Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8033 del 23/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 23/03/2021, (ud. 06/10/2020, dep. 23/03/2021), n.8033

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7193/2013 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore Generale pro tempore,

rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato,

con domicilio in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– ricorrente –

contro

EDILGROS s.p.a. in liquidazione, in concordato preventivo, in persona

del legale rappresentate pro tempore, rappresentata e difesa, per

procura speciale in atti, dall’Avv. Claudio Coggiatti, con domicilio

eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Lazio, n. 20/c;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del

Piemonte n. 45/14/12, depositata il 22 agosto 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 6 ottobre

2020 dal Consigliere Michele Cataldi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla Edilgros s.p.a. due avvisi di accertamento, in materia di Ires, con i quali, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 39, comma 2, e art. 40 ha rettificato il reddito imponibile della contribuente per gli anni d’imposta 2004 e 2005, sulla scorta di un processo verbale di constatazione della Guardia di finanza.

L’Ufficio (come risulta dalla parte dell’avviso relativo al 2004, trascritta nel ricorso, con la precisazione che essa coincide sul punto con l’accertamento di cui al 2005, senza contestazioni della controricorrente) ha infatti rilevato che la contribuente aveva esposto, nei bilanci di esercizio di cui alle predette annualità, ingenti crediti, di natura commerciale, derivanti da contratti di appalto per la costruzione di unità abitative, nei confronti di cinque società debitrici, di cui era amministratore, unico o delegato, G.G., che nel 2006 era altresì titolare del 95% della stessa Edilgros s.p.a.

Una di tali debitrici, la Lamarmora s.r.l., era altresì di proprietà della medesima Edilgros s.p.a., nella misura del 50%.

La correlazione tra la contribuente creditrice e le società debitrici è stata così rappresentata dall’Amministrazione nell’atto impositivo: “Le società debitrici (…) sono di proprietà della famiglia G. e sono gestite attraverso il Consiglio di Amministrazione o Amministratore Unico della stessa famiglia, unica titolare delle azioni della società Edilgros”.

L’Ufficio ha rilevato altresì che le dilazioni accordate dalla contribuente per i pagamenti dei crediti in questione eccedevano ampiamente i termini ordinari, senza che fossero state intraprese, nei confronti delle debitrici, azioni legali finalizzate alla riscossione delle rispettive sorti e degli interessi, che secondo la contribuente ne avrebbero compromesso la recuperabilità.

Inoltre, l’Amministrazione ha sottolineato che tale prassi (nel processo verbale constatata con riferimento al periodo 2004-2007) nella gestione dell’incasso dei crediti commerciali era stata mantenuta dalla contribuente esclusivamente nei confronti delle predette debitrici (alle quali essa era come sopra correlata), non anche con il resto della clientela.

Tanto premesso, l’Amministrazione ha ritenuto che, per le predette modalità concrete, il rapporto tra la contribuente e le predette società sue debitrici, anche in considerazione della correlazione “familiare” di queste ultime con la prima, potesse qualificarsi come “un’operazione di finanziamento a medio-lungo termine”, richiamando a conforto di tale interpretazione delle predette circostanze anche il principio contabile n. 15, già elaborato dalla Commissione per la statuizione dei Principi Contabili del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti (CNDC) e del Collegio Nazionale dei Ragionieri (CNR), secondo il quale il credito commerciale la cui scadenza rappresenti una dilazione di pagamento non usuale sul mercato sottintende un operazione finanziaria e non deve essere iscritto nell’attivo circolante, ma nelle immobilizzazioni finanziarie.

Qualificata pertanto la fattispecie della dilazione in termini di “operazione di finanziamento a medio-lungo termine”, l’Ufficio ha poi assunto che ad essa fosse applicabile, ai fini fiscali che qui rilevano, la disciplina civilistica del mutuo, di cui all’art. 1813 c.c., quanto meno per quanto attiene il carattere normalmente oneroso del contratto, previsto dall’art. 1815 c.c., comma 1, secondo il quale “Salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante. Per la determinazione degli interessi si osservano le disposizioni dell’art. 1284”.

