Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8048 del 23/04/2020

Cassazione civile sez. VI, 23/04/2020, (ud. 23/01/2020, dep. 23/04/2020), n.8048

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18388-2017 proposto da:

N.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO

CESARE 95, presso lo studio dell’avvocato ANDREA CUTELLE’, che lo

rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

A.A., B.V., R.L., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA F. CORRIDONI 23, presso lo studio

dell’avvocato ENZO ANTONIO ANTONUCCI, che li rappresenta e difende

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2517/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 14/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/01/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dal ricorrente.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

A.A., B.V. e M.P. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma N.G. per ottenere, in via preliminare, la regolarizzazione di tutte le formalità necessarie al trasferimento dell’immobile, oggetto di precedente preliminare tra le parti, con il conseguente trasferimento del bene ai sensi dell’art. 2932 c.c., e con la riduzione del prezzo ad Euro 300.000,00, o nella diversa misura accertata in giudizio; in via subordinata, nel caso di omessa regolarizzazione, chiedevano sempre disporsi il trasferimento del bene con riduzione del prezzo fino a Euro 100.000,00, o alla diversa misura accertata in giudizio. In ogni caso chiedevano anche la condanna al risarcimento dei danni patiti.

A seguito della morte di M.P., si costituiva in giudizio R.L., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia M.L., quali eredi del defunto.

Si costituiva N.G. che chiedeva il rigetto delle domande attoree ed, in via riconvenzionale, instava per il trasferimento coattivo dell’immobile, secondo il prezzo pattuito nel preliminare maggiorato di interessi e rivalutazione, con la condanna degli attori altresì al risarcimento dei danni.

Deduceva la perfetta conoscenza da parte degli attori della situazione urbanistica dell’immobile già all’epoca del preliminare, nel quale avevano concordato di addivenire alla stipula del definitivo una volta ottenuto il dissequestro, ed aggiungeva che il mancato accatastamento non rappresentava circostanza ostativa alla commerciabilità del bene.

In sede di precisazione delle conclusioni, gli attori chiedevano in via principale l’espletamento di una perizia per individuare e porre in essere le attività necessarie per rendere commerciabile il bene e, in via subordinata, in caso di rigetto delle domande proposte ai sensi dell’art. 2932 c.c., dichiarare risolto il preliminare per inadempimento del convenuto con la condanna alla restituzione del doppio della caparra, nonchè al risarcimento di ulteriori danni; il convenuto chiedeva a sua volta, in via subordinata, la risoluzione del contratto per inadempimento degli attori con il diritto a ritenere la caparra, nonchè al risarcimento dei danni.

All’esito del primo grado, il Tribunale di Roma, con sentenza n. 17610/2009, considerato che le parti avevano inizialmente domandato l’adempimento del contratto – pretese rigettate giacchè aventi a oggetto un facere infungibile – riteneva le stesse legittimate ad avanzare domanda di risoluzione, in deroga al divieto di mutatio libelli – consentita dall’art. 1453 c.c., che ammette la sostituzione della domanda di adempimento con quella di risoluzione in qualsiasi fase e grado – e, sulla base di ciò, estendeva tale possibilità anche alla domanda di recesso ex art. 1385 c.c.

Affermava inoltre che le richieste risarcitorie delle parti in causa risultavano entrambe generiche, ragion per cui perveniva a qualificarle quali domande di accertamento della legittimità del recesso; dichiarava, pertanto, illegittimo il recesso del N.G., e legittimo quello degli attori, a causa della mancata prova della commerciabilità del bene, e quindi riconosceva agli attori il diritto alla restituzione del doppio della caparra, pari a Euro 300.000,00, oltre interessi legali e spese, compensando le spese di lite.

N.G. appellava la predetta sentenza, mentre gli attori si costituivano per chiedere il rigetto del gravame.

Con sentenza n. 2517/2017 la Corte d’appello di Roma dichiarava infondato l’appello, e confermava la decisione di prime cure.

Dopo avere richiamato il contenuto del preliminare (in particolare gli artt. 5 e 8) e le risultanze della perizia tecnica, evidenziava come l’appellante, non avendo ottemperato a determinati oneri formali necessari per la regolarizzazione degli immobili compromessi in vendita, aveva mantenuto gli stessi in un sostanziale stato di incommerciabilità, versando quindi in una situazione di inadempimento, non riscontrabile, viceversa, per gli appellati.

