Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8031 del 23/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 23/03/2021, (ud. 02/10/2020, dep. 23/03/2021), n.8031

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. CENICCOLA Aldo – est. Consigliere –

Dott. PANDOLFI Catello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 1416/2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (CF (OMISSIS)), in persona del Direttore p.t.,

rapp.ta e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato,

elettivamente domiciliata in Roma alla v. dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

P.A., (CF (OMISSIS)), rapp.to e difeso per procura a margine

del ricorso dagli avv. Maria Francesca Florino e Mario Cannata,

elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo in Roma

alla via della Mercede n. 11;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 37 depositata in data 11 ottobre 2013 della

Commissione tributaria regionale della Liguria;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

giorno 2 ottobre 2020 dal relatore Dott. Aldo Ceniccola.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Con sentenza n. 37/9/13, depositata in data 11 ottobre 2013, la Commissione tributaria regionale della Liguria, in accoglimento del ricorso di P.A., disponeva in favore del ricorrente il rimborso, a cura dell’Amministrazione Finanziaria, della somma di Euro 114.741,23, oltre interessi.

Evidenziava la CTR che il ricorso avverso il comportamento inerte dell’Ufficio, proposto a seguito della domanda di rimborso, era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Genova; a seguito dell’appello proposto dall’Ufficio, con una prima pronuncia la CTR aveva dichiarato le somme non dovute, ma la sentenza era stata cassata con rinvio dalla Corte di Cassazione con l’enunciazione del seguente principio di diritto: “In tema di imposte sui redditi di lavoro dipendente, dalla lettura coordinata del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 2, e art. 46 (sul primo dei quali nessuna innovazione deve ritenersi abbia apportato al D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 32 – convertito nella L. 22 marzo 1995, n. 85 -, peraltro non applicabile alla fattispecie “ratione temporis”), si ricava che, al fine di poter negare l’assoggettabilità ad IRPEF di una erogazione economica effettuata a favore del prestatore di lavoro da parte del datore di lavoro, è necessario accertare che l’erogazione stessa non trovi la sua causa nel rapporto di lavoro, e, se ciò non viene positivamente escluso, che l’erogazione stessa, in base all’interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà nè in redditi sostituiti, nè nel risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri, cioè successivi alla cessazione od all’interruzione del rapporto di lavoro” (Cass. 15305 del 2009). Poichè, secondo la Corte, i giudici avevano, invece, concluso per l’indiscriminata tassabilità delle predette indennità, senza però pronunciarsi circa la possibilità di considerare il caso di specie come un’eccezione alla regola generale sopra indicata, la sentenza impugnata doveva essere conseguentemente cassata.

La CTR, nel compiere l’indicato accertamento, negava che l’indennità supplementare corrisposta al ricorrente trovasse la propria radice nel rapporto di lavoro intercorso con la Lombarda Petroli s.p.a., in quanto nel verbale di conciliazione, sottoscritto a seguito del licenziamento del dirigente, le parti avevano dato atto del carattere risarcitorio della predetta indennità e che il relativo importo non era soggetto a ritenuta fiscale. Inoltre, occorreva considerare che: il rapporto dirigenziale era già stato risolto antecedentemente rispetto al verbale di conciliazione; l’indennità era stata riconosciuta nella misura massima; il giorno successivo alla conciliazione, il P. era stato assunto come dirigente di altra società, anch’essa operante nel settore petrolifero.

Tutti questi elementi, secondo la CTR, nell’insieme considerati, inducevano a far ritenere che l’erogazione dell’indennità non trovasse la propria causa nel rapporto di lavoro e che essa, in base all’interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti nella trattativa e negli atti posti in essere, non trovasse la propria fonte nè in redditi sostituiti, nè nel risarcimento dei danni consistenti nella perdita di redditi futuri, cioè successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, onde non poteva essere assoggettata all’IRPEF e dunque andava rimborsata al contribuente.

Avverso tale sentenza l’Ufficio ricorre per cassazione mediante due motivi. Resiste il contribuente mediante controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo l’Ufficio si duole dell’erronea applicazione dei principi in materia di onere probatorio, avendo la CTR erroneamente posto a carico dell’Ufficio l’onere di dimostrare la natura non risarcitoria dell’indennità, e del principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale l’indennità prevista dal contratto collettivo dei dirigenti di aziende industriali, per l’ipotesi di ingiustificato licenziamento, è assoggettata a tassazione separata ed a ritenuta d’acconto e che non è sufficiente che sia precisato il suo carattere risarcitorio, in quanto costituisce risarcimento anche il ristoro di emolumenti non percepiti, tassabili ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2.