Di conseguenza, l’Amministrazione ha ritenuto applicabile all’operazione in questione anche il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 45 (già 42), comma 2, in materia di determinazione di redditi da capitale, a norma del quale “Per i capitali dati a mutuo gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto. Se le scadenze non sono stabilite per iscritto gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta. Se la misura non è determinata per iscritto gli interessi si computano al saggio legale”.

Pertanto, considerato che dall’esame delle scritture contabili della contribuente non era risultato contabilizzato alcun provento a titolo di interessi maturati sui crediti in questione, nè la società aveva effettuato alcuna corrispondente variazione in aumento dell’imponibile fiscale in sede di dichiarazione fiscale per gli anni d’imposta accertati, l’Ufficio ha rettificato l’imponibile della contribuente, includendovi i redditi consistenti negli interessi attivi maturati in relazione al capitale finanziato ed al saggio legale d’interesse, e dunque quantificando la maggior imposta dovuta.

2. La contribuente ha impugnato l’atto dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Torino, che ha rigettato il ricorso.

3. La contribuente ha allora impugnato la sentenza di primo grado dinnanzi la Commissione tributaria regionale del Piemonte che, con la sentenza n. 45/14/12, depositata il 22 agosto 2012, ha accolto l’appello, annullando gli atti impositivi controversi.

4. L’Ufficio ha quindi proposto ricorso, affidato a tre motivi, per la cassazione della sentenza di secondo grado.

5. La contribuente si è costituita con controricorso, depositando successivamente una memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, l’Ufficio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamenta la violazione o falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 45, comma 2, per avere il giudice a quo affermato che tale norma non avrebbe potuto consentire il recupero a tassazione degli interessi attivi maturati sui crediti in questione, “in quanto non applicati dall’appellante” contribuente (così la sentenza della CTR, a pag. 5). Rileva infatti l’Amministrazione che, erroneamente, il giudice a quo non ha applicato la presunzione legale relativa di percezione degli interessi, prevista da tale norma, come dimostrato dalla circostanza che, nella stessa motivazione, non ha fatto alcun riferimento all’eventuale prova contraria offerta dalla contribuente.

2. Con il secondo motivo, l’Ufficio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis (ovvero nella versione di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2), lamenta la motivazione insufficiente circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dagli elementi allegati dall’Amministrazione per sostenere che l’operazione controversa avesse la natura sostanziale di “autonoma operazione finanziaria, occasionalmente ma causalmente collegata ai rapporti di appalto, i quali, appunto, avevano costituito la mera occasione per accordare finanziamenti ad imprese in varia misura collegate alla Edilgros o ai suoi azionisti”.

I fatti oggetto della censurata insufficienza motivazionale, come si evince dal corpo del motivo, consisterebbero nelle non usuali, rispetto alla prassi commerciale e comunque al resto della clientela, prolungate dilazioni di pagamento.

La CTR, secondo l’Ufficio ricorrente, si sarebbe limitata, sul punto, alla mera ed insufficiente menzione di una parte del principio contabile nazionale n. 19, secondo il quale possono darsi ipotesi di debiti a lungo termine che non comportino il pagamento di interessi, o che prevedano il pagamento di interessi sensibilmente bassi.

3. Con il terzo motivo, l’Ufficio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamenta la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, commi 5 e 9, per avere il giudice a quo affermato “non corretto il concetto di antieconomicità, in quanto i rapporti in questione sono riferiti a società dello stesso gruppo, e pertanto eventuali interessi attivi della Edilgros s.p.a., e conseguenti interessi passivi a carico delle società appaltanti, non avrebbero influito sulla situazione reddituale del gruppo, se non addirittura in maniera negativa con il sostenimento di spese legali”. Secondo la ricorrente, “anche a voler prescindere dall’erroneo riferimento ad un gruppo societario, perchè, come si è visto, Edilgros e le beneficiarie dei finanziamenti non erano società collegate (salvo in un caso)”, sarebbe errata la conclusione del giudice d’appello, perchè violerebbe il principio di inerenza dei costi e dei ricavi, che non consentirebbe ai contribuenti di allocare i componenti reddituali presso l’una o l’altra delle società, attraverso operazioni che non trovino altra giustificazione sul piano economico.

