Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8052 del 23/04/2020

Cassazione civile sez. VI, 23/04/2020, (ud. 23/01/2020, dep. 23/04/2020), n.8052

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22073-2017 proposto da:

M.M.R., domiciliata in ROMA presso la Cancelleria

della Corte di Cassazione, e rappresentata e difesa dall’avvocato

ROSARIA CAVALLARO giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Z.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ORTIGARA 3

PAL. B, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CRISCI, che lo

rappresenta e difende, unitamente all’avvocato ELENA BENEDETTI,

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 338/2017 dell’a CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 06/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/01/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dal controricorrente.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

M.M.R. conveniva in giudizio Z.B. per sentirlo condannare al risarcimento dei danni conseguenti all’attività professionale (di architetto) da questi svolta.

L’attrice affermava di aver conferito al Z. l’incarico di progettista e direttore dei lavori di un complesso edilizio (di cui era comproprietaria con le sorelle), oggetto di convenzione di lottizzazione, sito nel (OMISSIS); di non essere stata da lui informata in merito alla presentazione della DIA (la quale recava una sottoscrizione apocrifa); che il convenuto aveva omesso di richiedere l’autorizzazione paesistica, dando inizio all’attività urbanistica in assenza delle prescrizioni di legge. Affermava inoltre che in conseguenza di ciò, aveva subito un procedimento penale per reato ambientale, da cui scaturivano danni quantificati in Euro 250.000,00.

Si costituiva il convenuto contestando le affermazioni attoree, attesa la conoscenza da parte della M. sia dell’esistenza del vincolo paesaggistico, sia dell’inizio dei lavori antecedentemente al rilascio della relativa autorizzazione paesistica.

Conclusasi la fase istruttoria con l’acquisizione di prove documentali, il Tribunale di Bergamo si pronunciava con sentenza n. 891/2014, con cui rigettava la domanda della M., condannandola al pagamento delle spese.

Quest’ultima proponeva appello alla Corte di Brescia, reiterando le domande proposte in primo grado, relative alla condanna dell’appellato al risarcimento del danno ex art. 2236 c.c., e per responsabilità extracontrattuale, riproponendo le richieste istruttorie già avanzate in primo grado.

Z.B. si costituiva concludendo per il rigetto dell’appello, poichè infondato in fatto e in diritto, e per la conferma della sentenza di primo grado.

La Corte d’appello di Brescia con sentenza n. 338/2017 rigettava l’appello e condannava parte appellante al pagamento delle spese processuali.

In parte motiva i giudici di appello spiegavano che il combinato disposto dell’art. 2909 c.c., e art. 654 c.p.p., ammetteva la valenza del giudicato della sentenza penale all’interno del giudizio civile quando in quest’ultimo, il riconoscimento del diritto controverso dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali oggetto del giudizio penale, purchè tali fatti siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale.

E, richiamate le Sezioni Unite n. 1768/2011 – secondo cui in tema di giudicato, la disposizione di cui all’art. 652 c.p.p., cosi come quelle degli artt. 651, 653 e 654 cit. codice, costituisce un’eccezione al principio dell’autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile e non è, pertanto, applicabile in via analogica oltre i casi espressamente previsti (ossia ai soli casi di condanna irrevocabile o assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento) – affermavano che anche nel caso di specie si poteva legittimamente invocare nel processo civile il giudicato penale di condanna dell’appellante con il relativo accertamento dei fatti, che ne costituivano il presupposto (Cass. n. 36831/2009).

Da tale sentenza emergeva in primo luogo che l’imputata, odierna ricorrente, era “tanto consapevole di operare in zona vincolata che ciò ha affermato proprio nell’atto di DIA da lei sottoscritto” e che non era ragione giustificatrice dell’eventuale buona fede della stessa l’aver inviato una diffida all’impresa esecutrice di lavori – la Ditta B. – dal momento che quest’ultima si era sempre limitata a compiere ciò che dalla M. veniva commissionato.

Ciò smentiva, conformemente a quanto ritenuto dal Tribunale, l’affermazione della M., in sede di citazione, di essere “venuta a conoscenza solo nel settembre 2004” del fatto che sui luoghi in questione si perpetrava un abuso edilizio, dal momento che il documento, la cui sottoscrizione veniva accertata in sede penale, era datato 10 maggio 2004, e nello stesso si evinceva che l’appellante aveva affidato proprio quell’incarico che era stato eseguito dall’impresa appaltatrice. In base a ciò, non era necessario l’esperimento di ulteriore attività istruttoria, e, quindi, si confermava la sentenza gravata, dal momento che non poteva condividersi il fatto che l’inizio dell’attività urbanisticamente vietata fosse attribuibile al solo professionista e non anche direttamente, ed autonomamente, all’appellante, come ravvisato dalla sentenza penale.

Per la cassazione della sentenza d’appello, M.M.R. si affida a due motivi di ricorso cui l’intimato resiste con controricorso.

