Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8038 del 01/04/2010

Cassazione civile sez. I, 01/04/2010, (ud. 10/12/2009, dep. 01/04/2010), n.8038

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere –

Dott. SALVATO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

P.G., C.A. e P.I., quali eredi di

P.C. – domiciliati ex lege in ROMA, presso la Cancelleria

della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’avv. MARRA

Alfonso Luigi, in virtù di procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

Ministero della giustizia in persona del Ministro pro-tempore;

– intimato –

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma depositato il

28.12.2006;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del

10 dicembre 2009 dal Consigliere Dott. Luigi Salvato;

P.M., S.P.G. Dr. GAMBARDELLA Vincenzo.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

P.G., C.A. e P.I., quali eredi di P.C., adivano la Corte d’appello di Roma, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex Lege n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio promosso dalla loro dante causa innanzi al Pretore di Nola, in funzione di giudice del lavoro, proposto con ricorso del novembre 1984 e pendente innanzi alla Corte d’appello di Napoli, in sede di rinvio dalla Corte di cassazione.

La Corte d’appello, con decreto del 28.12.2006, riteneva che, “tenuto altresì conto dei periodi di tempo intercorsi per la proposizione del ricorso in appello, del ricorso per cassazione e del ricorso in sede di riassunzione in sede di rinvio”, la complessiva durata del processo, per 4 fasi di giudizio, in anni 8,6, non aveva ecceduto il termine di ragionevole durata del giudizio; quindi rigettava la domanda, dichiarando compensate le spese del giudizio.

Per la cassazione di questo decreto hanno proposto ricorso P. G., C.A. e P.I., quali eredi di P. C., affidato a sei motivi; non ha svolto attività difensiva il Ministero della giustizia.

Ritenute sussistenti le condizioni per la decisione in Camera di consiglio è stata redatta relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comunicata al Pubblico Ministero e notificata ai ricorrenti.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- La relazione sopra richiamata ha il seguente tenore:

“1.- I sei motivi denunciano erronea e falsa applicazione di legge (L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 6 p. 1 CEDU), in relazione al rapporto tra norme nazionali e la CEDU, nonchè della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e di questa Corte ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, omessa decisione di domande (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.; artt. 112 e 132 c.p.c.) e, in sintesi, pongono le seguenti questioni:

a) relative alla efficacia della CEDU nell’ordinamento interno ed all’efficacia vincolante per il giudice nazionale della giurisprudenza della Corte EDU (sostanzialmente riproposta in tutti i motivi, richiamando sentenze della Corte europea e di questa Corte;

in tutti i motivi è anche reiterata la tesi della vincolatività del parametro temporale e di liquidazione del danno stabiliti dalla Corte EDU; nel primo riassuntivamente, in buona sostanza, sono indicati gli argomenti poi ribaditi negli altri mezzi) ed è formulato il seguente quesito “la L. n. 89 del 2001 e specificamente l’art. 2 costituisce applicazione dell’art. 6 par. 1 CEDU e in ipotesi di contrasto tra la Legge Pinto e la CEDU, ovvero di lacuna della legge nazionale si deve disapplicare la legge nazionale ed applicare la CEDU?” (motivo 2);

b) Questioni relative alla durata ed al periodo di tempo di riferimento per la liquidazione del risarcimento.

L’istante deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto avrebbe lamentato l’irragionevole durata della sola fase d’appello, sulla quale la Corte del merito non si sarebbe pronunciata, decidendo invece la domanda concernente la “somma complessiva di tutti i gradi del giudizio, che effettivamente sommati non superano un termine irragionevole” (motivo 1, pg. 3 del ricorso).

Inoltre, deducono che il parametro di durata ragionevole del giudizio, fissato dalla giurisprudenza in tre anni per il primo grado, non sarebbe applicabile al processo del lavoro e previdenziale, in considerazione della disciplina che lo caratterizza e sono, quindi, formulati i seguenti quesiti di diritto: “è corretto determinare (…) la durata ragionevole del processo in anni due per il primo grado e in un anno e mezzo per il giudizio di appello, ovvero qual è la durata ragionevole del presente processo ?” (motivo 3); sostengono che il periodo da considerare ai fini della liquidazione dell'”equo indennizzo” è l’intera durata del processo (motivo 4 e 5); il decreto non si è pronunciato sulla domanda concernente il bonus di Euro 2.000,00, che spetterebbe nelle cause aventi ad oggetto (a materia previdenziale ed i diritti dei lavoratori (motivo 6).