Ulteriore censura viene poi denunciata, nel corpo del motivo, con riferimento all’irrilevanza dell’affermazione della CTR secondo la quale non sussiste “alcun obbligo, da parte del creditore, di dover applicare interessi nel caso di pagamenti dilazionati”, trattandosi di conclusione sostanzialmente indifferente rispetto al thema decidendum, ovvero alla riqualificazione, da parte dell’Ufficio, in termini di finanziamento (e quindi di possibile fonte di reddito da capitale) erogato dalla contribuente alle società debitrici, della dilazione di pagamento, di durata superiore alle usuali condizioni di mercato. Tale riqualificazione, infatti, non era sostenuta sulla base di un ipotetico “obbligo” del creditore, non negandosi in radice che l’autonomia negoziale delle parti possa disporre anche in ordine agli accessori del credito.

4. Appare opportuno premettere, salve successive eventuali precisazioni, l’individuazione di alcuni aspetti della controversia, ai fini della successiva trattazione ulteriore dei singoli motivi.

4.1. Nella prospettazione dell’Amministrazione, i crediti in questione, almeno per quanto riguarda la sorte, trovano formalmente titolo nei contratti d’appalto conclusi con società terze, quali obbligazioni delle appaltanti di pagare all’appaltatrice il corrispettivo pecuniario. Tuttavia, l’Ufficio assume che a tali contratti d’appalto sarebbero collegati negozi paralleli di finanziamento, con i quali l’appaltatrice, dilazionando sine die (al di fuori delle usuali condizioni di mercato e di ordinari criteri di economicità) la realizzazione dei propri incassi, avrebbe finanziato le singole appaltanti, procurando loro sostanzialmente credito. Tali operazioni collegate di finanziamento sarebbero dunque produttive di interessi, costituenti redditi derivanti dal prestito prolungato dei relativi capitali, ciò che costituisce la tesi dell’Ufficio impositore e l’oggetto della lite.

L’attribuzione, ai fini fiscali, della causa concreta di finanziamento alle dilazioni di pagamento concesse dalla contribuente nei rapporti commerciali dai quali derivano i crediti, e la conseguente classificazione degli interessi come redditi derivanti dall’impiego di capitale, poggiano sulla rilevazione che, nel caso di specie: le “dilazioni per i regolamenti finanziari eccedono ampiamente i termini ordinari (60-90 gg fine mese data fattura”; la “prassi di dilazionare in tempi molto lunghi rispetto all’ordinario la riscossione dei crediti ha da sempre caratterizzato il comportamento della società verificata solo però nei confronti delle società” appaltanti, che sono “di proprietà della famiglia G. e sono gestite attraverso il Consiglio di Amministrazione o Amministratore Unico della stessa famiglia, unica titolare delle azienda della società Edilgros” (così gli avvisi d’accertamento, in parte qua come trascritti nel ricorso); la medesima condotta della contribuente, nei rapporti con le predette debitrici, si è protratta per molti anni (il processo verbale che ha dato origine agli accertamenti riguarda rettifiche per gli anni dal 2004 al 2007).

E’ quindi la riqualificazione dell’operazione negoziale che, nella tesi erariale, determina l’individuazione di un rapporto, collegato all’appalto, di finanziamento tra la Edilgros creditrice e ciascuna delle sue debitrici.

Tale contratto di finanziamento, una volta accertato, legittima poi, secondo la tesi dell’Amministrazione, ma avversata dalla contribuente, l’applicazione della normativa in materia di mutuo, sia per quanto riguarda la disposizione civilistica (art. 1815 c.c., comma 1) che prevede una presunzione legale di onerosità dello stesso contratto, ovvero l’obbligo per il mutuatario di corrispondere al mutuante gli interessi al tasso legale, o a quello maggiore pattuito per iscritto (art. 1815 c.c., comma 1, e art. 1284 c.c.); sia, per quanto soprattutto qui interessa, la presunzione legale relativa, ai fini fiscali, anche dell’an e del quando della percezione di tali interessi, dettata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 45, comma 2, secondo cui: “Per i capitali dati a mutuo gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto. Se le scadenze non sono stabilite per iscritto gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta. Se la misura non è determinata per iscritto gli interessi si computano al saggio legale”.