Per l’effetto, riteneva legittima la condanna del N.G. alla restituzione del doppio della caparra.

Per la cassazione della sentenza di appello ricorre N.G. sulla base di un unico motivo di ricorso con cui lamenta la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione agli artt. 1385 e 1453 c.c. e 112 c.p.c., atteso che, il Collegio non ha considerato che la richiesta di risoluzione e di un risarcimento pari al doppio della caparra (Euro 300.000,00) è stata formulata dagli appellati per la prima volta in sede di comparsa conclusionale, pertanto, una volta che si era già cristallizzato il thema decidendum”.

Secondo parte ricorrente la domanda di risoluzione di cui all’art. 1453 c.c. non ammetterebbe una nuova richiesta di risarcimento, nè è suscettibile di conversione, ex officio da parte Tribunale, in domanda di recesso, con conseguente condanna alla restituzione del doppio della caparra.

La quantificazione del risarcimento operata dai giudici di merito in termini di ritenzione della caparra costituirebbe inammissibile modificazione del thema decidendum, posto che, essendo stata proposta la richiesta fondata sul dettato dell’art. 1385 c.c. per la prima volta in sede di comparsa conclusionale, l’oggetto del giudizio risultava ormai fissato, ed era insuscettibile di successive e tardive modifiche. Inoltre le due domande sarebbero incompatibili dal punto di vista funzionale e strutturale; in deroga alla previsione di cui all’art. 1385 c.c., giudici di merito hanno così consentito agli attori di chiedere un risarcimento senza offrire prove e sotto quest’aspetto la decisione risulterebbe immotivata ed esorbitante rispetto alle richieste di parte, in violazione dell’art. 112 c.p.c.

Il giudici di merito avrebbero invece dovuto limitarsi ad accertare la risoluzione per inadempimento, considerando peraltro la mancata prova offerta dagli attori del presunto danno patito.

Hanno resistito con controricorso R.L., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minore M.L., A.A. e B.V..

Il ricorso è infondato.

Recentemente questa Corte, sulla base di un principio che qui è opportuno richiamare, ha affermato che, nell’ipotesi di versamento di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, la parte non inadempiente, che abbia agito per l’esecuzione del contratto, può, in sostituzione dell’originaria pretesa, legittimamente chiedere, nel corso del giudizio, il recesso dal contratto a norma dell’art. 1385 c.c., comma 2, senza incorrere nelle preclusioni derivanti dalla proposizione dei “nova”, poichè tale modificazione dell’originaria istanza costituisce legittimo esercizio di un perdurante diritto di recesso rispetto alla domanda di adempimento (Cass. n. 882/2018), suscettibile di essere azionato in ogni stato e grado del processo, laddove non muti l’identità dei fatti posti a fondamento della domanda (conf. Cass. n. 23417/2019).

Il principio affermato dalla Corte in tale occasione, ed al quale il Collegio intende assicurare continuità, è estensibile al caso di specie, in cui gli attori, che avevano originariamente agito per ottenere l’adempimento, hanno preferito, in ragione del peculiare ius variandi attribuito dalla legge, modificare tale domanda nella diversa pretesa, volta a ottenere il doppio della caparra versata. Il carattere alternativo del recesso ex art. 1385 c.c. rispetto all’ordinaria azione di risoluzione permette di estendere anche alla fattispecie in esame lo ius variandi, sebbene in origine fosse stato richiesto l’adempimento.

In questo senso non può ravvisarsi alcun contrasto con quanto invece precisato dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 553/2009), nel precedente più volte richiamato nei vari gradi di giudizio per contestare la legittimità delle pretese attoree. In tale sentenza, infatti, si è reputata preclusa la possibilità di avvalersi del recesso, una volta domandata la risoluzione e chiesto il risarcimento dei danni, ma non anche nella diversa ipotesi in cui inizialmente fosse stato richiesto l’adempimento del contratto.