2. Con il secondo motivo l’Ufficio si duole dell’insufficienza motivazionale su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), avendo la CTR dato rilievo ad elementi logicamente inidonei a sorreggere le conclusioni riguardanti la natura dell’indennità.

3. Prima di procedere all’esame dei motivi, giova preliminarmente chiarire che la CTR, in sede di rinvio, era stata chiamata ad accertare se l’indennità supplementare, riconosciuta al ricorrente nel verbale di conciliazione sottoscritto a seguito del licenziamento, trovasse la propria causa nel rapporto di lavoro intercorso tra le parti, ovvero mirasse a risarcire un pregiudizio non immediatamente collegato al venir meno della percezione dei redditi a seguito dell’interruzione del rapporto di lavoro.

3.1. Infatti, come statuito recentemente da Cass. 5108 del 2019, “In tema di imposte sui redditi da lavoro dipendente, le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a tassazione solo se, ed entro i limiti in cui, siano volte a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi (cd. lucro cessante), mentre non sono assoggettabili a tassazione quelle intese a riparare un pregiudizio di natura diversa (cd. danno emergente)”.

3.2. Conseguentemente, nel compiere il prescritto accertamento, la CTR ha desunto la natura risarcitoria dell’indennità dal tenore testuale del verbale transattivo, dal comportamento della parte successivo alla transazione ed in considerazione dell’ammontare della somma riconosciuta.

3.3. L’ufficio ricorrente ha contestato siffatta qualificazione, insistendo sulla non significatività degli elementi presi in considerazione dalla CTR, e dunque sul difetto motivazionale, e sull’irrilevanza del riconoscimento della natura risarcitoria dell’indennità, possedendo tale natura anche la somma diretta a ristorare pregiudizi conseguenti alla cessazione del rapporto di lavoro.

4. Ciò premesso, deve rilevarsi che il primo motivo è inammissibile.

4.1. Anche a voler prescindere dal rilievo che il motivo, per come strutturato, è privo di un’autonoma rubrica e carente dell’indicazione delle norme che si assumono violate, le considerazioni ivi svolte circa l’asserita violazione dei principi in tema di onere della prova e dell’asserita irrilevanza della natura risarcitoria dell’indennità scontano un evidente difetto di autosufficienza, avendo il ricorrente provveduto a ritrascrivere solo un breve stralcio dell’atto transattivo che non consente di verificare se le somme percepite dal ricorrente a titolo risarcitorio fossero volte a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione dei redditi (e conseguentemente sottoposte a tassazione).

4.2. Potendosi pertanto in questa sede valorizzarsi solo il contenuto dell’atto transattivo per la parte specificamente riportata, deve evidenziarsi come la CTR abbia chiaramente desunto la natura dell’indennità da elementi, anche risultanti dal testo, dalla stessa considerati decisivi, onde il ricorrente, per contrastare efficacemente tale interpretazione, avrebbe dovuto operare un esplicito riferimento alle regole ermeneutiche, mediante l’indicazione delle norme asseritamente violate e specificando in che modo la CTR si sia discostata dai prescritti criteri legali.

4.3. Trattasi di un principio più volte affermato da questa Corte, secondo cui “In tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c.. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali” (cfr. da ultimo Cass. 15/11/2017, n. 27136).

5. Inammissibile è anche il secondo motivo.

5.1. In proposito deve rilevarsi che, trovando applicazione nel caso in esame l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione novellata dal D.L. n. 83 del 2012, conv., con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, la deduzione avente ad oggetto la persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione degli elementi fattuali e della loro significatività rispetto ad una determinata conclusione (nella specie, per avere la CTR considerato decisivi il tenore letterale della transazione, il comportamento successivo della parte e l’ammontare dell’indennità riconosciuta) attiene alla sufficienza della motivazione ed è, pertanto, inammissibile (cfr. ex multis Cass. 15/5/2018, n. 11863).

6. Le ragioni che precedono impongono la declaratoria di inammissibilità del ricorso. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

7. Deve darsi atto che non sussistono i presupposti per imporre alla ricorrente il pagamento del c.d. “doppio contributo” D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1-quater, trattandosi di Amministrazione pubblica e dunque ammessa alla prenotazione a debito del contributo ai sensi dell’art. 11 del Tusg.

PQM

dichiara il ricorso inammissibile. Pone le spese del giudizio di legittimità a carico del ricorrente, liquidandole in Euro 7.300,00 per compenso ed Euro 200 per spese vive, oltre al rimborso forfettario nella misura del 15% delle spese generali ed agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 2 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2021

 

 

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