4.2. E’ opportuno precisare peraltro che, nella normativa fiscale, la “dilazione di pagamento” di un credito non è, di per sè sola, idonea a qualificare come contratto di finanziamento il titolo dal quale è scaturito il credito “dilazionato” e come reddito da capitale la percezione dei relativi interessi. Infatti, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, ultimo periodo, in tema di classificazione dei redditi, statuisce che: “Gli interessi moratori e gli interessi per dilazione di pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati”.

Tale disposizione (fermo restando che comunque, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81 il reddito complessivo delle società commerciali, da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito d’impresa) evidenzia pertanto che, per l’ordinamento, la “dilazione di pagamento”, ex se, in genere produce interessi che condividono la categoria fiscale del credito avente ad oggetto la relativa sorte.

4.3. Tanto premesso – ferma la circostanza che la decorrenza di interessi al tasso legale, in difetto di diversa convenzione nel titolo, è un effetto comune, in generale, ai crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro (artt. 1282 s.s. e, per gli interessi moratori, art. 1224 c.c.; cfr. altresì D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 5) nell’accertamento controverso, e nelle conseguenti difese dell’Amministrazione riproposte in questa sede, il presupposto fattuale e giuridico dell’imposizione è ravvisato nella ritenuta sussistenza di un contratto, tra la contribuente e ciascuna delle società sue debitrici, di finanziamento. Dunque, per quanto qui rileva, è solo la riqualificazione sostanziale della concessione della “dilazione di pagamento” in un’ operazione avente causa concreta di finanziamento che, nella tesi erariale, giustifica la presunzione legale relativa che gli interessi in questione siano stati percepiti dalla contribuente creditrice, e che tale percezione sia avvenuta nell’ammontare maturato negli anni d’imposta di cui all’accertamento, come da D.P.R. n. 917 del 1986, art. 45, comma 2, sul quale si fondano infatti gli accertamenti controversi. Appare quindi pregiudiziale, in questa sede, l’esame del secondo motivo del ricorso erariale, con il quale si censura la motivazione insufficiente della sentenza impugnata circa gli elementi allegati dall’Amministrazione, per sostenere che l’operazione controversa avesse la natura sostanziale di “autonoma operazione finanziaria, occasionalmente ma causalmente collegata ai rapporti di appalto, (…) per accordare finanziamenti ad imprese in varia misura collegate alla Edilgros o ai suoi azionisti”.

Infatti, l’accertamento che le operazioni controverse non fossero mere dilazioni di pagamento di crediti commerciali, ma avessero una causa concreta finanziaria, costituisce il necessario presupposto, fattuale e logico, dell’esame dell’ulteriore e controversa questione della riconducibilità delle stesse operazioni alla fattispecie legale astratta del “mutuo” e, comunque, della questione della possibile interpretazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 45, comma 2, come comprensivo anche di contratti con funzione di finanziamento non necessariamente coincidenti con il negozio tipico di cui agli artt. 1813 s.s. c.c..

Del resto, anche quando questa Corte, in altra occasione, ha ritenuto l’applicabilità della presunzione legale relativa (ai sensi, nel caso di specie, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 43) di percezione degli interessi attivi, con riferimento alla fattispecie dell’omessa contabilizzazione di interessi sui crediti commerciali vantati da una società verso i propri clienti, ha argomentato la fondatezza della pretesa impositiva sul carattere normalmente oneroso del mutuo ex art. 1815 c.c., presupponendo quindi necessariamente che, almeno in quel caso, il rapporto tra le parti configurasse in fatto un operazione di finanziamento riconducibile alla relativa fattispecie astratta (Cass. 21/04/2010, n. 9469, in motivazione).

4.4. Infine, è necessario premettere anche che la controricorrente, nelle proprie difese avverso il primo motivo di ricorso, ha eccepito che si sarebbe formato il giudicato in ordine al “capo della decisione impugnata” concernente l'”assunto della non assimilabilità, in via analogica, della dilazione di pagamento per cui è causa al contratto di mutuo”, non censurato nel ricorso dall’Amministrazione come ipotetica violazione di legge.

Il relativo passo della motivazione è quello nel quale la CTR ritiene che non ” possa sussistere la presunzione che la dilazione del credito contrattuale abbia una causa assimilabile al mutuo”.

