Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8042 del 29/03/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 29/03/2017, (ud. 25/10/2016, dep.29/03/2017),  n. 8042

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22083/2014 proposto da:

C.M., elettivamente domiciliato in ROMA VIA TARO 35,

presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO MAZZONI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GIANFRANCO RONDELLO, giusta delega

in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI ROVIGO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 224/2014 della COMM. TRIB. REG. di VENEZIA,

depositata il 05/02/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/10/2016 dal Consigliere Dott. LUCIO LUCIOTTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato RONDELLO che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato COLELLI che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

AUGUSTINIS Umberto, che ha concluso per il rinvio alle SS.UU., in

subordine accoglimento ricorso per il contribuente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Sulla scorta di un processo verbale di constatazione della G.d.F. da cui emergeva che nell’anno di imposta 2003 la s.a.s. C. Malvi di C.R. & C., unitamente ad altre società, di cui sfruttava i titoli abilitativi all’importazione a dazio doganale agevolato di aglio fresco di provenienza extracomunitaria, aveva posto in essere operazioni dirette ad aggirare il contingentamento stabilito in sede comunitaria per l’importazione di quel prodotto ed eludere, pertanto, i dazi doganali, la competente Agenzia delle entrate, contestando l’emissione e l’utilizzazione di fatture per operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti, recuperava a tassazione costi non deducibili per Euro 233.064,00 e rettificava il reddito di impresa della predetta società ai fini IRPEF che imputava pro quota ai quattro soci ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5. Notificava, quindi, cinque distinti avvisi di accertamento che la società ed i soci impugnavano dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Rovigo che, riuniti i ricorsi, li accoglieva annullando tutti gli avvisi.

2. La Commissione tributaria regionale del Veneto, dinanzi alla quale ricorreva in appello l’Agenzia delle entrate, sul rilievo che la società e tre soci della medesima ( C.R. ed A. e B.M.G.) avevano definito la lite fiscale ai sensi del D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12, convertito, con modificazioni, nella L. n. 111 del 2011 e sul presupposto che la definizione della lite da parte della società aveva reso definitivo non solo il reddito di impresa accertato a carico di questa, ma anche quello di partecipazione ai fini IRPEF imputato per trasparenza ai soci, ma non spiegava effetti sul ricorso proposto dal socio che non aveva acceduto alla predetta definizione agevolata, con sentenza n. 224 del 5 febbraio 2014 dichiarava cessata la materia del contendere in relazione alle impugnazioni degli avvisi di accertamento emessi nei confronti della società e dei soci B.M.G. e C.R. ed A. e confermava l’avviso di accertamento emesso nei confronti dell’altro socio C.M., accogliendo sul punto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate.

3. Al riguardo la CTR sosteneva che il predetto contribuente nell’appello proposto in via incidentale non aveva riproposto le doglianze inerenti l’illegittimità dell’atto impositivo e che andava rigettata la domanda di inapplicabilità delle sanzioni perchè il C., in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, aveva omesso di indicare i motivi specifici di impugnazione.

4. Avverso tale statuizione il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui replica l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la CTR dichiarato, in assenza di domanda avanzata dall’Agenzia appellante, la definitività dell’avviso di accertamento di maggior reddito di partecipazione del ricorrente quale conseguenza dell’intervenuta definitività dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società per avere questa definito la lite fiscale ai sensi del D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12, convertito, con modificazioni, nella L. n. 111 del 2011.

2. La censura è inammissibile in quanto il vizio di ultrapetizione viene dedotto come violazione di legge – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – e non come error in procedendo, ai sensi del n. 4 della citata disposizione.

2.1. Come ripetutamente affermato da questa Corte (cfr., ex multis, Cass. n. 329 del 2016) “l’omessa pronunzia da parte del giudice di merito integra un difetto di attività che deve essere fatto valere dinanzi alla Corte di cassazione attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell’art. 112 c.p.c., non già con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, giacchè queste ultime censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente scorretto ovvero senza giustificare o non giustificando adeguatamente la decisione resa”. Inammissibilità che, nei casi come quello in esame, non può essere superata (come afferma Cass. n. 21083 del 2015), “anche a seguito del nuovo indirizzo giurisprudenziale delle Sezioni Unite” (v. sent. 9100 del 2015), “che non richiede la formale ed esatta indicazione dell’ipotesi, tra quelle elencate nell’art. 360 c.p.c., comma 1, cui si ritenga di ascrivere il vizio, nè la precisa individuazione, nei casi di deduzione di violazione o falsa applicazione di norme sostanziale o processuali, degli articoli di legge”, se il ricorrente, nel lamentare la omessa pronuncia in ordine a una delle domande o eccezioni formulate, si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (cfr. Cass. n. 23117 del 2015) senza alcun riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione (cfr. Cass. n. 14130 del 2016).

2.2. Nel caso di specie il ricorrente si limita a rilevare la violazione della disposizione processuale senza mai far riferimento alla nullità che essa comporta, per cui è imprescindibile la dichiarazione di inammissibilità del motivo.

