non indifferente circostanza che sin dall’Accordo di programma del 5/12/2002 lo strumento prioritario individuato dalle parti per pervenire alla riduzione degli esuberi era stato quello specifico del ricorso al Fondo di Solidarieta’ di cui al citato D.M. n. 158 del 2000, a sua volta contenente i criteri oggettivi e prefissati per il perseguimento di un tale risultato.

E’, infatti, il caso di ricordare che questa Corte (Cass. sez. lav.

n. 267 del 9/1/2009) ha gia’ avuto modo di affermare che “in tema di verifica del rispetto delle regole procedurali dettate per i licenziamenti collettivi per riduzione dei personale dalla L. n. 223 del 1991, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla L. cit., art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi di riduzione di personale, cosicche’, nel caso di progetto imprenditoriale diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore puo’ limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti suddiviso tra i diversi profili professionali completati dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, tanto piu’ ove proponga ai sindacati, nella stessa comunicazione e con riferimento alle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, la stipulazione di un accordo, derogatorio dei criteri legali di scelta dei lavoratori da licenziare, che fondi la selezione sul possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione. (Nella specie la S.C., nel cassare la sentenza di merito, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento originato da una comunicazione incompleta perche’ priva di indicazioni in ordine alla collocazione aziendale ed ai profili professionali dei lavoratori interessati, ha asserito che la decisione cassata, avente ad oggetto il ridimensionamento dell’impresa con esclusivo riguardo alla consistenza complessiva del personale al fine di ridurre i costi di gestione, si traduceva in un indebito sindacato sulla scelta imprenditoriale di Poste Italiane s.p.a. e, pertanto, violava la L. n. 223 del 1991, artt. 1 e 4) (in senso sostanzialmente conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 4653 del 26/2/2009 e Cass. sez. lav. n. 84 del 7/1/2009).

12. Col dodicesimo motivo il ricorrente contesta la violazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4, 5 e 24 e del dovere di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. nell’esecuzione della procedura di licenziamento collettivo, in relazione alla comunicazione d’avvio della procedura del 27 marzo 2003 ed ai successivi accordi sindacali del 10/4/03, del 29/4/03 e del 23/3/04 (art. 360 c.p.c., n. 3), nonche’ l’omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare il ricorrente si duole del fatto che nella sentenza non si era tenuto conto della circostanza che non erano state conteggiate le cessazioni dei rapporti di lavoro effettivamente intervenute al di fuori della procedura, tanto che per effetto di cio’ si era concretizzato un numero di cessazioni superiore a quello degli esuberi originariamente preventivati (101, anziche’ 96 esuberi) e che egli era stato licenziato dopo che era stato gia’ superato il numero preventivato degli esodi, senza che neppure alla data del 1 aprile 2004, prevista dall’ultimo accordo del 23/3/04, egli fosse in possesso dei requisiti per accedere alla pensione dell’AGO (tale diritto veniva a maturazione in suo favore solo il 18/5/04). Inoltre, il ricorrente si duole del fatto che la sentenza aveva omesso di considerare che gli esuberi individuati con decorrenza dalla data successiva del 1 ottobre 2004 erano da ritenere illegittimi in quanto essi non rappresentavano altro che il risultato dell’illegittima operazione di limitazione degli esodi volontari originariamente previsti.

Il motivo e’ infondato, posto che lo stesso si basa su di una prospettazione dei fatti oggetto della procedura del licenziamento collettivo che prescinde del tutto dalla disamina degli accertamenti di fatto compiuti dalla Corte territoriale sul contenuto e sugli esiti degli accordi collettivi che si susseguirono nel tempo, finendo, in tal modo, per non investirne la reale portata posta a fondamento della decisione. In effetti, la Corte torinese richiama in sentenza tutti i vari passaggi degli accordi collettivi, partendo dalla previsione originaria dei 104 esuberi al 31/12/02, contenuta nella lettera del 27/3/03, passando, poi, all’accordo del 10/3/04 che prese atto della intervenuta cessazione volontaria di otto rapporti lavorativi e della conseguente riduzione a 96 del numero delle unita’ da porre in esodo alle varie date del 177/03, del 1710/03, del 174/03, del 1710/04 e del 174/05 e curando, infine, la rassegna minuziosa del contenuto dei successivi accordi che tennero conto, volta per volta, in occasione delle varie scadenze scaglionate nel tempo, del costante raffronto tra il numero delle domande di adesione volontaria e quello preventivato, oltre che degli opportuni ridimensionamenti in conseguenza delle maggiori uscite verificatesi, senza che in queste potessero ritenersi incluse, secondo il medesimo giudicante, quelle realizzatesi al di fuori della procedura di mobilita’, stante il ricorso al criterio oggettivo di cui al D.M. n. 158 del 2000, art. 8 intimamente connesso alla stessa procedura.