Il periodo in questione, di non immediata comprensibilità, va interpretato nel contesto dell’intera motivazione, ed in particolare con riferimento alla circostanza che nel periodo precedente della parte motiva (che, in senso proprio, si riduce a metà dell’ultima delle cinque pagine di cui è composta la sentenza) la CTR – per considerazioni attinenti i principi contabili – ha escluso che, nel caso di specie, nelle dilazioni dei pagamenti fossero ravvisabili operazioni aventi funzione concreta di finanziamento.

Pertanto, a monte dell’accoglimento dell’appello, si colloca la negazione, da parte del giudice a quo, che sia stata realizzata l’operazione finanziaria che l’Ufficio, riqualificando la concessione delle dilazioni di pagamento, assume a presupposto dell’imposizione.

Tanto premesso, la negazione che esista una “presunzione che la dilazione del credito contrattuale abbia una causa assimilabile al mutuo”, se intesa con riferimento ad un ipotetica presunzione legale, è di per sè irrilevante ai fini della decisione, in quanto l’esistenza di un contratto, diverso ed ulteriore rispetto a quello d’appalto, che abbia una funzione concreta di finanziamento, non è basata su una “presunzione” legale, ma è devoluta all’allegazione ed alla prova dell’Ufficio, come infatti ha inteso la medesima CTR, argomentando sul relativo accertamento nella parte precedente della motivazione.

Deve pertanto ritenersi che, per quanto impropriamente, con l’espressione in parola (introdotta con la formula “La presente commissione ritiene quindi…”) la CTR abbia inteso trarre le conseguenze delle valutazioni in fatto che precedono nella stessa motivazione, riaffermandole ai fini di escludere, in base agli elementi indiziari dedotti dall’Ufficio, che le dilazioni di pagamento rivelassero in concreto la natura di operazioni finanziarie.

Si tratta, quindi, proprio di quella causa petendi che il ricorso erariale aggredisce puntualmente, in particolare con il secondo motivo, per cui non vi è giudicato interno sul punto.

Tanto premesso ai fini del rigetto della relativa eccezione, può aggiungersi che comunque il giudicato interno può formarsi solo su capi di sentenza autonomi, che cioè risolvano una questione controversa avente una propria individualità ed autonomia, così da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente; mentre sono privi del carattere dell’autonomia i meri passaggi motivazionali, ossia le premesse logico-giuridiche della statuizione adottata, come pure le valutazioni di meri presupposti di fatto che, unitamente ad altri, concorrono a formare un capo unico della decisione (Cass. 04/10/2018, n. 24358; Cass. 31/01/2018, n. 2379; Cass. 18/09/2017, n. 21566); sicchè l’acquiescenza alle parti della sentenza non impugnata non si verifica quando queste si pongano in nesso conseguenziale con altra e trovino in essa il suo presupposto (Cass. 23/09/2016, n. 18713), come si verifica nel caso di specie tra il predetto passaggio motivazionale e quelli precedenti.

Altra questione, rispetto alla natura fattuale effettiva delle operazioni controverse, è quella, di diritto, relativa alla riconducibilità alla fattispecie di cui al D.P.R. n. 917 del 1986. art. 45, comma 2, anche di fattispecie negoziali aventi una causa concreta di finanziamento, ma non coincidenti totalmente con il contratto tipico di mutuo di cui all’art. 1815 c.c..

La rilevanza di tale ultima questione presuppone, infatti, che sia stato previamente accertato, in fatto, che delle operazioni di finanziamento siano state effettivamente realizzate e quali siano state le loro caratteristiche concrete.

Accertamento che, nel caso di specie, la CTR ha escluso, ritenendo che le dilazioni di pagamento non rivelassero la funzione di finanziare le debitrici.

5. Venendo dunque al secondo motivo di ricorso (al quale è applicabile ratione temporis l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2) deve premettersi che esso è ammissibile, giacchè, a differenza di quanto eccepito nel controricorso, non si limita a sollecitare una diversa valutazione, favorevole alla contribuente, delle risultanze di causa, ma individua specifici fatti sui quali la valutazione da parte del giudice a quo appare effettivamente insufficiente, evidenziando un’obiettiva carenza dell’iter logico-argomentativo che ha portato il giudice a regolare la vicenda al suo esame in base alla regola concretamente applicata (cfr. Cass. 24/05/2018, n. 12967, ex plurimis).