3. Con il secondo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12, convertito, con modificazioni, nella L. n. 111 del 2011 e L. n. 289 del 2002, art. 16. Viene censurata l’affermazione fatta dalla CTR al punto 15 della sentenza, secondo cui “il reddito del socio non può che derivare da quello che si è ormai consolidato in capo alla società. Ne consegue che nei confronti del contribuente (…) è divenuta definitiva la rettifica (…) del reddito di partecipazione da valere ai fini IRPEF, dei contributi previdenziali e della sanzione pecuniaria”.

4. Il motivo è fondato in quanto la giurisprudenza di questa Corte è pacifica nel ritenere l’autonomia degli accertamenti effettuati nei confronti della società di persone e dei soci, per i redditi di partecipazione di questi ultimi nella prima, e la non incidenza del condono cui uno di essi abbia aderito rispetto all’accertamento dell’altra. Si è infatti affermato che “in tema di condono fiscale, la definizione della lite pendente, ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 16”, che è espressamente richiamato dall’art. 39, comma 12, D.L. citato, “da parte di una società di persone non estende automaticamente i suoi effetti nei confronti dei singoli soci, trattandosi di beneficio lasciato al libero e personale apprezzamento di ciascun contribuente, sicchè non comporta alcuna preclusione all’esercizio del potere dovere di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta ad adeguare il reddito da partecipazione dei soci, che abbiano scelto di non avvalersi di tale istituto, a quello – ricalcolato in base al condono – della società” (cfr. Cass. n. 14858 del 2016; conf. n. 1803 del 2016, n. 7134 del 2014 e n. 17731 del 2006; in relazione al principio secondo cui il condono fiscale ottenuto dalla società – non estende automaticamente i propri effetti ai singoli soci, che devono, pertanto, presentare autonoma istanza per potersi avvalere del beneficio e nei confronti dei quali, pertanto, l’Amministrazione finanziaria conserva il potere di procedere ad accertamento cfr. Cass. n.12214/2010, n. 7134/2014, n. 757/2002, n. 4281/2001, n. 14392/2001, n. 13186/2000, n. 8597/2006).

4.1. Ne consegue, nel caso come quello in esame, in cui la società partecipata ed alcuni soci si sono avvalsi, in relazione all’anno 2003, del beneficio derivante dalla disposizione condonistica di cui al citato D.L. n. 98 del 2011, l’irrilevanza del condono fruito dalla società nei confronti del socio C.M., che non si è avvalso di quel beneficio, e la necessità di procedere ad autonomo accertamento nei confronti di quest’ultimo, pur dovendosi evidenziare che, in ogni caso, “l’imponibile preso a base dall’Ufficio per l’ammissione della società al beneficio possa essere assunto dal giudice tributario come riferimento per determinare in modo congruo il reddito dei singoli soci, in considerazione della correlazione logica, giuridica ed economica esistente tra il reddito della società e quello di partecipazione dei soci, e quindi della necessità che, nella determinazione di quest’ultimo, si tenga conto dell’imponibile accertato e definito nei confronti della società stessa” (in termini, Cass. n. 17731 del 2006).

4.2. Il mezzo di impugnazione esaminato va quindi accolto in quanto la sentenza impugnata non si è attenuta ai suddetti principi, essendosi la CTR espressa anche in termini assolutamente contraddittori, avendo affermato (al punto 14 di pag. 7) che “la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sono concordi nel ritenere che la definizione da parte della società della lite concernente le imposte accertate a proprio carico nell’atto impositivo non ha alcuna rilevanza ai fini dell’accertamento del reddito di partecipazione in capo ai soci”, rilevando subito dopo (punto 15) la definitività del reddito di partecipazione del socio come conseguenza necessaria di quella del reddito della società.

5. Con il terzo motivo, con cui viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 49, 53 e 61, il ricorrente censura l’affermazione dei giudici di appello laddove hanno ritenuto che il ricorrente avesse omesso di riproporre in appello i motivi di impugnazione inerenti l’illegittimità dell’accertamento di maggiori redditi di partecipazione.

6. Va preliminarmente rilevata l’ammissibilità del motivo benchè il ricorrente abbia trascurato di indicare, tra le disposizioni ritenute violate, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, che regolamenta il principio devolutivo nell’ambito del processo tributario, prescrivendo che “le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza della commissione provinciale, che non sono specificamente riproposte in appello, s’intendono rinunciate”.

6.1. Invero, come questa Corte regolatrice ha più volte affermato, l’errata indicazione delle norme di legge violate non è causa di inammissibilità del motivo, allorchè, come nel caso di specie, “le ragioni giuridiche della doglianza e le relative norme di riferimento siano desumibili dall’insieme degli argomenti addotti dal ricorrente” (cfr. Cass. n. 1606 del 2005, n. 12127 del 2004, ma anche Cass. n. 10501 del 1993 e S.U. n. 9652 del 2001).