Inoltre, il giudice d’appello richiama giustamente l’attenzione sul ricorso ai criteri oggettivi di quest’ultima disposizione normativa per rilevare l’infondatezza della doglianza ancorata ad un presunto blocco illegittimo degli esodi volontari: invero, il criterio della volontarieta’ era stato espressamente previsto per l’ipotesi residuale in cui il numero dei dipendenti in possesso dei requisiti pensionistici di cui al citato D.M. n. 158 del 2000, art. 8, primi due commi si fosse rivelato superiore al numero degli esuberi, circostanza, questa, non realizzatasi nella fattispecie, atteso che tutti gli accordi succedutisi nel tempo avevano dato chiaramente atto del fatto che il numero dei dipendenti in possesso dei requisiti pensionistici era inferiore al numero degli esuberi previsti, sicche’ non ricorrevano i presupposti per ricorrere al terzo criterio sussidiario della volontarieta’ e tutti coloro che alle date preventivate avevano raggiunto il requisito per accedere alla pensione avrebbero dovuto essere licenziati. Conseguentemente, il B., il quale aveva maturato il requisito in esame al 18/5/04 in coincidenza col compimento del suo 57 anno di eta’, rientrava fra coloro che, avendo raggiunto i requisiti per il diritto a pensione al 30/9/04, venne licenziato con effetto dal giorno successivo in applicazione del criterio prioritario di scelta previsto dal citato D.M. n. 158 del 2000, art. 8, comma 1.

13. Con l’ultimo motivo si denunzia la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 15, degli artt. 1175 e 1375 c.c., nonche’ del D.M. n. 158 del 2000 (art. 360 c.p.c., n. 3), oltre che l’omessa e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare viene denunziata l’illegittimita’ della sentenza per aver ritenuto che il D.M. n. 158 del 2000 potesse derogare la L. n. 223 del 1991, art. 4 laddove quest’ultima norma impone la ricerca di misure alternative ai licenziamenti, per cui si sostiene che il ricorso al solo criterio del raggiungimento dei requisiti per il diritto a pensione appariva illegittimo. Il motivo e’ infondato.

Invero, per quel che concerne l’adozione del criterio specifico della prossimita’ al raggiungimento della pensione dei dipendenti da collocare in mobilita’, si e’ gia’ avuto modo di statuire (Cass. sez. lav. n. 9866 del 24/4/2007) che “in materia di licenziamenti collettivi – come sottolineato nella sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 1994 – la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in accordo sindacale che ben puo’ essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza la necessita’ dell’approvazione dell’unanimita’), poiche’ adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dalla L. n. 300 del 1970, art. 15 ma anche il principio di razionalita’, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell’obiettivita’ e della generalita’ oltre a dover essere coerenti con il fine dell’istituto della mobilita’ dei lavoratori. Deve, conseguentemente, considerarsi razionalmente adeguato il criterio della prossimita’ al trattamento pensionistico con fruizione di “mobilita’ lunga”, oltretutto menzionato come esempio nella suddetta sentenza costituzionale, stante la giustificazione costituita dal minore impatto sociale dell’operazione e il potere dell’accordo di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, di sostituire i criteri legali e di adottare anche un unico criterio di scelta, a condizione che il criterio adottato escluda qualsiasi discrezionalita’ del datore di lavoro.” (in senso conf. Cass. sez. lav. n. 13691 del 7/12/99).

Ne’ si e’ esclusa la validita’ del criterio unico, quale, appunto, quello della prossimita’ del personale alla pensione, come affermato da questa Corte con la sentenza della sezione lavoro n. 21541 del 6/10/2006, gia’ citata in precedenza (in senso conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 20455 del 21/9/2006).

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo in favore della parte intimata.

P.Q.M. LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 5500,00 per onorario, oltre Euro 94,00 per esborsi, nonche’ spese generali, IVA e CPA ai sensi di legge.

Cosi’ deciso in Roma, il 11 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2011

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