Con il primo motivo lamenta “in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5: omesso esame circa i fatti decisivi per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti”.

Entrambi i giudici di merito sarebbero incorsi nella grave omissione dei seguenti fatti: l’oggetto dell’incarico professionale conferito dalla ricorrente all’arch. Z.; le prestazioni da questo eseguite e l’incidenza causale di eventuali inadempimenti sui fatti lamentati dalla ricorrente; il ruolo concretamente rivestito dal professionista nell’azione di disboscamento e riporto terra; l’entità del danno cagionato alla ricorrente, sia a titolo contrattuale che aquiliano.

Nessuna di tali circostanze sarebbe stata analizzata dal giudice penale, la cui sentenza ha in questa causa valore di giudicato.

Il secondo motivo di ricorso contesta “in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3): violazione e falsa applicazione di legge, e nella specie, del combinato disposto dell’art. 654 c.p.p., e art. 2909 c.c.”

La sentenza penale di condanna non ha ravvisato alcuna interruzione del nesso di causalità tra l’operato del professionista ed i fatti contestati. Il giudice di merito non avrebbe potuto ritenere assente la responsabilità del professionista solo fondandosi sulle affermazioni del giudice penale.

Dunque nell’attribuire rilievo al giudicato penale nel giudizio civile, la Corte territoriale ha violato il combinato disposto dell’art. 654 c.p.p., e art. 2909 c.c., laddove ha escluso apoditticamente la necessità di un autonomo vaglio critico delle risultanze probatorie penali e di un’indagine completa del fatto – da estendersi agli aspetti non esaminati dal giudice penale e si è limitata a riportare il tenore letterale della sentenza penale.

Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

Ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., la previsione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, di cui al comma 5, che esclude che possa essere impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 5, la sentenza di appello “che conferma la decisione di primo grado”, si applica, agli effetti del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv. L. n. 134 del 2012, a tutti i giudizi di appello introdotti successivamente all’11 settembre 2012.

Questa Corte ha, peraltro, puntualizzato che nell’ipotesi di cd. “doppia conforme” il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774/2016; Cass. n. 5528/2014).

Il giudizio di appello nel caso in esame risulta essere stato proposto nel 2014 e, stante anche la mancata indicazione nel motivo di elementi tali da poter ravvisare una diversità argomentativa, quanto alle ragioni di fatto, tra le due sentenze di merito, il motivo incorre nella evidenziata inammissibilità di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c..

Il secondo motivo di ricorso dev’essere rigettato.

La controversia nasce da una domanda di responsabilità del professionista, proposta nonostante l’esistenza di un giudicato penale, nel quale si è accertata la consapevolezza dell’abusivismo edilizio da parte dell’odierna ricorrente, mediante la riconosciuta sottoscrizione della DIA e l’incarico alla ditta.

Gli accertamenti sulla responsabilità dell’odierna ricorrente svolti in sede penale, che a seguito della sentenza di Cassazione sono divenuti definitivi, sono stati ritenuti sufficienti dai giudici di merito per giudicare infondata la domanda della M..

Ciò acquista rilevanza determinante, alla luce di quanto già affermato da questa Corte, secondo cui il giudicato penale in ordine all’accertamento dei fatti materiali, ove si tratti di sentenza irrevocabile di condanna, è vincolante nel giudizio civile (Cass. n. 21299/2014); in particolare, tale efficacia vincolante è invocabile, ex art. 654 c.p.p., tra coloro che parteciparono al processo penale, purchè la soluzione del primo dipenda dagli stessi fatti materiali del secondo e purchè la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa (Cass. n. 16080/2016).

I giudici di merito, dovendo necessariamente tenere conto delle affermazioni contenute nella sentenza definitiva, ossia Cass. pen. 36831/2009, non hanno ritenuto di dover integrare l’istruttoria, in quanto ai fini dell’accertamento della responsabilità del professionista – il quale peraltro dalla stessa sentenza risulta essere unicamente “progettista” e non “direttore dei lavori” – hanno considerato quali elementi determinanti, la sottoscrizione della DIA da parte della odierna ricorrente e l’affidamento dei lavori alla ditta.

Tali elementi, sono valsi a escludere che la stessa fosse effettivamente rimasta all’oscuro dell’operato del professionista, e che al contrario fosse perfettamente consapevole e determinata al compimento delle opere ritenute abusive, non rilevando, in quest’ottica, l’invio di una raccomandata di diffida dalla M. alla ditta B.. Come ha affermato la Cassazione penale, “l’invio della Rr costituisce condotta di dubbia genuinità e si profila più che altro come gesto strumentale e comunque ampiamente tardivo rispetto alle gravi condotte già poste in essere fino a quel momento non certo inconsapevolmente”.

Il ricorso dev’essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 8.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato per il ricorso a norma del cit. art. 13, art. 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2020

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