7. Neppure è ipotizzabile l’inammissibilità del motivo di ricorso per essere stata la censura proposta come violazione di legge anzichè come violazione di norma processuale, dovendosi in questo caso – e diversamente da quanto rilevato con riferimento al primo motivo di ricorso sopra esaminato – fare applicazione del nuovo indirizzo giurisprudenziale inaugurato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 9100 del 2015, che non richiede, ai fini dell’ammissibilità del motivo, nè la formale ed esatta indicazione dell’ipotesi, tra quelle elencate nell’art. 360 c.p.c., comma 1, cui si ritenga di ascrivere il vizio, nè la precisa individuazione, nei casi di deduzione di violazione o falsa applicazione di norme sostanziale o processuali, degli articoli di legge (v. Cass. n. 21083 del 2015).

8. Nel merito, il motivo è palesemente fondato, alla stregua del contenuto delle controdeduzioni depositate dal ricorrente in appello riprodotto in parte qua, in ossequio al principio di autosufficienza, nel motivo di ricorso in esame (pagg. 111 e segg.) – da cui emerge che, contrariamente a quanto sostenuto nell’impugnata sentenza di merito, il contribuente aveva riproposto tutte le censure mosse nel ricorso introduttivo all’avviso di rettifica dei redditi di partecipazione nella s.a.s. C. Malvi di C.R. & C., e lo aveva fatto in maniera specifica (in ossequio al principio affermato da questa Corte nella sent. n. 24267 del 2015 ed altre successive conformi), addirittura proponendo appello incidentale (sulla questione degli interessi moratori e dell’irrogazione delle sanzioni, anche per infedele dichiarazione – vedasi pagg. 39 e 40 del ricorso, nonchè punto 7 della motivazione della sentenza gravata), nonostante non ve ne fosse bisogno, mancando una statuizione, anche implicita, di rigetto (sul punto, ex multis, Cass. n. 14925 del 2011). A ciò aggiungasi che neppure la controricorrente sembra negare la fondatezza del motivo in esame laddove ritiene semplicemente irrilevante la questione in esame per avere la CTR ritenuto definitivo l’avviso di accertamento nei confronti della società.

9. In estrema sintesi, il primo motivo di ricorso va dichiarato inammissibile mentre vanno accolti gli altri due motivi, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Veneto che rivaluterà l’intera vicenda anche alla stregua del principio affermato da questa Corte in tema di operazioni di importazione di aglio fresco in regime di contingentamento comunitario – che ha costituito il presupposto della pretesa impositiva – secondo cui “in applicazione dei principi rivenienti dalla sentenza della Corte di giustizia dell’UE del 14 aprile 2016, causa C-131/14, C. e Malvi, se in via astratta di principio il diritto dell’UE (e in particolare le norme rilevanti ivi indicati dei regolamenti 565/2002 e 2988/95) non osta a un meccanismo mediante il quale un importatore tradizionale, che non disponga di un titolo nell’ambito del contingente GATT, si rivolga a un altro operatore comunitario che, acquistata la merce da un fornitore extracomunitario, la ceda allo stato estero ad altro importatore il quale, senza trasferire il proprio titolo, immetta la merce nel mercato dell’UE e poi la rivenda all’importatore tradizionale, compete in ogni caso al giudice nazionale verificare in concreto che detto meccanismo non si connoti come abuso del diritto. Tale abuso va accertato verificando che:

a) anzitutto, in relazione alle esigenze che il meccanismo, dal punto di vista dell’elemento oggettivo rivelatore di una pratica abusiva:

– non comporti un’influenza indebita di un operatore sul mercato e, in particolare, un’elusione, da parte degli importatori tradizionali, del divieto di superamento di quantità superiore alla quantità di riferimento dell’importatore di cui trattasi;

– non comporti violazione dell’obiettivo:

– secondo cui le domande di titoli devono essere connesse ad un’attività commerciale effettiva, e non meramente apparente;

– che ogni fase del meccanismo si svolga a fronte di un prezzo corrispondente al prezzo di mercato (in tal senso ogni operatore coinvolto deve percepire una remunerazione adeguata per l’importazione, la vendita o la rivendita della merce di cui trattasi, che gli consenta di mantenere la posizione assegnatagli nell’ambito della gestione del contingente);

– e che l’importazione a dazio agevolato venga effettuata mediante titoli legalmente ottenuti dal loro intestatario;

b) in secondo luogo, una volta accertato il sussistere dell’elemento oggettivo sub a), in relazione all’esigenza che sussista l’elemento soggettivo di conferire al secondo acquirente nell’unione un vantaggio indebito:

– l’importazione sia stata finalizzata a conferire un tale vantaggio indebito a detto secondo acquirente;

– le operazioni siano prive di qualsiasi giustificazione economica e commerciale per l’importatore nonchè per gli altri operatori intervenuti nel meccanismo (dato riscontrabile dal giudice nazionale, ad esempio, a seconda se il prezzo di vendita della merce sia fissato a un livello tale da permettere o meno all’importatore e agli altri operatori intervenuti nel meccanismo di trarre un guadagno considerato normale o abituale, nel settore interessato, per il tipo di merce e di operazione in questione)” (cfr. Cass. nn. 2067, 2068 e 2069 del 2017).

Il giudice del rinvio provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie gli altri, cassa la sentenza impugnate e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2017

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