La pronuncia richiamata ha anche stabilito che la legittima proponibilità della domanda di ritenzione della caparra, nell’incipit del processo, prescinde dal “nomen iuris” utilizzato dalla parte nell’introdurre l’azione “caducatoria” degli effetti del contratto: se quest’azione dovesse essere definita “di risoluzione contrattuale” in sede di domanda introduttiva, sarà compito del giudice, nell’esercizio dei suoi poteri officiosi di interpretazione e qualificazione in iure della domanda stessa, convertirla formalmente in azione di recesso, mentre solo il diverso caso di proposizione di domanda di risoluzione proposta in citazione, senza l’ulteriore corredo di qualsivoglia domanda “risarcitoria”, impedirà di essere legittimamente integrata, nell’ulteriore sviluppo del processo, con domande “complementari”, nè di risarcimento vero e proprio nè di ritenzione della caparra, entrambe da ritenersi inammissibili perchè nuove.

Seguendo tale principio, ed avuto riguardo allo sviluppo delle vicende processuali nella vicenda in esame, deve considerarsi incensurabile la decisione dei giudici di merito, i quali, nell’esercizio dei loro poteri, hanno dichiarato generiche le richieste risarcitorie delle parti in causa nonchè aggiuntive “al pagamento della caparra”, e ritenuto di doverle qualificare quali domande di accertamento della legittimità del recesso, proprio sulla base dei poteri officiosi di interpretazione e qualificazione richiamati dalle Sezioni Unite.

Nè è condivisibile invocare la circostanza che nell’atto di citazione fosse stato in ogni caso richiesto il risarcimento del danno, posto che tale richiesta risultava accessoria rispetto a domande in ogni caso finalizzate a dare esecuzione, in tutto (in via principale sub b)) o in parte (in via subordinata sub c)), agli obblighi scaturenti dal preliminare, non essendo stata avanzata alcuna domanda di risoluzione, cui la domanda risarcitoria fosse complementare.

Risulta quindi non condivisibile l’assuntò del ricorrente secondo cui non vi sarebbe possibilità di assimilare la presente vicenda a quelle invece oggetto dei precedenti sopra richiamati, il che esclude altresì l’opportunità di una rimessione della causa alle Sezioni Unite, come invece sollecitato dalla difesa dello stesso ricorrente.

Non inficia, inoltre, l’esito decisionale l’asserita tardività della richiesta di recesso, anche laddove si reputi effettivamente avanzata per la prima volta in sede di comparsa conclusionale in primo grado (affermazione della cui esattezza è dato dubitare sia alla luce del contenuto della sentenza impugnata, che afferma che la richiesta de qua era stata avanzata in sede di precisazione delle conclusioni, sia per quanto sostenuto anche negli scritti difensivi in grado di appello di parte ricorrente) dal momento che, quand’anche dovesse essere ritenuta tardiva con riferimento al primo grado di giudizio, la sua ammissibilità deve reputarsi nondimeno recuperata a seguito della sua riproposizione in grado d’appello, giacchè, come affermato costantemente, lo ius variandi di cui all’art. 1453 c.c., può essere esercitato in ogni stato e grado, e persino in sede di rinvio (Cass. n. 13003/2010, nonchè Cass. n. 12238/2011, secondo cui la deroga della norma in esame al divieto di “mutatio libelli” contenuto nell’art. 345 c.p.c. rappresenta una facoltà che può essere esercitata da parte appellata anche con la sola comparsa di risposta, senza necessità di dover proporre, nei termini e nelle forme previste dalla legge, impugnazione incidentale).

In ultima analisi deve ritenersi legittima anche la quantificazione della somma operata in primo grado e confermata in grado d’appello.

Infatti, dopo aver concentrato la propria decisione sulla sola richiesta di accertamento della legittimità del recesso di parte attrice, il Tribunale, non dovendo più verificare il quantum dell’ammontare per il risarcimento danni, si è esclusivamente limitato a condannare al versamento del doppio della somma che gli originari attori avevano consegnato all’odierno ricorrente a titolo di caparra ai sensi dell’art. 1385, comma 2, che stabilisce in misura forfettaria il pregiudizio esigibile dalla parte adempiente che si sia avvalsa del recesso.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al T.U. di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 gennaio 2020

Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2020

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