Invero, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di accertamento delle imposte, l’Amministrazione finanziaria, assumendo il correlativo onere probatorio, ha il potere di riqualificare – prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa – i contratti sottoscritti dal contribuente, ovvero di farne rilevare la simulazione o altri profili di invalidità, quale la nullità per mancanza di causa, e, conseguentemente, applicare un trattamento fiscale meno favorevole di quello conseguente agli effetti ricollegabili allo schema negoziale impiegato (Cass. 19/05/2010, n. 12249; conformi, ex plurimis, Cass. 27/01/2014, n. 1568 e Cass. 21/06/2016, n. 12782 del 21/06/2016, in tema di simulazione).

L’adempimento dell’onere erariale di prova che la condotta tenuta dalla contribuente nel rapporto con le sue debitrici manifestasse la volontà negoziale concludente di rapporti di finanziamento con queste ultime presupponeva quindi l’adeguata allegazione dei relativi elementi sintomatici.

Secondo l’Ufficio ricorrente, uno di tali elementi, non valutati a sufficienza dal giudice a quo, consisterebbe nella circostanza che la contribuente creditrice ha di fatto tollerato per lungo tempo che il pagamento di diversi crediti venisse dilazionato, ben oltre i termini usuali sul mercato, senza che, per la concessione di tale beneficio, le appaltanti debitrici abbiano apparentemente sopportato l’onere finanziario degli interessi, neppure nella misura di legge.

La rilevanza sintomatica di tale condotta, secondo l’Ufficio, era accentuata dalla circostanza che essa era inusuale, oltre che rispetto alle comuni pratiche commerciali, anche con riferimento alle condizioni praticate nel medesimo contesto dalla stessa appaltatrice ad altri clienti, diversi dalle società appaltanti in questione, che non godevano di analogo trattamento.

Le circostanze oggettive in questione non sono qui controverse, se non sotto il profilo della loro rilevanza sintomatica ai fini dell’accertamento, in fatto, dell’esistenza del rapporto di finanziamento allegato dall’Ufficio. Tale apprezzamento è stato motivato dalla CTR in modo effettivamente insufficiente ed obiettivamente carente nell’iter logico-argomentativo. Infatti, il giudice a quo ha motivato prescindendo dai fatti in questione ed argomentando in modo del tutto astratto, ovvero limitandosi a dare atto che il richiamato principio contabile nazionale n. 19 del CNDC e del CNR prevede che possano anche darsi ipotesi di debiti a lungo termine, con scadenza superiore all’esercizio, che non comportino il pagamento di interessi, o che prevedano il pagamento di interessi sensibilmente bassi.

Tuttavia, l’astratta descrizione del contenuto del principio contabile (peraltro attinente alla contabilità del debitore, e quindi non direttamente pertinente al caso di specie), contrapposto all’invocazione di quello n. 15 (relativo al creditore) da parte dell’Amministrazione, non è stata affatto correlata dal giudice d’appello alla fattispecie concreta sub iudice, cosicchè l’ipotesi del debito a lungo termine privo di accessori è rimasta un’astratta enunciazione (neppure corretta, atteso che il principio contempla contemporaneamente l’eventualità che invece siano applicati interessi, sebbene in misura ridotta), senza rilevarne l’effettiva ricorrenza nel caso di specie.

Può quindi concordarsi con la ricorrente che il giudice d’appello ha reso, in ordine all’accertamento dei rapporti effettivi intercorsi tra la contribuente e le sue debitrici, una valutazione che ha motivato solo astrattamente, senza dare atto, neppure sinteticamente, dell’apprezzamento concreto delle caratteristiche fattuali emerse dall’istruttoria.