2.- I motivi sono in parte manifestamente inammissibili, in parte manifestamente infondati In linea preliminare va peraltro evidenziata la manifesta la inammissibilità delle argomentazioni (e dei corrispondenti profili dei quesiti) incongrue, non correlate alla ratio decidendi del decreto, che ha in parte accolto la domanda.

Analoga conclusione si impone in ordine alle deduzioni che si risolvono in generiche affermazioni sulla diretta applicabilità delle sentenze della Corte di Strasburgo, formulate in modo del tutto inconferente e scollegato con la motivazione del decreto.

Ancora preliminarmente, va premesso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il quesito dì diritto richiesto dall’art. 366 bis c.p.c., è inadeguato, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso, quando non sia conferente rispetto alla questione che rileva per la decisione della controversia, quale emerge dall’esposizione del motivo (Cass. S.U. n. 8466 del 2008; n. 11650 del 2008); quando si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame (Cass. S.U. n. 6420 del 2008); quando non abbia attinenza nè col giudizio nè col motivo formulato, ma introduca un tema nuovo ed estraneo (Cass. n. 15949 del 2007); quando la sua formulazione non sia precisa, ma si concreti in quesiti multipli o cumulativi (Cass. n. 5471 del 2008; n. 1906 del 2008), logicamente e giuridicamente contraddittori. Posta questa premessa, si osserva:

a) relativamente alle questione sub a), ammissibile e rilevante per l’incidenza su quelle ulteriori, va ribadito il principio enunciato dalle S.U., in virtù del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea. Siffatto dovere opera, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001 (sentenza n. 1338 del 2004). In termini analoghi è il principio enunciato dalla Corte costituzionale, che, contrariamente all’assunto dell’istante, che si palesa perciò manifestamente erroneo, ha affermato che al giudice nazionale “spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme.

Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale “interposta”, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1″ (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).

Resta dunque escluso che, in caso di contrasto, possa procedersi alla “non applicazione” della norma interna, in virtù di un principio concernente soltanto il caso del contrasto tra norma interna e norma comunitaria.

In questi termini è il principio che può essere enunciato in relazione al quesito posto con il secondo motivo, che rivela la manifesta infondatezza della censura, nei termini in cui è stata proposta.

b) In ordine al primo motivo, va ribadito l’orientamento di questa Corte, secondo il quale, pur essendo possibile individuare degli “standard” di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest’ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, così come accade nell’ipotesi in cui il giudizio si svolga in più gradi e fasi, agli effetti dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU occorre – secondo quanto già enunciato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo – avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dall’introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa riparazione, dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva del processo anzidetto, alla maniera in cui si è concretamente articolato (per gradi e fasi appunto), così da sommare globalmente tutte le durate.

Infatti, queste ineriscono all’unico processo da considerare unuitariamente, secondo quanto induce a ritenere il fatto che, a norma dell’art. 4 della citata legge, ferma restando la possibilità di proporre la domanda di riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, tale domanda deve essere avanzata, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il procedimento stesso, è divenuta definitiva (Cass. n. 8717 del 2006; n. 28864 del 2005; n. 3143 del 2004).

Di questa principio ha fatto corretta applicazione la Corte d’appello, con conseguente manifesta infondatezza del primo motivo.

Inoltre, i ricorrenti neppure hanno specificamente censurato la durata stabilita dalla corte d’appello, in quanto hanno anzi espressamente dedotto che la “somma complessiva di tutti i gradi del giudizio, che effettivamente sommati non superano un termine irragionevole” (pg. 3 dei ricorso), lamentando – infondatamente- che è stata operata appunto la valutazione dell’intero processo ed evocando una durata delle fasi difforme dal parametro CEDU e che non vale a far ritenere specificamente contestata la valutazione globale, da essi anzi considerata corretta.

I restanti mezzi, concernenti la misura dell’indennizzo sono manifestamente inconferenti.

Infatti, una volta esclusa incensurabilmente la violazione del termine di ragionevole durata, resta esclusa la sussistenza del presupposto del diritto all’equo indennizzo, con conseguente inconferenza delle questioni attinenti alla misura dello stesso.

Pertanto, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, ricorrendone i presupposti di Legge”.

2.- Il Collegio reputa di dovere fare proprie le conclusioni contenute nella relazione, in quanto danno applicazioni a principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, pure indicata nella relazione, con conseguente rigetto del ricorso.

Non deve essere resa pronuncia sulle spese di questa fase, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 1 aprile 2010

 

 

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