Quanto poi alla natura potenzialmente decisiva di tali ultime circostanze, essa deriva dalla considerazione che, nella prassi commerciale, possono frequentemente realizzarsi forme di finanziamento indiretto (a volte definite anche crediti mercantili o di fornitura, cui corrispondono i cosiddetti debiti di funzionamento o di regolamento) che sorgano in relazione alle normali operazioni commerciali, quando i fornitori di merci o di servizi concedano, inizialmente o nel corso del rapporto, ai loro clienti una dilazione di pagamento che ecceda quella usuale di adempimento del corrispettivo pecuniario. In questi casi, quindi, il finanziamento è determinato dalla modalità di pagamento del corrispettivo dell’operazione commerciale. Infatti, come rileva il principio contabile O.I.C. n. 15, in particolare al paragrafo D.III.a), i crediti che si originano dallo scambio di merci, prodotti e servizi sono valori numerari e costituiscono la contropartita dei relativi ricavi. Essi rappresentano conti di disponibilità di denaro a termine. La disponibilità di denaro a termine comporta un immobilizzo finanziario; pertanto, le condizioni di pagamento hanno un effetto diretto sull’ammontare dei ricavi che originano il credito. Se i termini di pagamento sono lunghi, il mantenimento di condizioni finanziarie fisiologiche comporta la necessità di ottenere un corrispettivo, ossia un interesse (esplicitato ovvero implicito nel ricavo e quindi nel credito), per il periodo di indisponibilità del numerarlo, che costituisce il corrispettivo finanziario.

Ed anche ponendosi nell’ottica del debitore, come ha ritenuto di fare la CTR, il principio O.I.C. n. 15 trova comunque corrispondenza nel successivo principio n. 19, in particolare ai paragrafi M.XI. e successivi, che in tema di scorporo di interessi passivi compresi in costi e debiti relativi all’acquisizione di beni e servizi, rileva che “Il pagamento a termine comporta una dilazione nell’esborso finanziario da parte dell’acquirente e si presume che le parti abbiano tenuto conto di un adeguato compenso (interesse o corrispettivo finanziario) per la disponibilità di denaro a termine”.

La circostanza, poi, che lo stesso principio 19, al paragrafo M.XII, preveda (in conformità al principio 19 del CNDC e del CNR, sul quale ha argomentato la CTR) anche la possibile esistenza di debiti a lungo termine senza interessi o con interessi sensibilmente bassi, i quali, “non derivando da operazioni di scambio di beni e servizi, non richiedono la scissione tra il valore del bene e l’elemento finanziario”, da un lato non appare strettamente inerente al caso sub iudice, nel quale si discute proprio di crediti/debiti che trovano titolo in rapporti di fornitura di servizi; dall’altro, comunque, non esime dalla necessaria valutazione in fatto della fattispecie concreta, omessa dal giudice a quo nei termini già rilevati.

L’accoglimento del secondo motivo di ricorso conduce pertanto alla cassazione della sentenza impugnata, con rinvio al giudice a quo per i necessari accertamenti in fatto.

6. Rimane assorbito dall’accoglimento del secondo motivo il primo, con il quale l’Ufficio, lamenta che, erroneamente, il giudice a quo ha escluso che fossero imponibili gli interessi attivi, maturati sui crediti in questione, “in quanto non applicati dall’appellante”, senza fare alcun riferimento all’eventuale prova contraria offerta dalla contribuente e, pertanto, senza applicare la presunzione legale relativa di percezione degli interessi, prevista dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 45, comma 2.

Invero, la motivazione esposta nella decisione impugnata appare, sul punto, equivoca, così recitando: “La Commissione non ritiene pertanto corretto l’operato dell’Ufficio nell’aver recuperato l’importo degli interessi attivi maturati, pari al 2,50%, ai sensi dell’art. 45, comma 2 del TUIR, in quanto non applicati dall’appellante”.

L’interpretazione letterale e logica di tale periodo deve muovere dalla considerazione che esso va collegato con quelli precedenti, nei quali, come già rilevato, lo stesso giudice d’appello ha in radice escluso (in particolare per le ragioni attinenti i principi contabili) che, nel caso di specie, nelle dilazioni dei pagamenti fossero ravvisabili operazioni negoziali di finanziamento. Dunque, l’affermazione della CTR che gli interessi non sarebbero stati applicati dall’appellante deriva dalla ritenuta inesistenza dell’operazione finanziaria, allegata dall’Amministrazione al fine di applicare il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 45, comma 2, e non costituisce invece l’espressione di un accertamento (privo infatti di riferimento ai relativi dati istruttori) che tali interessi, supposti come dovuti, non siano stati effettivamente percepiti dalla creditrice.

L’accoglimento del secondo motivo, attingendo proprio l’accertamento (ora devoluto al giudice del rinvio) della sussistenza e della natura effettiva dell’operazione riqualificata dall’Amministrazione (in difetto del quale neppure si porrebbe la questione dell’eventuale applicabilità del D.P.R. n. 917 del 1986, ridetto art. 45, comma 2) è quindi necessariamente assorbente rispetto all’ipotetica applicazione della presunzione relativa di percezione degli accessori ed alla verifica dell’assolvimento della prova contraria da parte del contribuente.

7. L’accoglimento del secondo motivo determina l’assorbimento, almeno in parte, anche del terzo, con il quale l’Ufficio censura, per violazione di legge, l’affermazione della CTR secondo cui “si ritiene non corretto il concetto di antieconomicità, in quanto i rapporti in questione sono riferiti a società dello stesso gruppo, e pertanto eventuali interessi attivi della Edilgros s.p.a., e conseguenti interessi passivi a carico delle società appaltanti, non avrebbero influito sulla situazione reddituale del gruppo, se non addirittura in maniera negativa con il sostenimento di spese legali”.

Infatti nel contesto (non sempre rigorosamente logico) della motivazione tale argomentazione, sebbene premessa a quelle successive che escludono la sussistenza dell’operazione finanziaria controversa e la stessa debenza degli interessi, prende invece in considerazione, in termini dichiaratamente eventuali, l’ipotesi contraria, assumendo nella sostanza che qualora le dilazioni di pagamento avessero generato quegli interessi che sostiene l’Amministrazione, l’impatto reddituale, e quindi fiscale, che esse avrebbero avuto sarebbe stato irrilevante, poichè all’interno del “gruppo” (non meglio identificato sotto il profilo fattuale e giuridico) gli interessi attivi a favore della creditrice controricorrente sarebbero stati “compensati” da quelli negativi a carico delle società debitrici.

La circostanza che tale conclusione sia stata esposta dal giudice a quo in via meramente eventuale ed incidenter tantum, rispetto al resto della motivazione, è condivisa sostanzialmente da ambedue le parti (cfr. ricorso, pag. 10, e controricorso, pagg. 20 ss.), che le attribuiscono una potenziale rilevanza, ai fini della decisione in appello, solo nell’ipotesi – non verificatasi- nella quale la CTR avesse ravvisato nella fattispecie concreta la sussistenza delle operazioni di finanziamento dedotte dall’Amministrazione ed avesse ritenuto applicabili a queste ultime la presunzione d’onerosità propria del mutuo.

Pertanto, per le ragioni già esposte a proposito del secondo motivo, l’accoglimento di quest’ultimo assorbe la trattazione e la decisione del terzo.

Resta pertanto precluso, in questa sede, l’esame delle censure dell’Ufficio ricorrente in ordine all’esistenza, nel caso di specie, di un “gruppo” di società, e comunque all’esclusione di ogni possibile rilevanza degli “eventuali” interessi attivi, derivanti dall’assunto finanziamento, in conseguenza della circostanza che i relativi rapporti di credito e debito intercorrano fra società del medesimo “gruppo”.

7.1. E’ invece inammissibile l’ulteriore censura denunciata, nel corpo del terzo motivo, con riferimento all’affermazione del giudice a quo che “non vi sia alcun obbligo, da parte del creditore, di dover applicare interessi nel caso di pagamenti dilazionati”.

Infatti, come rileva lo stesso Ufficio ricorrente, si tratta di una conclusione condivisibile, ma sostanzialmente indifferente rispetto al thema decidendum, ovvero alla riqualificazione, da parte dell’Ufficio, in termini di finanziamento erogato dalla contribuente alle società debitrici, delle dilazioni di pagamento.

Invero, l’accertamento non si fonda sull’allegazione di alcun “obbligo” giuridico del creditore di richiedere interessi al debitore cui conceda una dilazione di pagamento. Pertanto, secondo la stessa deduzione del ricorrente nel corpo del terzo motivo, la formula utilizzata dalla CTR non esprime, in parte qua, una ratio decidendi rilevante sulla decisione finale.

PQM

Accoglie il secondo motivo di ricorso e dichiara assorbito il primo e, nei termini di cui in motivazione, il terzo;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 6 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2021

 

 

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